Il grande assedio di Malta, di Tony Rothman
Presentiamo sul nostro sito una traduzione di Gabriel Gauci dell’articolo di Tony Rothman, The Great Siege of Malta, apparso on-line nell’originale inglese da History Today Volume 57 Issue 1 January 2007 http://www.historytoday.com/tony-rothman/great-siege-malta. Ovviamente la traduzione non è stata rivista dall’autore: da parte nostra restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (6/6/2016)
Matteo Perez d'Aleccio, L'arrivo della flotta turca per l'assedio di Malta
All’alba del 18 maggio 1565, una delle più grandi armate mai messe assieme apparve al largo dell’isola di Malta. Le sue 200 navi erano state mandate da Suleiman il Magnifico, sultano del vasto impero Ottomano, per distruggere i Cavalieri di Malta che da lungo tempo erano una spina nel suo fianco. A bordo delle navi erano ammassati circa 40.000 combattenti, tra i quali uomini provenienti dalla migliore fanteria di Suleiman, i Giannizzeri, per non parlare di altri 9.000 cavalieri e 70 grandi cannoni da assedio, uno o due dei quali aveva la capacità di scagliare pietre da 600 libbre alla distanza di un miglio e mezzo. Ad opporsi a questa forza c’erano solamente 600 cavalieri di Malta, qualche migliaio di mercenari, e qualche altro migliaio di irregolari maltesi – in tutto tra i 6.000 e i 9.000 uomini. Una volta caduta Malta – i comandanti di Suleiman avevano calcolato che sarebbe stato sufficiente per questo l’arco di una settimana – i turchi avrebbero poi espulso gli spagnoli da Tunisi e poi invaso la Sicilia e l’Italia.
Raramente nella storia militare le previsioni di vittoria pendevano così tanto da una parte e la posta in palio era così alta. Tuttavia, nell’infliggere la prima vera sconfitta all’Impero Ottomano dopo più di un secolo, i Cavalieri di Malta divennero gli eroi del periodo, e l’assedio uno degli eventi più famosi del 16° secolo. Quasi 200 anni dopo, Voltaire poteva scrivere: “Nulla è così famoso come l’assedio di Malta”.
Tuttavia, passati tre secoli, gli eventi del 1565 sono scomparsi dalla memoria persino dalla mente degli storici più strettamente attenti alla storia militare. Non si trova più traccia dell’assedio di Malta neanche nella lista delle settanta battaglie più decisive della storia. Nonostante ciò, l’assedio cattura l’immaginazione di chi per caso s’imbatte in esso.
All’epoca l’Impero Ottomano era l’impero più potente nel bacino mediterraneo e in Europa. La cattura di schiavi e le incursioni dei “vassalli” del sultano – i corsari berberi stazionati sulla costa del Nord Africa – erano parte integrante delle sue operazioni navali, anche se poi lo stesso impero garantiva più libertà ai suoi cittadini di tanti stati cristiani dell’epoca. I rifugiati religiosi potevano accedere alla capitale Costantinopoli (che era anche la città più grande del mondo) dove avevano libertà di culto. Lo stesso Suleiman era una persona intelligente, determinata, altamente istruita, e poeta compiuto. Aveva anche una grande esperienza di campagne militari.
La roccaforte degli avversari di Suleiman decisamente non corrispondeva all’ambientazione dell’opera di Christopher Marlow, L’ebreo di Malta (ca. 1589-90), nella quale un ricco ebreo e un figlio del sultano turco potevano complottare contro un ingenuo governatore. L’isola di Malta fu presa dai musulmani nel 9° secolo, riconquistata dai cristiani normanni nell’11°, e integrata nel regno di Sicilia nell’1127; a meta del 14° secolo divenne parte dell’impero Spagnolo. Malta era un’isola di roccia calcarea che era stata deforestata nel secolo precedente per avere legna per le navi e legna da bruciare. Di conseguenza i suoi abitanti dovettero ricorrere al letame di mucca come combustibile. Le parole di uno storico del 18° secolo ricordano che “non esisteva niente come acqua di sorgente, né pozzi, e gli abitanti erano costretti a correre ai ripari scavando cisterne”. La popolazione di Malta, e dell’isola gemella di Gozo, ammontava attorno ai 20.000 abitanti, dei quali la quasi totalità erano agricoltori o contadini poveri e illetterati che venivano alla piccola città marittima di Birgu – il Borgo – per lavorare nei cantieri navali. La povertà era tale che si stima che i due terzi delle donne, sposate e non, lavorassero apertamente come prostitute. La principale ancora di salvezza per l’isola erano due grandi porti che potevano servire da ancoraggio per qualsiasi flotta.
