1/ Il cibo divorato dalla fame dell'oro, di Fabrice Hadjadj 2/ Leggere tra gli skyline della nuova Chicago, di Fabrice Hadjadj
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1/ Il cibo divorato dalla fame dell'oro, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 12/6/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj. Per approfondimenti, cfr. la sezione Ecologia, nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2016)
Nella scena finale de Gli intoccabili compare in primo piano il primo edificio di Chicago ad aver superato i 600 piedi. Finito nel 1930 nel più puro stile Art Déco, è sovrastato dalla statua di una dea antica: Cerere, figlia di Saturno, sorella di Giove e suocera del dio degli inferi, colei che insegnò agli uomini a coltivare la terra e a fare il pane.
Ma che ci fa dunque lassù, a grattare il cielo? Nessun aratro in basso, nessun forcone, nessun contadino, solo la metropolitana sopraelevata, il traffico, uomini in giacca e cravatta, smartphone e ventiquattrore. Siamo in pieno quartiere finanziario, sviluppatosi proprio intorno a questa torre e dunque, stranamente, intorno alla dea dell'agricoltura…
Lo scultore John Storrs le ha tuttavia conferito un aspetto industriale che modera di molto il contrasto. Cerere è di metallo, profilata come un pezzo di artiglieria pesante. La sua testa è senza volto. E il piccolo sacco di grano che tiene nella sua destra è talmente stilizzato da sembrare una borsa piena.
L'edificio sottostante alberga il Chicago Board of Trade, tempio planetario dove si tratta il corso dei cereali e di altre materie prime. Sì, è il mercato dei prodotti agricoli ad avere edificato questo immensa costruzione di cemento.
Ed è qui, nel film di Brian di Palma, che si conclude la caccia ad Al Capone, come se la grande criminalità dovesse riciclarsi nell'alta finanza. La fondazione del Cbot nel 1848 coincide con l'invenzione della mietitrebbiatrice da parte Cyrus McCormick, un presbiteriano devoto che si sente investito della missione di nutrire gli affamati. Comincia la “rivoluzione agricola americana”: il numero di staia di grano per abitante triplica in trent'anni. Oltre a questa produttività meccanica c'è una ragione strutturale per la creazione di un grande mercato delle derrate alimentari: l'aleatorietà dei raccolti.
Difficile fare un business plan in agricoltura, perché si è sottomessi alla meteorologia, minacciati dalla ruggine, la grandine, le cavallette… La religione pagana è segnata profondamente da questo fenomeno, davanti al quale non resta che supplicare Cerere. Senofonte lo nota nel suo Economico: «Quando si intraprendono lavori agricoli, è necessario conciliarsi gli dei». Ma qui, nel mercato degli alimenti, il dramma non è il fatto che l'offerta sia fluttuante, ma che la domanda non lo è.
È “anelastica”, dicono gli economisti. Se si producono meno telefoni è probabile che non si stia così male, e i prezzi non possono infiammarsi troppo. Se c'è meno da mangiare, al contrario, i prezzi volano e alcune persone muoiono di fame (legge di King).
Ed è così che il Cbot si è sostituito poco a poco a Cerere, i future alla preghiera, il contratto a termine alla mitologia (coi pesticidi e gli Ogm che ci evitano di ricorrere al culto pagano). Lo scopo iniziale di questo Board of Trade era quello di smerciare al meglio la produzione e porre un limite alla volatilità dei prezzi troppo alta, fissando in anticipo e per una data precisa i termini della transazione proteggendo così sia l'acquirente che il produttore. E questo va più o meno bene (si dice) finché gli speculatori non si immischiano troppo nel gioco. Dopo la Grande Depressione negli Stati Uniti questa intromissione era stata limitata dalla legge.
Ma nel 1991, a causa della saturazione dei mercati borsistici classici, ecco che «gli analisti di Goldman Sachs selezionano diciotto ingredienti e impasticciano un elisir finanziario che comprende bestiame, caffè, cacao, mais e due o tre varietà di grano. Essi soppesano il valore di ogni elemento in termini di investimento, combinano e codificano le parti, riducono ciò che era prima una somma di cose reali a una formula matematica che può essere espressa con una sola cifra: il Goldman Sachs Commodity Index.
