Caritas in veritate: i fondamenti antropologici dell’enciclica, del cardinale Camillo Ruini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /02 /2010 - 10:19 am | Permalink | Homepage
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Presentiamo sul nostro sito la relazione tenuta dal cardinal Camillo Ruini nella Basilica di San Giovanni in Laterano, il 8 febbraio 2010. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2010)



Nell’Enciclica sociale di Benedetto XVI, dedicata, nel 40° della Populorum progressio, alla questione sociale nell’era della globalizzazione, spicca un’affermazione collocata verso la fine e sottolineata: “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (n.75). Segue subito la motivazione: “essa implica il modo stesso di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo”, e poco dopo “Qui l’assolutizzazione della tecnica trova la sua massima espressione”. E’ più che giusto, dunque, dedicare ai “fondamenti antropologici” uno dei tre incontri su questa Enciclica.

Per comprendere meglio, nelle sue motivazioni e implicazioni, la portata di quella forte affermazione, è bene vedere anzitutto come essa si colleghi ai contenuti dell’Enciclica e ne riassuma il più profondo significato: naturalmente ciò non significa che la questione sociale non continui ad avere le altre importantissime dimensioni che l’hanno caratterizzata negli ultimi secoli. Poi cercheremo di collocare quella stessa affermazione nella dinamica della fase attuale della storia della famiglia umana.

Fin dall’inizio l’Enciclica mette l’accento sul legame intrinseco tra carità e verità, affermando tra l’altro che “senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo” e che un cristianesimo di carità senza verità diventa facilmente marginale, fermo restando, reciprocamente, che “la verità va cercata, trovata ed espressa nell’«economia» della carità” (cfr nn.2-4). Pertanto, la dottrina sociale della Chiesa è “«caritas in veritate in re sociali»: annuncio della verità di Cristo nella società” (n.5). E’ questa la premessa, e la convinzione di fondo, in base alla quale la questione antropologica assume nell’Enciclica un rilievo centrale: questa questione riguarda infatti la verità dell’uomo, da riconoscersi ma anche da attuarsi nella realtà sociale.

In concreto, la verità dell’uomo si esprime anzitutto nella centralità della persona umana che l’Enciclica, dedicata come la Populorum progressio al grande tema dello sviluppo integrale e planetario, considera come il principio chiave di una corretta e feconda attuazione dello sviluppo. E’ la persona, infatti, il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo (n.47) ed è la persona la risorsa fondamentale che rende possibile lo sviluppo (n.58), il primo capitale da salvaguardare in vista dello sviluppo stesso (n.25).

La prospettiva nella quale l’Enciclica afferma la centralità del soggetto umano non è però soltanto “funzionale” alla questione dello sviluppo. Al contrario, la centralità appartiene di per sé alla persona, in virtù del suo essere, e si esprime e si manifesta a proposito dello sviluppo come in altre tematiche affrontate nella Caritas in veritate. In particolare, riguardo alle problematiche ecologiche e al rapporto uomo-natura, viene sottolineato in primo luogo che sia l’uomo sia la natura non sono il frutto del caso o del determinismo evolutivo, ma dell’intervento creativo di Dio (n.48): l’essere infatti non può provenire dal nulla e l’intelligenza non può essere nata dal caso (n.74).

Nella medesima linea, l’Enciclica capovolge la tesi, da tempo diffusa, che l’eccessivo incremento demografico sia all’origine del sottosviluppo, o almeno dei ritardi dello sviluppo. E’ piuttosto la denatalità a rivelarsi oggi causa di incertezza e anche di declino in nazioni economicamente sviluppate, mentre l’apertura moralmente responsabile alla vita rappresenta una ricchezza sociale ed economica (n.44). Pertanto, il rispetto per la vita e l’apertura alla vita sono al centro del vero sviluppo, mentre la mentalità antinatalista e le legislazioni contrarie alla vita, come le pratiche di controllo demografico imposte dai governi, comportano assai pesanti costi umani e sociali (n.28).