Dal 1530, i Cavalieri Ospedalieri dell’Ordine di San Giovanni, come erano ufficialmente chiamati i Cavalieri, avevano in mano l’isola che era governata dal Gran Maestro dell’Ordine e il suo Consiglio dei Signori. L’Ordine, o Religione, com’era anche conosciuto, esisteva già da 400 anni, essendo stato fondato durante la prima crociata come ordine di infermieri. Si era successivamente rapidamente evoluto in un’unica organizzazione avendo come primo dovere quello di badare ai “Nostri Signori gli Ammalati”, e come secondo di combattere gli infedeli. Nel 1113, Papa Pasquale II aveva concesso all’Ordine il diritto di scegliere i suoi dirigenti senza alcuna interferenza della Santa Sede e l’Ordine di San Giovanni era divenuto sovrano, sottomesso a nessuno tranne che a Cristo e al Papa.
Le fortune della Religione [dell’Ordine] erano state alterne nel corso dei secoli. Dopo la caduta di Acri, l’ultima roccaforte crociata in Siria del 1291, i Cavalieri avevano occupato Rodi dove erano rimasti per oltre 200 anni, trasformandola in una roccaforte marina. Con la loro piccola flotta (che ufficialmente non superò mai i sei o sette bastimenti) avevano saccheggiato i velieri turchi come parte della secolare guerre de course tra musulmani e cristiani. L’obiettivo primario di questa pirateria legalizzata era di impossessarsi del carico del nemico, tra i quali gli esseri umani che potevano essere riscattati contribuendo alle casse del bilancio. Quelli che non venivano riscattati venivano mandati sulle galee.
Dalla conquista di Costantinopoli nel 1453 dovuta al sultano Mehmet II, gli Ottomani avevano continuato a dominare sempre più il Mediterraneo orientale. Nonostante ciò le depredazioni dei Cavalieri sulle loro navi erano continuate e Mehmet aveva assediato Rodi nel 1480. Uno di primi ordini di Suleiman dopo l’ascesa al sultanato nel 1522, era stato quello di intimare ai Cavalieri di lasciare l’isola, e quando questi avevano rifiutato, aveva ordinato un secondo assedio a Rodi. Dopo sei mesi di resistenza, la piccola guarnigione di Cavalieri si era arresa in cambio del salvacondotto offerto dal Sultano.
Dopo sette anni di infiniti negoziati con il Papa e con Carlo V, l’Imperatore del Sacro Romano Impero, quest’ultimo offrì all’Ordine le isole di Malta e Gozo come feudo perpetuo, in cambio di un falcone che annualmente doveva essere mandato al Viceré di Sicilia.
I Cavalieri, restii nell’accettare questo dono, avevano stabilito sull’isola una teocrazia dove il Gran Maestro attivamente perseguiva i non-Cattolici: nel 1546, almeno due membri della piccola comunità luterana erano stati mandati al rogo dall’Inquisitore. Gli unici ebrei e turchi presenti sull’isola erano schiavi, e le relazioni carnali con loro erano punibili con 10 anni di esilio, oppure la condanna all’impiccagione.
Le tensioni tra gli Ottomani e i Cavalieri erano continuate a crescere. Come parte della sua offerta di Malta, Carlo V aveva insistito che l’Ordine presidiasse Tripoli, sulla costa libica dell’Africa, che era situata nel territorio dei corsari berberi ma che una spedizione spagnola aveva catturato nel 1510. Però, il tanto temuto corsaro e comandante navale Turgut, o Dragut, Reis, aveva messo gli occhi su Tripoli. Nato nel lontano 1485, alla metà del 16° secolo l’anziano corsaro stava terrorizzando il mediterraneo centrale e orientale con la sua piccola flotta di galere.