Dopodiché mettono in vendita delle azioni» (Frederick Kaufman, The Food Bubble) – azioni che hanno il vantaggio di appoggiarsi su una domanda reale che non è sottoposta alla moda. La deregulation fa la sua parte, i prezzi schizzano in alto e gli azionisti si riempiono le tasche mentre altri, lontano da qualche parte, sentono scavarsi il buco nello stomaco. Sono le “sommosse della fame” del 2008.
Nel 2009 Goldman Sachs ha guadagnato 5 miliardi di dollari solo con operazioni sui derivati agricoli, seguita dalla JP Morgan con 1,2 miliardi. Nel 2013 gli speculatori finanziari hanno occupato il 65% del mercato contro il 12% del 1996. Meno del 3% dei contratti si è concluso con la consegna effettiva della merce, il restante 97% è stato rivenduto prima della scadenza.
La mamma tuttavia ci aveva insegnato, a tavola, un principio di decenza comune: “Non si gioca con il cibo”. Ma il denaro parla un altro linguaggio. E poi certi rapporti ci spiegheranno che la carestia e la malnutrizione nel mondo non è causata dalla finanziarizzazione ma da altri fattori come lo sviluppo dei biocarburanti o la crescita delle classi medie che richiedono maggiori quantità di carne, mentre il Cbot opera piuttosto per l'abbassamento dei prezzi.
Sta veramente qui la questione? Si può trattare il cibo come una semplice merce? Il pane quotidiano deve essere monetizzato come il petrolio o l'iPad? E poi un tizio che acquista tonnellate di soia, senza mangiarne per niente, senza averle mai viste, senza farsele consegnare né istradarle verso quelli che hanno fame, per rivenderle facendo un grosso guadagno, costui nel suo rapporto con la realtà, non è forse già morto? Ed è così che, dall'alto del suo edificio di Chicago, Cerere, non avendo più nulla di una madre, ha perso il suo volto.
2/ Leggere tra gli skyline della nuova Chicago, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 5/6/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2016)
Verso la fine del XVIII secolo è appena un piccolo villaggio potawatomi. Il suo nome viene dall'algonchino sikaakwa che significa “cipolla” o “palude”. Un luogo poco salubre, dove la storia non aveva edificato niente di duraturo: l'ideale per la costruzione di una megalopoli interamente nuova.
Quando il capitalismo trionfante si stabilisce in questo crocevia tra l'est e l'ovest non vi trova nessun vecchio casamento che possa ostacolarlo. E a far piazza pulita ci pensa comunque il grande incendio del 1871. Sulla palude e sulle ceneri, di fronte allo specchio del lago Michigan, ecco sorgere la città nella fiera purezza delle sue linee.
Il primo grattacielo è del 1885 – l'Home Insurance Building (demolito già nel 1931). Molti pensano che lo skyline di Chicago sia ancora oggi più bello di quello di New York. La Scuola di Architettura di Chicago è parte integrante dell'Armour Institute of Technology (oggi detto Illinois Tech), dal nome del principe di Porcopolis, Philip D. Armour, quello che proclamava che del maiale sapeva utilizzare «tutto salvo gli strilli». È dunque il sangue dei maiali e dei buoi, il denaro del loro abbattimento meccanico, che finanzia all'inizio l'inventiva di architetti preoccupati di farla finita con la pesantezza e di mostrare di saperla più lunga di Babele.
Nel 1938, Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore del Bauhaus, lascia la Germania nazista e diventa direttore dell'Istituto Armour. Mies è considerato tra i padri dell'architettura moderna, in particolare del cosiddetto “stile internazionale”. Affascinato sin da giovane dallo scheletro delle altissime torri in costruzione, vorrebbe lasciarle così, come un puro spazio fluido nel mezzo dello spazio.
