In una madrasa l'inedito del filosofo cristiano, di Giorgio Bernardelli
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Riprendiamo da Avvenire del 7/7/2015 un articolo di Giorgio Bernardelli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (24/7/2016)
Una ventina di opere sconosciute di un grande filosofo cristiano della Baghdad del decimo secolo sono tornate alla luce a Teheran grazie a un codice manoscritto custodito nella biblioteca di una madrasa – una scuola islamica. Ad annunciare la scoperta è stato qualche giorno fa il blog dell’American Philosopical Association: un articolo apparso sul sito ha dato conto di alcune nuove ricerche condotte da Rob Wisnovsky, uno studioso della McGill University, sulla figura di Yahya ibn Adi, filosofo siriaco considerato tra i protagonisti in quella catena di filosofi che nel mondo arabo ha tramandato il pensiero di Aristotele, giunto poi nell’Europa medievale attraverso i commentari di Averroè e Avicenna.
Yahya ibn Adi era nato nel 893 a Tikrit, nel nord dell’Iraq, a quel tempo ancora il cuore culturale del cristianesimo siriaco. Da lì si era poi trasferito a Baghdad, la capitale del califfato, dove aveva studiato la logica aristotelica alla scuola di al Farabi, il più grande filosofo musulmano dell’epoca. In questo ambiente aveva portato un nuovo contributo attraverso traduzioni dal siriaco all’arabo di ulteriori opere filosofiche greche. E aveva poi costituito una sua scuola filosofica, frequentata da allievi tanto cristiani quanto musulmani. Yahya ibn Adi visse a Baghdad fino alla sua morte, avvenuta nell’anno 974, divenendo uno dei punti di riferimento culturali della città. Fu un grande maestro di logica; ma il dato più interessante è che alcune delle sue opere più famose sono dedicate alla spiegazione del dogma della Trinità a partire dalle categorie aristoteliche. Un fatto, questo, che rivela come – nel contesto della Baghdad del X secolo – i filosofi cristiani e musulmani discutessero tra loro in maniera aperta anche su questioni teologiche, con il metodo tipico del confronto intellettuale.
Pur essendo un nome pressoché ignoto al di fuori del circolo ristretto degli studiosi, tutto questo di Yahya ibn Adi in realtà lo si sapeva già. La vera novità sta nel fatto che adesso sarà possibile studiare più a fondo il suo pensiero grazie alla mole notevole di nuove opere ritrovate. Una scoperta resa possibile dalle nuove frontiere della digitalizzazione: come racconta infatti Wisnovsky, del codice manoscritto custodito nella madrasa si sapeva solo genericamente che conteneva – insieme a scritti di filosofi islamici – anche opere di Yahya ibn Adi. Grazie però all’aiuto di un collega iraniano, che ne ha effettuato una digitalizzazione completa, lo studioso americano ha potuto scoprire con sorpresa che almeno una ventina di testi non era contenuto negli inventari delle opere attualmente esistenti. Così è iniziato lo studio dei nuovi scritti del filosofo siriaco che proprio sulla questione del rapporto tra pensiero teologico e pensiero religioso ha dato già risultati interessanti.
La riflessione sulla Trinità a partire dalle categorie aristoteliche – infatti – nei nuovi scritti appare ancora più accurata. Inoltre Yahya ibn Adi affronta anche temi specifici del pensiero teologico musulmano; ad esempio c’è una critica da un punto di vista logico a una prova islamica dell’esistenza di Dio che non riteneva sufficientemente fondata. In generale sembra emergere in maniera evidente quanto la sua autorevolezza sull’esegesi del pensiero di Aristotele fosse riconosciuta da tutti. «Quando questi trattati saranno resi disponibili, tradotti e studiati – conclude il professor Peter Adamson sul blog dell’American Philosopical Association –, avremo un quadro più accurato della recezione del pensiero di Aristotele tra gli arabi. Ma già ora appare chiaro che, quanto a livello degli studi su Aristotele, grazie a Ibn Adi e ai suoi colleghi, la Baghdad del decimo secolo non aveva nulla da invidiare all’Alessandria del quinto, alla Parigi del tredicesimo e all’Oxford del ventesimo secolo». E soprattutto – aggiungiamo noi – conferma quanto quel cristianesimo di matrice siriaca, che la guerra di oggi sta brutalmente spazzando via dall’Iraq, sia invece un tassello fondamentale della storia e della cultura del Paese. Che non può finire semidimenticato sulla polvere di qualche scaffale.