Benedetto XVI mette quindi la Caritas in veritate in stretto rapporto non solo con la Populorum progressio ma anche con l’Humanae vitae (oltre che con la Evangelium vitae), sottolineando il legame che unisce queste due Encicliche di Paolo VI e più in generale l’etica sociale e l’etica della vita. Infatti, come afferma la Evangelium vitae (n.101), non può “avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” (n.15).

Leggendo queste pagine della Caritas in veritate mi sono ricordato di un discorso di Benedetto XVI ai Vescovi della Svizzera del 9 novembre 2006, che denunciava la divaricazione nella sensibilità morale, specialmente dell’odierno Occidente: da una parte, le tematiche della pace e della giustizia per tutti, che appartengono profondamente alla tradizione cristiana, stanno diventando un insieme etico che ha grande forza, ma che però “costituisce per molti la sostituzione o la successione della religione”; dall’altra parte la morale della vita e della famiglia è oggi assai controversa e l’annuncio della Chiesa in questo ambito “si scontra con una consapevolezza contraria della società”.

Occorre dunque, concludeva Benedetto XVI, superare questa divaricazione, riconducendo entrambe le presunte alternative all’unità originaria dell’amore, che ha la sua sorgente in Dio e che deve trovare in noi piena e indivisa risposta. Il grande consenso con cui è stata accolta nel mondo la Caritas in veritate fa sperare che l’Enciclica abbia reso più vicino un simile obiettivo: uno sguardo disincantato a certe posizioni che vengono continuamente proclamate e rivendicate sembrerebbe mostrare che si tratta di una speranza vana, ma personalmente ritengo che, con questa Enciclica, un importante passo avanti in tale direzione sia stato comunque compiuto.

Alla luce della centralità del soggetto umano, la stessa globalizzazione non va intesa come un processo fatale, anonimo e impersonale, sottratto alla nostra volontà e responsabilità, ma al contrario è un processo storico pluridimensionale e pienamente umano, con evidenti fattori tecnologici e dimensioni socio-economiche, ma con altrettanto essenziali aspetti culturali ed etici. Essa pertanto può e deve essere orientata dalle grandi scelte che vengono compiute dagli uomini e dai popoli: “La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall’unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene”.

In concreto, decisivo è che essa venga orientata in senso autenticamente umanistico, ossia “personalista e comunitario, aperto alla trascendenza”. La globalizzazione, pertanto, “a priori… né buona né cattiva, … sarà ciò che le persone ne faranno” (n.42). Quando invece lo sviluppo tecnologico viene ritenuto autosufficiente e la tecnica, abbandonando il suo “originario alveo umanistico”, diventa una nuova ideologia, l’uomo perde il suo rapporto con l’essere e con il vero, e finalmente la sua libertà: allora uno sviluppo autentico diviene impossibile (cfr nn.70-71). Proprio qui emerge più chiaramente come quella della centralità della persona umana non sia affatto una questione soltanto teorica e “di principio”, ma costituisca invece l’elemento chiave per il corso effettivo della globalizzazione e quindi per il futuro concreto del nostro mondo.

Alla base dell’orientamento etico dello sviluppo sta il riferimento alla natura sia dell’uomo sia delle realtà infra-umane e quindi alla “legge naturale”. L’ambiente naturale reca infatti in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per il suo utilizzo. Soprattutto la natura dell’uomo, “costituita non solo di materia ma anche di spirito, è ricca di significati e di fini trascendenti ed ha un carattere normativo anche per la cultura, attraverso la quale l’uomo interpreta e modella l’ambiente naturale (n.48). In concreto, contrariamente alle attuali tendenze a separare la cultura dalla natura (cfr n.26), la natura, “specialmente nella nostra epoca, è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente” (n.51). Perciò il problema decisivo, anche per la salvaguardia del creato, è “la complessiva tenuta morale dell’umanità” e il rispetto integrale del soggetto umano e della sua vita – l’“ecologia umana” – reca vantaggio anche all’ecologia ambientale. E’ evidente, quindi, la responsabilità anche pubblica della Chiesa, custode di una fede che ha una essenziale dimensione etica e antropologica, sui grandi temi dello sviluppo e dell’ecologia.