E così nel 1921, a 35 anni, disegna il primo grattacielo in vetro. Nel 1929, per il padiglione tedesco all'esposizione universale di Barcellona, inventa il piano libero che prefigura l'open space. Nel 1931, alla fiera dell'Habitat di Berlino, Mies propone la “Casa per celibe” che trova piena realizzazione nel 1946 nelle superfici vetrate della residenza secondaria del dottor Edith Farnsworth. Vengono in seguito gli edifici più importanti di Chicago, il Lake Shore Drive Appartments, il Crown Hall, l'Ufficio Postale di Loop Station, l'Ibm Building, il Dirksen Federal Building, il Kluczynski Federal Building… Dei parallelepipedi trasparenti o riflettenti il cielo, a riprova dell'integrità della loro struttura.
Si attribuisce a Mies il motto minimalista: Less is more. Lo slogan attuale degli adepti della decrescita viene dal più importante architetto dell'ultra-crescita. Bisognava, secondo lui, sbarazzare gli edifici di ogni ornamento, cariatidi, bassorilievi, vegetalismi alla Gaudí, per entrare nell'affermazione semplice e design dei nuovi materiali e delle ultime tecnologie (si pensi alla sua celebre sedia “cantilever”, che non ha gambe posteriori; il suo sbalzo corrisponde alle proprietà fisiche dell'acciaio ma va contro l'immaginazione e l'intuito).
«L'architettura – dice Mies – non è spaghetti (cioè Art déco) né bunker (cioè brutale), ma è sempre volontà di un'epoca tradotta in spazio». L'habitat non è pensato in termini di cultura, né di adattamento a un dato ordine cosmico. È essenzialmente volontarista.
E quale volontà traduce il grattacielo eretto come un campanile senza cattedrale? Chiederselo è superfluo. Con ogni evidenza esso traduce il culto della volontà stessa, l'energia del self-made-men, la gloria di chi non ha antecedenti e pretende di essere solo figlio delle proprie opere. Non serve sapere bene l'inglese per leggere questa immensa linea di “i” maiuscole: I, I, I, “Io! Io! Io!”. Ecco cosa grida alto e forte il silenzio di questa architettura, così che le persone reali sono soltanto formicuzze che brulicano attraverso quegli Io eretti in modo gigantesco.
Certo, Mies non ama il cemento: vuole che i suoi colossi siano aerei, umili, accoglienti, che non impongano forme massicce o narrative, ma che spariscano come gli specchi che allargano una stanza. E nonostante ciò, essi si strappano dalla terra e pretendono di elevarsi al di sopra della storia. Highways e high-rises segnano l'avvento di coloro che si agitano in un commercio senza memoria e sognano un mondo auto-costruito.
Davvero, il grattacielo di vetro non è fatto per la famiglia né per l'artigiano. Lo “stile internazionale” si oppone nettamente al nazismo e al fascismo. Quelli sono nazionalisti, questo è internazionale. La loro architettura è pesantemente neo-romana, la sua è risolutamente contemporanea.
Mies van der Rohe è l'anti Albert Speer. E tuttavia, prima di lasciare il Reich, egli tenta a più riprese di dimostrare che la sua visione architettonica manifesta più di ogni altra «l'essenza del lavoro tedesco». Lo scrive in una lettera al ministro della Propaganda: la sua architettura adopera «un linguaggio chiaro e suggestivo», «abbandona gli abbellimenti esterni per andare verso l'essenziale», e cioè verso il funzionale, poiché la «forma segue la funzione».
Ma l'argomento più convincente lo enuncerà molto più tardi, con la sua frase sull'architettura come espressione della volontà di un'epoca. Leni Riefenstahl non aveva forse girato nel 1935 un film alla gloria del regime hitleriano intitolato Il trionfo della volontà? Si tratta qui della volontà del popolo, certo, non dell'individuo. E tuttavia è possibile sorprendersi a immaginare che, se Hitler non avesse avuto un tale cattivo gusto architettonico, lo skyline di Chicago sarebbe stato nei piani della sua Germania.