Nel 1551, insieme all’ammiraglio Ottomano Sinan, decise di strappare Tripoli ai Cavalieri. In rotta per Tripoli, invasero Malta con una forza numerosa di 10.000 uomini. Solo poche centinaia di cavalieri si trovavano allora e l’assalto molto probabilmente avrebbe potuto porre fine all’Ordine di San Giovanni, ma Turgut inspiegabilmente interruppe l’assedio e invece saccheggiò Gozo portando via l’intera popolazione di circa 5.000 abitanti come schiavi. Continuando per Tripoli, obbligò presto la guarnigione lì presente alla resa. Turgut divenne beylerbei, o governatore, e gli Ottomani presero il controllo dell’intero mediterraneo orientale.
Ansioso di sbarazzarsi del corsaro turco, nel 1560, Filippo II di Spagna mise insieme la più grande armata che si fosse vista da 50 anni ad allora per espellerlo. Ma la spedizione, che contava di circa 56 galere e 14.000 uomini, venne colta di sorpresa e quasi totalmente distrutta dall’ammiraglio turco Piyali Pasha a largo dell’isola tunisina di Djerba. Le forze che si salvarono dal mare si rintanarono in una fortezza sull’isola. Dopo un assedio di quasi tre mesi, la guarnigione si arrese. Morirono almeno 9.000 uomini, e altri 5.000 furono portati in catene a Costantinopoli. Fu il più grande disastro della cristianità dalla malaugurata invasione di Algeri nel 1519.
L’assedio di Malta fu l’apice di questa escalation del corso degli eventi. La miccia che diede fuoco agli eventi fu determinata dalle avventure del celebre navigatore dell’Ordine, Fra Mathurin aux Lescaut, meglio conosciuto come Romegas. Non si sa nulla della prima parte della carriera di Romegas, tranne che nacque in Provenza, fece professione come cavaliere nel 1547 all’età di 18 anni e che velocemente guadagnò la reputazione di intrepido predone. Nell’arco di pochi giorni nel 1564 catturò un numero di importanti navi turche, una delle quali portava un carico di proprietà del Capo Eunuco del Serraglio, valutata attorno ai 100.000 ducati d’oro veneziani. Romegas fece circa 300 prigonieri, tra i quali il governatore del Cairo, il governatore d’Alessandria, e Giasvere Serchies (che fu la balia della figlia di Suleiman) mentre tornavano da un pellegrinaggio alla Mecca.
In questo periodo Suleiman stava mettendo gli occhi sull’Italia per invaderla. Gli Spagnoli detenevano ancora il controllo di La Goletta, al largo di Tunisi, la più grande roccaforte sulla costa berbera, e le forze cristiane avevano appena preso il controllo di Penon de Velez, un’importante fortezza marocchina. Le catture ad opera di Romegas si trasformarono in un casus belli. Verso la fine del 1564, Suleiman aveva già deciso di cancellare i Cavalieri dalla faccia della terra.
Fernand Braudel, il volume del quale Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949) è un classico sul periodo, comincia la sua presentazione sull’assedio di Malta chiedendosi: «Fu una sorpresa?». Nessuno ha mai sostenuto che lo fosse. I turchi avevano mandato alcune spie travestite da pescatori a Malta l’estate precedente a compiere indagini sulle fortificazioni, e successivamente era stato costruito a Costantinopoli un modello su scala dell’isola. A sua volta, anche il Gran Maestro Jean de la Valette aveva la sua rete di agenti segreti stazionati a Costantinopoli, sotto la guida di Giovan Barelli, che lo tenevano informato delle intenzioni di Suleiman. Barelli, esperto di lingue, mise a segno uno dei più grandi successi di spionaggio dell’epoca, riuscendo a trafugare un rapporto completo dell’invasione turca man mano che veniva ultimata.