Quando si ha a che fare con la centralità dell’uomo, con l’etica e con la legge naturale, non è possibile evitare la domanda su Dio. La “Conclusione” dell’Enciclica si apre perciò con un’affermazione forte, che riprende l’istanza centrale del magistero di Benedetto XVI: “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (n.78). Viene riproposto così il pensiero di Paolo VI nella Populorum progressio, secondo il quale l’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare su se stesso un vero umanesimo. Solo se riteniamo di essere chiamati a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo in grado di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale. Al contrario, sia le chiusure ideologiche a Dio sia l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, sono oggi tra i maggiori ostacoli dello sviluppo (n.70: cfr nn.16 e 52).

La Caritas in veritate non teme di rendere espliciti implicazioni e presupposti di questo approccio antropologico e teologico. Sottolinea quindi espressamente che la dottrina sociale della Chiesa, nella sua dimensione interdisciplinare, ha a che fare non solo con la fede, la teologia e le scienze, ma anche con la metafisica. Supera quindi “la chiusura delle scienze umane alla metafisica” e richiede l’“allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa” (n.31, citazione del celebre discorso di Benedetto XVI all’Università di Regensburg). In particolare, nella dottrina sociale e nelle tematiche concrete della globalizzazione e dello sviluppo gioca un ruolo fondamentale la categoria di relazione, che non può essere approfondita criticamente dalle sole scienze sociali, senza l’apporto della metafisica e della teologia, specialmente attraverso una concezione metafisica, e non soltanto empirica, delle relazioni interpersonali, concezione che riceve una luce decisiva dal rapporto tra le Persone della Trinità nell’unica Sostanza divina, dove le tre Persone sono relazionalità pura e proprio così costituiscono una perfetta e assoluta unità. Questo “divino modello” ci fa comprendere che anche a livello umano la vera apertura reciproca non significa dispersione e perdita d’identità, ma approfondimento e arricchimento di noi stessi, come risulta dalla comune esperienza umana di comunione nell’amore e nella verità (cfr nn.53-55).

Molto esplicita è anche l’affermazione della “consistenza ontologica dell’anima umana”, alla quale è strettamente collegato il problema dell’autentico sviluppo, che richiede una crescita spirituale e non solo materiale. Senza la consistenza dell’anima, infatti, l’interiorità dell’uomo viene considerata soltanto da un punto di vista psicologico e si arriva fino al “riduzionismo neurologico”, dove il soggetto umano è appiattito e risolto nel funzionamento dell’organo cerebrale (n.76). Ne consegue, riguardo all’uomo come riguardo a Dio, una radicale chiusura alla trascendenza, che non percepisce più l’impossibilità di pensare che dal nulla sia scaturito l’essere e dal caso sia nata l’intelligenza (n.74).

Tutto ciò ha un riscontro molto concreto sul piano della realtà storica. Come già indicava Paolo VI nella Populorum progressio, lo sviluppo, umanamente e cristianamente inteso, è il cuore del messaggio sociale cristiano e reciprocamente il Vangelo ha un’importanza imprescindibile per la costruzione della società secondo libertà e giustizia (n.13). Pertanto, l’annuncio di Cristo non è soltanto indispensabile per suscitare e incrementare la fede, ma “è il primo e principale fattore di sviluppo” anche umano e sociale (n.8). Tra evangelizzazione e promozione dell’uomo esistono dunque legami intimi e profondi e la testimonianza della carità di Cristo attraverso opere di giustizia, pace e sviluppo fa parte della stessa evangelizzazione (n.15). L’esperienza sul campo dei missionari che hanno speso e continuano a spendere la vita nei diversi continenti conferma la realtà di questi legami e la rilevanza decisiva della verità dell’uomo, che si rivela pienamente nella luce di Cristo, per il superamento di quei pregiudizi e di quelle restrizioni di orizzonti culturali e antropologici che in tante aree del mondo hanno frenato per secoli lo sviluppo dei popoli.

