Tra gli schiavi della Mauritania: “L’Islam è per i padroni”. Migliaia di "neri" continuano a essere proprietà degli arabi ricchi: “Non possiamo neanche pregare, solo ubbidire”, di Domenico Quirico
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Riprendiamo da La Stampa dell’8/6/2016 un articolo di Domenico Quirico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni Le nuove schiavitù e Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (2/10/2016)
AFP Una donna schiava con i suoi figli in
un sobborgo di Nouackhott - copyright La Stampa
Inviato a Nouackhott (Mauritania)
Esistono parole che fanno male come un morso, parole che non si possono dimenticare né perdonare. Parole che contengono veleno come il morso di un serpente. La parola schiavitù. Ma non nel senso in cui noi occidentali la usiamo, sfruttamento economico, il mal prezzo pagato a una fatica. No. Nel senso antico: la proprietà fisica di un uomo, disporre del suo destino e della sua vita, di ciò che è, fa, pensa, diventa, fin da bambino. Che puoi prestare all’amico che ne ha bisogno, cedere ai figli come dote quando si sposano. Che diventa schiavo automaticamente, nel momento in cui nasce da una schiava.
Nel terzo millennio questa realtà che emerge e che porta addosso i segni dell’abisso come un cetaceo naufragato con le proprie alghe, insieme ucciso e vitale, me la trovo davanti sulle coste dell’oceano, in Mauritania. Dove gli schiavi sono tutti «haratines», i mori neri che rappresentano il quaranta per cento della popolazione. Inchiodati alla croce del non esistere, anche se li puoi toccare, parlare con loro, vederli vivere. Che leggono invano testi di legge dove la schiavitù è dichiarata delitto. Questo popolo che non ha niente lo disdegneremo? Immergiamoci nella sua miseria. Lo vedremo completamente nudo, senza difese, con i suoi occhi da animale domestico. La sofferenza svela l’essenza delle cose, è il prezzo che bisogna pagare per guardare la vita in modo più profondo, più vicino alla verità.
I TEMPI DELLA TRATTA
Ai tempi della Tratta c’era un rito, il rito dell’Albero dell’oblio. Quando sulla costa del continente arrivavano le colonne degli schiavi catturati e venduti dopo guerre e raid scatenati per questo scopo, prima di imbarcarli sulle navi, attorno a questo albero si svolgeva una cerimonia per far loro dimenticare la terra, i parenti, il passato, rendere la mente vuota. Così, quando fossero morti, non sarebbero tornati a vendicarsi dei loro aguzzini. Consapevoli del loro delitto. In Mauritania non so se è esistito questo albero terribile: certo è che il rito ha funzionato, questi schiavi nostri contemporanei hanno più che dimenticato, vivono a fianco dei loro padroni felici di servirli, pronti a far scattare la loro devozione. Perfino la comune fede nell’Islam serve a tenerli in catene come un destino.
Nouackhott di notte quando si sbarca dall’aereo: diritte vie deserte, tetra città addormentata, impossibile immaginare qualcosa di meno esotico, di più brutto. Un po’ di animazione davanti ai caffè violentemente illuminati, risate volgari. Bambini chiedono l’elemosina porgendo una latta vuota, agli incroci, davanti al mercato; ti inseguono per lo più silenziosamente, al massimo con un pigolio di zanzara, tenaci, pacati come chi ha tutto il tempo inesorabile per vivere e per morire. Sono figli di schiavi, piccoli schiavi, i primi che incontro.
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IL QUARTIERE PIÙ POVERO
Città allo stato larvale che pare ancora nascosta nel sottosuolo. Troppo vasta per la sua scarsa attività. Se una grazia c’è consiste nella sua indolenza. Che la prima voce sia quella lieve, noncurante di Habj Rabah tutta avvolta nel nero: «La mia storia vuoi sapere? Una storia banale di una schiava con il suo padrone. Discendo da schiavi, non sono mai andata scuola, guardo il bestiame, faccio i lavori in casa, vado a cercare l’acqua, mi picchiano. Sono musulmana, ma mi dicono che non importa se non porto il velo e che non devo pregare. Sono schiava. Dio è per il padrone, per i “mori bianchi’’, gli arabi. Quello che è obbligatorio per lo schiavo è ubbidire».
Attorno bambini, molti bambini. Non bisogna mai chiedere agli «haratines» chi è il padre, non è «educato». Gli schiavi conoscono solo la madre, il padre può essere il padrone o uno dei suoi figli o un altro schiavo. Irrilevante.
Ora è giorno, dopo una rapida alba. E c’è Riyad da vedere, uno dei quartieri poveri dove vivono gli «haratines». Il taxi, un vecchio Mercedes, rugoso sdentato e sbocconcellato, lo guida un militante abolizionista. È stato in prigione con Biram Dah Abeid, il Mandela mauritano, indomito leader del movimento antischiavitù (Ira). È come entrare nelle viscere di un grande corpo, doppie, triple file di casupole messe insieme con assi di legno, pezzi di lamiera, teli, piuttosto tane che case. Gli edifici in muratura hanno le pareti corrose dal terreno salino, una malata fatiscienza che lavora e disfa, sono vivi e decomposti. Gli «haratines» vivono qui non perché sono stati liberati. I padroni, che non vogliono mantenerli, hanno detto loro di andarsene, di cercare di sopravvivere. Sanno che quando hanno bisogno, lavori in casa, il bestiame, i campi, servire, li possono chiamare e accorreranno. Cosa potrebbero fare? Non hanno documenti, senza il consenso del padrone non possono sposarsi e non troverebbero lavoro.
