“Quale ruolo per le élite musulmane di Francia?”, di Abd al-Haqq Ismail Guiderdoni
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Abd al-Haqq Ismail Guiderdoni pubblicato su Le Monde il 16/8/2016 e tradotto in italiano dallo stesso autore. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni, in particolare la sotto-sezione Islam: la questione della libertà religios, dei diritti e della violenza e la sotto-sezione La crisi dell'Islam odierno.
Il Centro culturale Gli scritti (29/8/2016)
N.B. de Gli scritti Un articolo come questo va accolto positivamente. Importanti sono le precise indicazioni sulla differenza che esiste fra l’Islam dei primi momenti e quello successivo ed è importante che si forniscano le prime chiavi interpretative per stabilire che cosa debba essere considerato universale nell’islam e cosa possa essere considerato invece particolare e storico. I condizionali con cui si affronta tale discorso presentandolo come un compito da realizzare indicano con sincerità – che apprezziamo – che la meta è ancora lontana, ma la direzione è buona. Si deve rilevare che, proprio per questo, l’articolo avrebbe potuto essere più coraggioso sulle questioni più spinose. Ad esempio una cosa è dire che deve essere riconosciuta dai musulmani la libertà di coscienza e chiedere che le élites musulmane si impegnino in questo, una cosa più incisiva sarebbe stato specificare che in questa libertà di coscienza vanno incluse la libertà per una donna musulmana di sposare un non musulmano, la libertà di un musulmano di cambiare religione, ecc. ecc. Senza queste specificazioni l’articolo potrebbe prestarsi a quella lettura della libertà, abituale fra i musulmani di oggi, che si limita a riconoscere lo status quo: i cristiani hanno la libertà di essere cristiani o di diventare musulmani se la loro coscienza glielo chiede, i musulmani hanno la libertà di essere musulmani, ma i maschi musulmani impediranno alle loro figlie di sposarsi con non musulmani o di cambiare religione, anche se esse in coscienza ne sentissero la verità.
Abd-al-Haqq Guiderdoni è Direttore dell’lnstitut des Hautes Etudes Islamiques (IHEI) e Vice-presidente della CO.RE.IS. (Comunità Religiosa Islamica) Italiana.
Essere musulmano e buon cittadino è possibile. Alle élite islamiche spetta di promuovere l’Islam intellettuale e spirituale contro il radicalismo.
I terribili attentati che hanno colpito, fra gli altri, la Francia, hanno fatto riemergere con forza la ricorrente questione della relazione tra la società francese e l'Islam. In questo contesto, le «élite musulmane di Francia» vengono sollecitate a prendere posizione per denunciare la violenza e contribuire a far cessare lo stato di disorganizzazione più o meno cronico in cui sembra versare oggi l'islam in questo Paese.
Ma come essere musulmano e buon cittadino? Quali leggi devono essere poste al di sopra delle altre: le «leggi di Dio» o le «leggi della Repubblica»? È peraltro corretto questo modo di porre la questione, come se entrambe queste leggi si situassero sullo stesso piano? Anche se i responsabili religiosi musulmani non hanno smesso di denunciare gli attentati e di mettere in guardia contro le scorrette assimilazioni, resta però radicata nello spirito di numerosi dei nostri concittadini l’idea secondo la quale l’Islam violento sarebbe in definitiva il vero Islam, e i difensori di un Islam pacifico sarebbero semplicemente degli ingenui o degli ipocriti. Ci viene detto: ma leggete il Corano! È pieno di versetti che incitano alla guerra. E questa violenza non è in fondo la prova che la religione in generale e l’Islam in particolare sono, come afferma il filosofo francese Yvon Quiniou, «un’impostura morale, intellettuale e politica»?
Eppure, le élite musulmane e cittadine esistono, come esistono quelle cristiane ed ebraiche, e proprio perché sono parte della cittadinanza, queste élite musulmane non pongono in primo piano la propria appartenenza religiosa e svolgono il proprio ruolo in seno alla società elevandosi, in primo luogo grazie alla scuola, verso posizioni di rilievo nel corpo dirigente, integrandosi fra universitari, ricercatori, medici ospedalieri, alti funzionari, dirigenti d’impresa, responsabili nazionali e locali... I nostri concittadini musulmani hanno aderito all’ideale repubblicano dell’uguaglianza e del merito. E, contrariamente all’opinione corrente, questa adesione non avviene a detrimento della fede.