* * *

Dopo aver dato uno sguardo ai modi in cui l’Enciclica Caritas in veritate sviluppa l’affermazione di fondo che “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”, cerchiamo ora di collocare questa medesima affermazione all’interno della fase storica che stiamo attraversando. E’ un tema, questo, che mi attrae e mi preoccupa da più di otto anni, esattamente dalla prolusione al IV Forum del Progetto culturale che ho svolto il 30 novembre 2001. In seguito non ho mai smesso di occuparmene, perché lo ritengo un tema decisivo per il nostro presente e il nostro futuro.

Come l’Enciclica osserva puntualmente, l’elemento nuovo e specifico che è all’origine dell’attuale questione antropologica è costituito dai recenti sviluppi scientifici e tecnologici che hanno dato all’uomo un nuovo potere di intervento su se stesso. Parafrasando la celebre XI tesi di Marx su Feuerbach, si può dire che non si tratta più soltanto di interpretare l’uomo, ma soprattutto di trasformarlo. Questa nuova trasformazione non avviene però, come pensava Marx, modificando i rapporti sociali ed economici, bensì incidendo direttamente sulla realtà fisica e biologica del nostro essere, attraverso le tecnologie che stanno progressivamente appropriandosi dell’insieme del nostro corpo e in particolare dei processi della generazione umana, ma anche del funzionamento del nostro cervello: assai indicative sono, in questo ambito, le direzioni delle ricerche sui rapporti mente-cervello, sulle questioni della coscienza e dell’autocoscienza, come anche sul linguaggio umano, messo a confronto con i linguaggi attribuiti ad altri animali. E’ chiaro a tutti che in questi campi siamo solo all’inizio di sviluppi dei quali è assai difficile prevedere il limite. Da tutto ciò sembrano ricavare un nuovo e più efficace supporto e quasi una definitiva conferma, apparentemente “scientifica”, quelle filosofie della mente che, riprendendo in realtà ipotesi ormai antiche, ritengono di poter ricondurre integralmente la nostra intelligenza e la nostra libertà al funzionamento dell’organo cerebrale.

E’ chiara l’interpretazione dell’uomo sottesa a queste filosofie: non si tratta soltanto del rifiuto di quel dualismo antropologico che concepisce l’uomo come costituito da due sostanze, l’anima e il corpo, unite tra loro in forma solo accidentale. L’unità del nostro essere è qui affermata infatti in una maniera radicale e riduzionista, in quanto l’uomo stesso viene ricondotto alla sua sola dimensione corporea, in quella prospettiva naturalistica che il Concilio Vaticano II aveva già individuato riferendosi a coloro che considerano l’uomo “soltanto una particella della natura” (GS 14).

Una simile interpretazione ha dei precisi presupposti, che non hanno alcun rapporto necessario con gli sviluppi delle scienze. Il primo di essi può individuarsi nella tendenza, questa sì insita nel dinamismo delle scienze empiriche, a considerare anche l’uomo come un “oggetto”, come tale conoscibile e “misurabile” attraverso le forme dell’indagine sperimentale. Tutto ciò è certamente lecito, anzi indispensabile per il progresso scientifico e tecnologico, con i grandi benefici che esso apporta, ad esempio nella cura delle malattie. Altra cosa è però dare spazio ad una specie di “scientismo di ritorno”, che consideri questa come l’unica forma razionalmente valida di conoscenza del nostro essere, negando o dimenticando che l’uomo è anzitutto e irriducibilmente “soggetto”, il quale, proprio nella sua soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e adeguatamente conosciuto attraverso le scienze empiriche.