Qui gli unici arabi che vedi sono proprietari di negozi e dei grandi silos dove sono stoccati il riso e la farina: per attendere che i prezzi salgano. I loro magnifici boubous azzurri si gonfiano e fluttuano nel vento caldo come vele. I padroni, i «mori bianchi» non abitano qui, non c’è l’acqua corrente a Riyad, Riyad puzza. Infiniti asinelli dalle piaghe coperte da segni bluastri arrancano nella strade di sabbia, sospinti a bastonate, trascinando piccole cisterne piene di acqua. «Questa è l’acqua per gli “haratines’’, non è potabile, occorre farla bollire».
BAMBINI TRA I RIFIUTI
Il taxi passa attraverso questi luoghi umani come attraverso un muro di pazienza, secolare pazienza, piagata ma non avvilita. Queste casupole infime, barcollanti sono accanto a distese di immondizie in cui bambini cercano, tenendo in mano grandi sacchi bianchi, sopravvivenze immonde coperte di mosche. Pecore contendono loro la preda puzzolente, pecore che hanno occhi chiari, acini di uva o di vetro, che guardano in un modo particolare, uno sguardo assente, vitreo. Vibrano, a tratti, una lingua puntuta, violacea con cui leccano le immondizie. Donne e bambini stanno acquattati nell’ombra povera dei muri. Come strane creature del sottosuolo uscite ad osservarmi. Ero di un’altra materia, fatto di un altro elemento, io.
Che la seconda voce sia quella di Barka Asatin, che ha 28 anni, è giusto: oggi è libera grazie a una storia d’amore. «Mi hanno strappato a mia madre quando avevo cinque anni. Accompagnavo il padrone nella brousse per dar da bere al bestiame e poi lavoravo in casa. Un giorno il padrone mi ha stuprata. Non so nemmeno a che età, avevo appena indossato il velo, una bimba. È nato un figlio che il padrone ha regalato a sua figlia. Poi è stato il figlio del padrone a violarmi ed è nato un altro bimbo. Ma c’era un autista che non era schiavo, era pagato. Si è commosso alla mia condizione, ha deciso di cercare mia madre. L’ha trovata e mi ha portato via, ma il padrone si è infuriato e ha tenuto in ostaggio i miei figli. L’Ira ha iniziato una battaglia legale, giudici e polizia erano contro di me. Mia madre che pure mi ama mi ha denunciata per aiutare il padrone a riprendermi. Mia figlia è diventata folle, diceva. Mia madre. Alla fine abbiamo vinto, l’ho sposato, abbiamo un altro bambino e i due figli sono con me».
Riyad è un’esperienza stranamente liberatrice. Non c’è tentativo di velare, di nascondere la fondamentale ingiustizia dell’esistere, la sua qualità sporca vien vissuta con pacatezza rassegnata. Lasciamo parlare Said allora, che quando ha cercato di fuggire dal padrone aveva 15 anni e oggi ne ha 18: «La schiavitù ha segnato la mia vita, i miei fratellastri sono stati dispersi, dieci anni ho impiegato per ritrovarne uno, un’altra mia sorellastra ha rifiutato di lasciare il padrone, aveva paura. Ho scoperto che ero uno schiavo quando ho visto che trattavano gli altri bambini, i figli del padrone, diversamente da me».
Cosa è dunque la schiavitù? Sono venuto per vedere un mistero. Ma il mistero non si vede: si sente. Si esprime senza voce, come un sordomuto. Eppure ne sono piene le strade, i mercati, le campagne, le case dei ricchi. La schiavitù è un aria completamente pervasiva, ti accarezza come la lingua di un animale appena uscito dalle selve. Non dimenticare: sei in Mauritania, approdato in un pianeta dalle luci ignote e impossibili. Dunque non avete mai visto uno schiavo, nessuno vi ha detto esplicitamente di esserlo? Non siete andati allora al grande mercato di Nouackhott. Gli schiavi sono lì: spingono enormi pesi su incerte carriole, gettano il cemento in fragorose betoniere per costruire i mattoni, riempiono sacchi di carbone. Oppure non siete stati invitati a una festa nelle case ricche, di un alto funzionario ad esempio, o di un giudice, quelli che dovrebbero applicare le leggi contro «il crimine» della schiavitù.
LA LEGGE ISLAMICA
Le donne hanno indossato i loro boubous più belli, gomitoli di capelli ornano le teste, portano oro alle orecchie, braccialetti di argento ai polsi, vanno sventolando, magnifiche, i loro ventagli di palme. Ebbene gli schiavi sono intorno a voi: hanno lustrato le scale, imbiancato i muri, hanno preparato il cibo. Quando tutto sarà finito, gli invitati partiti, torneranno a Riyad, forse con qualche avanzo.
I segni della mancanza di libertà, della miseria non sono «sventure» qui. Vengono da lontano, migrano da vita a vita. Questo ne fa un luogo tragicamente impervio, pervaso da una drammatica incomunicabile dolcezza, un’indifferenza senza sdegno, senza rimorsi, senza indulgenza.
L’ultima parola spetta ad Hamadi che a vincere la schiavitù ha dedicato la vita: «Le leggi qui sono fatte per gettar polvere negli occhi degli occidentali. Ma tu sai che sei uno schiavo, i giudici applicano la legge islamica per cui la schiavitù è lecita. È quello che insegnano nelle scuole da cui escono i giudici. È una storia antica, quando gli arabo berberi che credevano che per esser nobili fosse necessario avere schiavi, li presero tra le tribù dei vinti e li spinsero a fare figli per averne molti. E poi per renderla intoccabile l’hanno coperta con la religione. Non è una questione di pelle o di classe o di povertà, è più complicato, qualcosa che ti entra in testa dall’infanzia. Lo schiavo non ha personalità, non sceglie, fa cosa dice il suo padrone, non ha esistenza come individuo, lo ama, è pronto a morire per lui».