Nel tentativo di scongiurare un’invasione, il Gran Maestro ordinò un attacco depistante su Malvasia (conosciuta in greco come Monemvassia) nel sud-est del Peloponnese. Questa piccola isola era stata concessa dai veneziani ai turchi attorno al 1540. Connessa all’entroterra per via di una strada rialzata, Malvasia era una fortezza naturale simile a Gibilterra e nondimeno inespugnabile. Nel settembre del 1564, de la Valette inviò una piccola forza sotto il comando di Romegas per scalare la roccia di notte e catturare la fortezza che era in cima ad essa. Ma il piano fallì: gli uomini di Romegas non riuscirono a trovare il sentiero fino alla cima e quando le notizie della spedizione arrivarono a Suleiman, il fatto aumentò la sua determinazione di sradicare i Cavalieri.
Ma il Signore dei signori non dette sufficiente considerazione all’anziano ma notevole Gran Maestro. Poco si conosce dei suoi primi anni. Conosciuto da tutti come “La Valette”, durante la sua vita non fu mai chiamato con questo nome. Era semplicemente Jean de Valette, soprannominato Parisot, ma nei decenni dopo la sua morte divenne noto come “La Valette”, confondendolo con il nome della città che fondò dopo la fine dell’assedio, La Città della Valletta. Da giovane provenzale, de Valette sopravvisse all’assedio di Rodi ed era tra quelli che arrivarono a Malta nel 1530. Sembra che non lasciasse mai più l’isola, eccezion fatta per alcune spedizioni contro gli infedeli. Durante una di queste, nel 1541, fu gravemente ferito e fatto schiavo sulle galee. Lo stesso Turgut gli concesse clemenza e dopo un anno de Valette riguadagnò la sua libertà in uno scambio di prigionieri. La cattività gli permise di aggiungere la lingua turca al francese, lo spagnolo, il greco, e l’arabo che già conosceva. Il monumento sulla tomba di de Valette, eretto 23 anni dopo la sua morte riporta le date 1494-1568, indicando che era 71enne durante l’assedio; due testimonianze oculari, comunque, ci dicono che all’epoca aveva ‘solo’ 67 anni.
De Valette ascese nei ranghi della Religione nonostante il suo temperamento violento: nel 1538 percosse un uomo fino quasi ad ucciderlo e fu condannato a rimanere 4 mesi in una cavità scavata nella roccia, per essere poi esiliato per due anni a Tripoli (come governatore). Nel 1554 fu eletto come Capitano Generale delle galee dell’Ordine. Sempre ai ferri corti con il nemico, tra il 1557 e la sua morte nel 1568, catturò attorno ai 3.000 schiavi musulmani. Quando morì 530 erano, secondo i documenti, di sua proprietà, molti dei quali probabilmente come rematori sulle galee.
Come Gran Maestro era un uomo di tendenze estremamente conservatrici. Uno dei suoi primi atti dopo essere stato eletto nel 1557 fu quello di bandire le calze con colori che non corrispondevano, così “da evitare la rovina dell’uomo”. Condannava all’impiccagione o assegnava lunghi periodi di prigionia a chiunque si opponeva a lui, e tentò di creare un collachio, un’enclave a Birgu che isolasse i Cavalieri dal resto della popolazione, specialmente dalle prostitute. Ma il tentativo fallì.
Sapendo che l’invasione era imminente, de Valette comincio i preparativi, richiamando i Cavalieri sull’isola, radunando le truppe, mettendo da parte provviste di cibo e acqua, e migliorando le fortificazioni, che erano già notevoli. In decenni di lavoro, mura e bastioni erano state aggiunte alla roccaforte principale del Porto Grande, Castel Sant’Angelo, che nel 1565 era piuttosto inespugnabile. Una fortezza più piccola, Sant’Elmo, che fu costruita nel 1522, sorvegliava l’entrata al Porto, e una terza, San Michele, costruita in contemporanea, proteggeva Birgu dalla parte dell’entroterra. De Valette rifiutò l’offerta di 3.000 truppe da Don Garcia de Toledo, il Viceré di Sicilia, dicendogli di mandarli invece a La Goletta. Quando l’armata di invasione apparve il venerdì 18 maggio, de Valette stava ancora facendo preparativi frenetici, ma non venne colto di sorpresa.