Un secondo e assai rilevante presupposto è quell’interpretazione del grande fenomeno dell’evoluzione, cosmica e biologica, che la traspone dall’ambito scientifico che le è proprio ad un livello surrettiziamente filosofico e metafisico, facendo della teoria dell’evoluzione una visione e spiegazione almeno potenzialmente universale di tutta la realtà, che non lascerebbe spazio ad ulteriori domande, riconducendo tutto alle trasformazioni della materia-energia.

Un terzo presupposto è la cosiddetta “fine della metafisica”, che ha avuto tanto rilievo nel pensiero filosofico del Novecento: essa di fatto ha portato con sé la negazione della trascendenza, cioè in concreto anzitutto della realtà del Dio personale distinto dal mondo, ma anche, e in stretto rapporto con ciò, di ogni dimensione dell’uomo che sia davvero trascendente rispetto alla natura.

Nello stesso tempo la “radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura” produce, come ha detto Benedetto XVI al Convegno di Verona il 19 ottobre 2006, “un autentico capovolgimento del punto di partenza” della cultura moderna, “che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà”. Proprio mentre si assiste alla radicalizzazione ed estremizzazione delle istanze, in sé legittime, della libertà personale, vengono infatti privati del loro fondamento, e quindi della loro plausibilità, quel ruolo centrale e quella dignità specifica del soggetto umano – da considerare sempre come un fine e mai come un mezzo, secondo la nota formula di Kant – che costituiscono il punto di riferimento decisivo della nostra civiltà, sul piano filosofico ed etico, ma anche giuridico e politico, esistenziale e persino estetico. E’ questo uno degli aspetti più problematici del passaggio che stiamo vivendo dalla modernità alla cosiddetta “postmodernità”.

La spinta di fondo della nuova questione antropologica sembra dunque essere quella di ricondurre integralmente il soggetto umano – ma nel linguaggio dei biologi si parla piuttosto della specie homo sapiens sapiens – all’interno del macroprocesso evolutivo, con la tendenza a considerare decisiva la continuità del processo stesso rispetto alle differenze che si generano al suo interno. Così i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l’intelligenza e la libertà, vengono considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente. Nella stessa definizione classica dell’uomo come animal rationale, la differenza specifica rationale finisce perciò con il perdere quel rilievo di insormontabile differenziale ontologico che le è appartenuto nella nostra civiltà, anche per influsso della concezione cristiana dell’uomo come immagine di Dio.

Esiste però un altro aspetto, o tendenza, che sta emergendo in questi ultimi anni. Se guardiamo infatti non al passato ma al presente e al futuro, l’accento si sposta di nuovo su ciò che appartiene all’uomo in esclusiva, nel senso che le capacità scientifico-tecnologiche da lui acquisite sono giunte ormai ad una fase del loro sviluppo che parrebbe consentire un potenziamento radicale della nostra specie, il suo miglioramento e anche il suo superamento, in un processo evolutivo il cui propulsore non risiederebbe più nella natura ma nell’intelligenza umana, più precisamente nell’intelligenza scientifico-tecnologica, e i cui ritmi di sviluppo sarebbero per conseguenza non quelli lentissimi della natura ma quelli rapidissimi della tecnologia. Così proprio quell’intelligenza che viene considerata frutto dell’evoluzione cosmica e poi biologica si sostituirebbe in certo modo alla natura stessa, affermando un suo totale primato e dominio sull’evoluzione futura, il cui esito positivo e non distruttivo resterebbe affidato, in ultima analisi, soltanto a un uso corretto e ragionevole della nostra libertà. In questo modo il soggetto umano riacquista, in forma nuova e profondamente diversa, una sua concreta centralità.