Che ci venga ora concessa una dichiarazione e una testimonianza: la nostra appartenenza alla comunità nazionale e la nostra adesione all’Islam, adesione per alcuni di noi frutto di una precisa scelta, ci sembrano del tutto compatibili. L’identità di ciascuno di noi è intessuta di questa appartenenza, di questa adesione, e delle confluenze della propria storia personale. La nostra appartenenza cittadina ci fa aderire ai valori della Repubblica: la libertà - in primo luogo la libertà di coscienza - l’eguaglianza e la fraternità. Noi li intendiamo come i prolungamenti dei nostri valori religiosi. Noi aderiamo anche al principio della laicità, che rende possibile la pratica del nostro culto. Quanto al nostro ingaggio spirituale, ci ingiunge l’amore per il prossimo e di lavorare per il bene comune.
Il Corano, che costituisce per i musulmani la «parola di Dio», deve, proprio in quanto si presenta in una forma sintetica e miracolosa, essere soggetto a esegesi e a interpretazione: da una parte, infatti, il testo deve essere inteso nei suoi molteplici significati, dall’altra deve essere contestualizzato, collocato nell’Arabia del settimo secolo. Ciò che è in gioco è l’articolazione del messaggio universale del testo e un esempio di adattamento particolare dei suoi contenuti universali al contesto della rivelazione, la cronaca della predicazione nella società pagana della Mecca, seguita dalla costituzione della prima società musulmana a Medina. Poiché «non abbiamo omesso nulla dal libro» (Cor. 6:38), il Corano contiene naturalmente l’universale, unitamente a un particolare, che non può essere universalizzato senza cessare di essere un particolare.
In questo particolare si trova il racconto degli avvenimenti dell’epoca della rivelazione. Questi avvenimenti sono stati in parte militari, e dunque violenti. Non si tratta di sopprimerli dal testo - è assurdo voler «riformare» il Corano, come qualcuno ha proposto - ma di considerarli nella prospettiva appena illustrata, rifacendosi alla quale non possono divenire delle norme, se non delle norme simboliche, quelle del combattimento contro se stessi per migliorarsi, quello che il Profeta chiamava «la guerra santa contro l’anima» (jihad an-nafs).
Più di un secolo e mezzo dopo la fine della rivelazione, un nuovo adattamento a circostanze differenti si rendeva necessario, quello dell’impero abbaside, caratterizzato da sfide completamente differenti da quelle delle società moderne, e da costumi politici e sociali segnati dalle travagliate guerre civili. Ed è questa codificazione, particolarmente tardiva, a essere considerata oggi la sharia classica. Essa contiene prescrizioni liturgiche e rituali, ma anche la codificazione dei rapporti sociali. Le prescrizioni liturgiche e rituali, preghiera, digiuno, elemosina e pellegrinaggio, possono essere praticate senza problema, quanto alla normalizzazione dei rapporti sociali, essa è condizionata dal proprio tempo. Noi abbiamo infatti ormai un altro modo di guardare il mondo, la persona umana, la diversità delle religioni e credenze, l’organizzazione della società. Occorre quindi ricordare che le leggi di Dio sono innanzitutto delle leggi etiche e spirituali, che si tratta di saper vivere nella società in cui ci troviamo, accettando le leggi della Repubblica, che assicurano ai cittadini la possibilità di vivere insieme nonostante le loro differenze.
Ci sembra che l’aspirazione della maggior parte dei musulmani che vivono in Francia sia di riscoprire la grande tradizione intellettuale, scientifica, filosofica, etica e mistica dell’Islam, e di aprirlo agli scambi fra gli esseri umani nelle loro differenze culturali e religiose, e all’urgenza di costruire un avvenire comune su un pianeta le cui risorse appaiono ormai limitate.
Lavoriamo dunque a una migliore conoscenza dell’Islam nella sua ricchezza, interrogandoci sui suoi misteri, invece di ridurlo a formule per mezzo di cui indottrinare gli altri. La scuola gioca un ruolo essenziale in questo campo, trasmettendo non solo le regole del vivere insieme (quella che si è voluta chiamare «morale laica», che è di fatto molto vicina alle «morali religiose» nella loro accezione aperta), ma anche il fatto religioso nella sua dimensione originaria («gli inizi dell’Islam») e nella sua dimensione intellettuale in continuo movimento. E occorrono anche altri apporti che possano concorrere a una formazione continua dei nostri concittadini alle sfide di un mondo che si trasforma così velocemente.
Ciò che auspichiamo da parte dei poteri politici è che diano visibilità, sotto diverse forme e nello stretto rispetto del principio di laicità, alle iniziative di coloro che promuovono un Islam di conoscenza, al tempo stesso parte della cittadinanza e spirituale.