Il numero esatto della forze che Suleiman mandò contro Malta è incerto. Il principale resoconto di un testimone oculare, il diario dell’assedio scritto dal poeta mercenario spagnolo Francesco Balbi, enumera poco meno di 30.000 “forze speciali”, tra i quali i Giannizzeri, e la Spahis (la cavalleria). Aggiunge poi che il numero totale degli invasori, comprendenti i corsari che arrivarono dopo, arrivava ai 48.000 uomini. Un racconto meno conosciuto del cavaliere Hipolito Sans conta più o meno lo stesso numero di Balbi. D’altra parte però, una lettera scritta da de Valette quattro giorni dopo l’arrivo dei turchi dice che “il numero delle truppe sul terreno era tra i 15.000 e i 16.000”, mentre in un’altra lettera scritta poco dopo l’assedio, fornisce il numero di 40.000 all’inizio dell’assedio. Comunque sia, si trattava sempre di una forza schiacciante, supportata da quasi settanta cannoni da assedio.
All’arruolamento ad inizio maggio si erano presentati 546 cavalieri e fratelli servi. Balbi da il totale di esattamente 6.100 difensori, metà dei quali mercenari, metà maltesi irregolari. Giacomo Bosio, lo storico ufficiale dell’Ordine, del quale il racconto imponente dell’assedio fu pubblicato nel 1588 e che sembra aver avuto informazioni di prima mano, enumera 8.500 difensori.
Gli svantaggi comunque non erano tutti da parte maltese. Malta è distante mille miglia da Costantinopoli, e la flotta turca doveva fermarsi per le provviste lungo la rotta. Per sfamare una spedizione che contava dai 50 agli 80.000 uomini gli approvvigionamenti dovevano essere portati per forza dalla Barberia. Peggio ancora, Suleiman divise il comando tra il Visir Mustafa Pasha, al comando delle forze di terra, e l’Ammiraglio Piyali Pasha che aveva razziato la flotta cristiana a Djerba. Suleiman aveva esortato i due a ricorrere a Turgut in tutte le decisioni, una volta che il corsaro fosse arrivato da Tripoli.
I battibecchi che emersero tra i due comandanti ebbero conseguenze disastrose. Mustafa, in modo sensato, aveva pianificato di attaccare l’antica capitale di Mdina, lasciata non protetta al centro dell’isola, per poi assediare da terra la città portuaria di Birgu. Tuttavia, Piyali chiese di ancorare la sua flotta nel porto di Marsamxett, appena a nord del Porto Grande, sia per proteggerla dallo scirocco, ma anche per tenerla vicina all’azione. Ma fare ciò richiedeva la messa fuori combattimento del forte Sant’Elmo, situato sulla stretta penisola del Monte Sciberras e che proteggeva sia l’entrata al Porto Grande che l’entrata a Marsamxett. Se il piano di Mustafa fosse stato attuato, l’attacco su Sant’Elmo non sarebbe stato necessario, ma il Visir cedette, pensando che per distruggere il forte sarebbero bastati soli pochi giorni.
Questa è la storia tradizionale. Tuttavia, una lettera del 7 dicembre 1564, da “uno che a Costantinopoli di solito dice la verità” (si tratta forse dell’agente segreto Barelli), afferma che i turchi avessero pianificato già dall’origine di prendere prima il forte Sant’Elmo, stabilire una postazione all’entrata del Porto Grande e poi assediare Castel Sant’Angelo, anche se questo avrebbe significato passare l’inverno a Malta. Forse Mustafa aveva pensato un piano migliore di questo. Da come si svilupparono le cose, appare evidente che l’attacco a Sant’Elmo si rivelò un errore fatale.
Dopo tre settimane di combattimento, il forte teneva ancora. Le poche centinaia di soldati stanziati lì resistettero ad un incessante bombardamento dai cannoni turchi, che ridusse rapidamente Sant’Elmo in macerie, per poi respingere un assalto dopo l’altro, alcuni formati da ben 8.000 assalitori secondo Balbi. I difensori fecero uso di armi incendiarie – cerchi di fuoco, lanciafiamme rudimentali, e granate – mentre de Valette, determinato a resistere finché Garcia non avesse mandato un aiuto, riforniva il forte ogni due settimane dall’altra parte del Porto e evacuava i feriti. Ciononostante, l’8 giugno i cavalieri che stazionavano sul forte erano sul punto di cedere e scrissero una lettera – che malgrado la sua pubblicazione in alcune storie popolari non venne mai trovata – implorando il Gran Maestro di uscire all’assalto e morire con la spada in mano. La risposta di de Valette fu di pagare i soldati, e poi di umiliarli con l’offerta dell’invio di rimpiazzi. Il senso di onore ebbe la meglio e la difesa continuò.
