La palla nel calcio è se stessa e ricorda l'irruzione della vita, di Fabrice Hadjadj
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Riprendiamo da Avvenire del 3/7/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj. Per approfondimenti cfr. la sotto-sezione Educazione, creato e gioco (in fase di sistemazione) nella sezione Catechesi, famiglia e scuola.
Il Centro culturale Gli scritti (24/7/2016)
In principio era la palla. Non penso innanzitutto al «sole e l'altre stelle che l'amor move» e che hanno forma di palla (cosa che proverebbe ancora una volta a qual punto Dio sia giocatore).
Non penso neppure al pancione di una giovane madre che porta in sé un nuovo inizio del mondo (né ai suoi seni, del resto, che sono per il bambino i primi riferimenti rotondi, calorosi, elastici, nutrienti, i grandi mediatori tra il volto e le cose, e che costituiscono di conseguenza la matrice di tutti i futuri giochi di palla).
Sono questi dei veri punti di partenza, ne convengo. Ma è ad altro che penso, a una specie di aneddoto: due o tre ragazzini giocano a calcio per strada ed ecco che il pallone sfugge loro e rotola ai piedi di una persona adulta. Che cosa succederà ? Il passante la passerà?
Trattandosi di un serio professore di università, questi prosegue per la sua strada come se niente fosse – può anche essere che non abbia visto nulla, tanto è perso nei suoi pensieri. L'uomo d'affari invece non ha pensieri ma un telefono cellulare con il quale sta impartendo ordini di borsa: egli lascia che il pallone rimbalzi sui suoi pantaloni. La maliarda teme di sporcarsi o di perdere il suo contegno: fa uno scarto sui suoi tacchi alti e guarda l'oggetto rotolare come se fosse spazzatura – a meno che non indirizzi ai bambini il sorriso condiscendente di una sovrana in viaggio ufficiale. E c'è poi il supersportivo (forse il peggiore di tutti): s'impossessa subito dell'intruso e comincia una lunga dimostrazione della sua abilità di giocoliere per sorprendere i ragazzini che preferirebbero riprendere la loro partita.
L'irruzione del pallone poteva tirar fuori ciascuno dalla sua sfera. Ma l'occasione è stata rifiutata, ignorata. La possibilità di un inizio è stata disprezzata. Perché una palla si presta a tutto ciò in modo speciale. Gli antichi affermavano che tra tutti i solidi la sfera possiede la forma perfetta. Essa appare come un puro fiorire del punto, raccolta su se stessa, avvolta da una superficie unica, con i suoi contorni equidistanti da un solo centro.
Quando invece si considera la sfera come un pallone, la prospettiva cambia completamente. La sua perfezione diventa sfuggente. La sua chiusura è interamente aperta ai nostri giochi. Circola, rimbalza, si offre alla leggerezza del passaggio, al potere del tiro, alla spazialità della rimessa. Non avendo maniglie, non offrendo una presa in un punto definito, essendo fatta solamente di un tornante omogeneo che non diventa mai una linea diritta, suscitando tutt'intorno a sé il circo e la giostra, la palla vuole che le nostre mani scivolino su di essa e la facciano girare, essere ripresa senza tregua per sfuggirci senza tregua.
Essa è in questo senso la cosa per eccellenza, se distinguiamo una cosa da un oggetto di conoscenza o da un mezzo utilitario: si sottrae dandosi, è se stessa solo rinviando ad altro.
Ora, è nel calcio, mi sembra, che la palla è se stessa di più – da qui, probabilmente, la grande popolarità di questo sport. Si è spesso detto che il calcio è un sport da poveri. La pallacanestro richiede alti tabelloni, la pallamano un suolo duro e uniforme, la pallavolo una rete. Per il calcio, una traccia, un pezzo di legno, due pattumiere su un terreno vago bastano a definire un campo e delimitare una rete. Basta che il pallone non sia troppo sgonfio, e la bidonville si trasforma in campionato.
Prova che in questo caso, per i giocatori, la palla è la sola cosa necessaria e tutto il resto è accessorio, se non superfluo. Più fondamentale tuttavia, come dice la parola “football”, è che il rapporto con questa palla non si fa tramite la mano che afferra, ma con il piede che colpisce, e più ancora, nel dribbling che ricama, accarezza, palpeggia le estremità di due gambe che farebbero sognare le cavallette ed i cerbiatti.
Anche qui c'entra la povertà: il calciatore rinuncia agli organi che lo distinguono delle bestie che hanno artigli e zoccoli – le sue mani, «strumenti degli strumenti» secondo Aristotele, parti capaci del tutto, potendo tutto raccogliere e tutto tenere.
Che lezione per i transumanisti che vorrebbero dotarsi di protesi super-performanti! Perché è da questa diminuzione, e non dall'aumento, che procede la gloria del giocatore. Accetta di «farlo con i piedi» ed ecco che il suo piede appare nobile quanto la sua destra, diventa il luogo dell'intelligenza, inventa un maneggiamento miracoloso, in un capovolgimento, una discesa che potrebbe ricordare il mistero dell'incarnazione e della redenzione.
F.J.J. Buytendijk osserva che l'atto del giocare con i piedi «comporta in generale più rischi perché compromette la stabilità dell'atteggiamento corporale». Si sa che la posizione eretta ha permesso la liberazione delle braccia e delle mani. Ora, all'improvviso, il suo significato si inverte. La questione dell'equilibrio risale verso le braccia investite del ruolo di bilanciere, mentre la libertà scorre nelle gambe. La posizione diventa critica, avventurosa. Non permette di mantenere la posa (ed ecco perché il professore e la maliarda disdegnano di colpire col piede).
Ma l'accettazione del ridicolo si trasforma in acrobazia o anche nella corsa spettacolare di un'ala che nello sprint spinge la palla davanti a sé. Siccome il giocatore è sempre fuori dall'equilibrio e il suo piede non può acchiappare la palla, non si trova qui la discontinuità che si incontra negli altri giochi di palla. Occorre che questa rotoli, circoli, vada sempre dall'uno all'altro (il passaggio è più efficace del più prodigioso dribbling) con la fluidità e l'estensione nervosa di un uccello, o di un pesce fantastico che riorganizza incessantemente il suo elemento e non è fermato nella sua capricciosa traiettoria che dal colpo di scena della rete, brusca, verticale, vera rottura fenomenale.
Perché, per questo, occorre ciò che si chiama “riuscita”. Nel linguaggio calcistico, la riuscita fa coincidere il buon lavoro e la buona fortuna. È ad ogni istante aspettata ed imprevedibile, perché non è il semplice risultato di un accanimento o di una prodezza tecnica. Il tiro può essere centrato quanto si vuole eppure la palla non entra. Il portiere l'intercetta, il palo si immischia, il compagno di squadra lo devia, lo spirito soffia dove vuole… La partita è l'opera degli uomini, ma la vittoria è un dono degli dei. Tale è la grazia della palla al piede: in un mondo di controllo, in una sfera ripiegata su se stessa, ricorda l'irruzione della vita.