A questo punto nasce però una grande domanda che riguarda le capacità della razionalità scientifica e tecnologica di assumere la guida dei processi di trasformazione dell’uomo e di assicurarne esiti positivi e benefici. Non si può dimenticare infatti che questa razionalità prescinde, per il suo stesso impianto metodologico, dai problemi del significato e dei fini della nostra esistenza. Inoltre, e più concretamente, questa razionalità si incarna nell’insieme degli uomini e delle donne che fanno ricerca e interagisce sempre più intensamente con tutti gli enormi interessi economici, politici, e anche ideologici, che sono collegati con i grandi e rapidissimi sviluppi scientifico-tecnologici. Per assumere la guida di tali processi appare dunque necessaria un’etica “forte”, che però è assai difficile costruire sulla premessa della totale riconduzione dell’uomo al macro-processo evolutivo, riconduzione che fa venir meno le nostre specifiche capacità di conoscere la realtà e di compiere scelte etiche davvero libere e responsabili.

Questa e altre possibili domande non devono tuttavia farci perdere di vista un dato di fondo: rimane vero che è incominciata, con l’applicazione all’uomo delle biotecnologie e con tutti gli altri sviluppi tecnologici connessi, una fase nuova della nostra esistenza nel mondo, della quale siamo solo agli inizi e che appare destinata ad accelerarsi e a produrre effetti estremamente rilevanti e potenzialmente pervasivi di ogni dimensione della nostra umanità, effetti che oggi è ben difficile, per non dire impossibile, prevedere nei loro concreti esiti e sviluppi. E’ ugualmente vero che questa nuova fase non appare arrestabile. Anzi, essa, per quanto impegnativa e carica di rischi, va sinceramente favorita e promossa, perché rappresenta uno sviluppo di quelle potenzialità che sono intrinseche all’uomo, creato a immagine di Dio. Dobbiamo liberarci però da una visione deterministica degli sviluppi che ci attendono: in quanto opera dell’uomo, e non astrattamente delle tecnologie, essi possono e devono essere orientati in modo che vadano a favore, e non a detrimento, dell’uomo stesso.

Siamo rimandati così al senso della parola “uomo”, al valore che attribuiamo al soggetto umano, in noi e nel nostro prossimo, al modo in cui viviamo e all’uso che facciamo della nostra libertà. Per orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo, è dunque molto importante quale immagine, quale ideale e quale esperienza vissuta dell’uomo portano con sé quanti lavorano direttamente nel campo delle biotecnologie e negli ambiti scientifici ad esse collegati, ma alla fine è ancora più importante l’immagine e l’esperienza dell’uomo che prevale nello spazio complessivo della cultura e della società, a livello di una nazione, di una civiltà e ormai sempre più dell’intera umanità.

L’Enciclica Caritas in veritate costituisce dunque, in questa prospettiva, un grande appello anzitutto ai credenti in Cristo, ma anche a tutti coloro che condividono la centralità della persona umana e l’assoluta non riducibilità del suo essere e del suo valore a tutto il resto della natura. Un appello che ha alla base, insieme alla centralità del soggetto umano e alla sua dignità inviolabile, il legame inscindibile tra carità e verità, con la conseguenza che un cristianesimo di carità senza verità diventa fatalmente marginale nel divenire concreto della storia. Il contenuto di questo appello è orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo per il fatto che l’uomo sta diventando capace di modificare fisicamente se stesso: è questo infatti il cuore della nuova “questione antropologica”.

Vorrei terminare individuando due condizioni essenziali perché un tale appello possa essere accolto e avere una reale efficacia storica. La prima di esse ha a che fare con il processo di globalizzazione e con i mutamenti in corso nei grandi equilibri geo-economici e geo-politici, ma anche e inevitabilmente geo-culturali. Di fatto, oggi stanno riemergendo e assumendo un peso sempre maggiore alcune grandi nazioni e civiltà che negli ultimi secoli erano state sovrastate dall’Occidente. Queste nazioni e civiltà non hanno quella matrice cristiana che, malgrado tutte le infedeltà storiche e, oggi, malgrado i processi di secolarizzazione, appartiene al DNA dell’Europa, delle due Americhe e di altre considerevoli parti del mondo. La centralità della persona umana si è però affermata storicamente proprio in quelle culture che hanno la loro matrice nel cristianesimo. Sono dunque i popoli eredi di tali culture quelli che per primi hanno la responsabilità e il compito di mantenere e far fruttificare la centralità dell’uomo nella nuova fase storica che si apre davanti a noi, pur cercando, come è doveroso e necessario, di sollecitare anche le altre nazioni e civiltà ad un impegno convergente.

In particolare l’Italia ha a questo fine un ruolo peculiare tra le stesse nazioni europee, ruolo fortemente sottolineato da Giovanni Paolo II, ad esempio nella Lettera ai Vescovi italiani del 6 gennaio 1994, dove scriveva: “All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli Apostoli Pietro e Paolo”. Con uguale vigore Benedetto XVI, nel discorso alla Chiesa italiana tenuto a Verona il 19 ottobre 2006, sottolineava che, attraverso un atteggiamento dinamico e non rinunciatario, “la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all’Europa e al mondo, perché è presente ovunque l’insidia del secolarismo e altrettanto universale è la necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo”. Di questo compito e servizio noi italiani dobbiamo essere assai più convinti e consapevoli.

La seconda condizione per accogliere sul serio l’appello contenuto nella Caritas in veritate riguarda ognuno di noi, all’interno della situazione che ciascuno si trova a vivere. Siamo infatti tutti corresponsabili perché la centralità del soggetto umano assuma un rilievo forte e concreto, capace di incidere sul crescente potere che l’umanità sta acquistando di modificare fisicamente se stessa, per orientare questo potere a favore dell’uomo, considerato in ogni singola persona e in ogni fase della vita sempre come fine e mai come mezzo. In pratica, responsabilità e impegno sono richiesti agli scienziati, ai medici e agli altri operatori sanitari, ma ugualmente agli uomini della cultura e della comunicazione sociale, anzi, ad ogni persona che pensa e agisce, perché la cultura reale di un popolo è fatta dalle convinzioni e dalle scelte che tutti compiono ogni giorno. Grandi sono, inoltre, le responsabilità dei politici, legislatori e amministratori, ma di nuovo, in un paese democratico, anche di ogni cittadino chiamato a compiere le proprie scelte politiche. E ancora molto dipende da chi può guidare o condizionare gli enormi interessi economici che spesso stanno dietro al lavoro degli scienziati e dei tecnici: anche qui le scelte quotidiane delle persone e delle famiglie hanno però, in concreto, un peso non trascurabile. Finalmente, una specifica responsabilità riguarda noi sacerdoti e vescovi, i religiosi e le religiose, ciascun credente che intende essere testimone e missionario della fede nel Dio amico dell’uomo.

Pertanto, come ha scritto il filosofo francese Jean-Michel Besnier in un’intervista rilasciata ad Avvenire il 1° ottobre 2009, “E’ necessaria una massiccia presa di coscienza da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di una disistima di sé e dell’umanità. Non si sopportano più la vecchiaia, la malattia e la morte, e tantomeno la casualità della nascita. Riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze… è il prerequisito per salvare l’umanità”.

Sarei grato al Signore se questo nostro incontro potesse essere un sia pur minimo contributo a far crescere in noi la conoscenza della grande sfida che la nuova questione antropologica ci pone davanti e la volontà di far fronte a questa sfida con sollecitudine e concretezza, in ogni occasione che la vita ci offre. Si tratta certo di una sfida molto difficile, perché le tendenze culturali e gli interessi pratici che spingono in direzione contraria appaiono umanamente preponderanti, per il saldarsi di una cultura incentrata sui desideri dei singoli individui con le possibilità sempre nuove offerte dalle biotecnologie. Sappiamo però che in questa sfida l’umanità non è sola, ma è sorretta dalla mano amica di Colui che ci ha fatto a sua immagine e, per primo, considera ciascuno di noi come un fine, anzi come un figlio, e non semplicemente come un pezzetto di natura o come un essere privo di senso.

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