L’assedio di Sant’Elmo lasciò intatta Mdina e quindi la città servì come stazione per la comunicazione con la Sicilia, dove Don Garcia stava organizzando una forza di aiuto. Quando Turgut arrivò a Malta nella prima parte di giugno vide che era troppo tardi per correggere l’errore tattico dei turchi. Raddoppiando i loro sforzi, i turchi riuscirono in effetti a distruggere Sant’Elmo è macellarono i suoi difensori, ma Turgut non sopravvisse per assaporare la vittoria. Morì probabilmente il 23 giugno, il giorno stesso che il forte cadde, ucciso, secondo Balbi e Sans, in un incidente di fuoco amico.
Ma il successo dei turchi a Sant’Elmo probabilmente costò loro l’intero assedio. Persero tra i 4.000 e i 6.000 uomini, compresi metà dei Giannizzeri, mentre i difensori persero 1.300 uomini, tra i quali un quarto dei cavalieri. Le malattie, che probabilmente uccisero altri 10.000 o 15.000 degli assediatori, cominciavano a farsi sentire. Nonostante le perdite, Mustafa persistette nell’assedio, in un caldo africano, per altri due mesi.
Il bombardamento di Birgu cominciò presto. La città era attorniata da 65 a 70 cannoni di grosso calibro. Bosio parla di due “basilischi che possono scagliare pietre oltre ogni misura”. I famosi cannoni da assedio turchi erano delle armi lunghe 20 o più piedi, e di 30 tonnellate di peso: Balbi dice che le palle che scagliavano si seppellivano “a trenta palmi sotto la terra”. Nota anche che entro la fine di luglio, nell’apice dei bombardamenti, il loro rumore era così grande che “poteva essere sentito chiaramente da Siracusa, e persino da Catania, a quaranta leghe di distanza”, e “sembrava che la fine del mondo fosse arrivata”. I maltesi si rifugiarono in gradi cisterne scavate sotto le loro case ma alla fine, scrive Balbi, 7.000 abitanti morirono.
Nel frattempo, i corrieri viaggiavano disperatamente avanti e indietro da Mdina alla Sicilia. Quando si sparse la notizia dell’assedio, soldati e avventurieri cominciarono ad arrivare a Siracusa. Nei primi giorni di luglio, apparentemente al quarto tentativo ed aiutato dalla nebbia, il capitano generale del Viceré riuscì a sbarcare 600 uomini e farli entrare a Birgu. Questo piccolo rinforzo sollevò gli spiriti ma Mustafa era implacabile.
Il 15 luglio lanciò un massiccio doppio assalto su Senglea, una penisola nel Porto Grande occupata dal Forte San Michele all’estremità interna. I turchi fecero passare un centinaio di piccole barche dal monte Sciberras nel Porto e attaccarono Senglea via mare, mentre altri 8.000 soldati attaccarono da terra. L’assalto via mare sarebbe riuscito e Malta sarebbe caduta quello stesso giorno se le barche turche non fossero arrivate a tiro di una batteria al livello del mare che de Valette aveva fatto costruire alla base di Castel Sant’Angelo. Una serie di colpi distrusse le barche e molti degli assalitori annegarono. Aveva fatto costruire anche un ponte galleggiante così da permettere alle riserve di attraversare da Birgu al Forte San Michele, con il risultato che, dopo un giorno di feroci combattimenti (che, secondo Balbi, costò ai turchi altri 4.000 uomini), il forte tenne.
Ma la fine dell’assedio era ancora lontana. Il 7 agosto Mustafa lanciò un altro attacco massiccio contro Forte San Michele e anche contro Birgu. Questa volta, i turchi fecero breccia nelle mura della città, e lo stesso Gran Maestro andò a combattere con le sue truppe e fu ferito. Sembrò che la fine fosse vicina, ma i turchi miracolosamente interruppero l’attacco e si ritirarono, credendo che le forze di sostegno cristiane fossero arrivate. Infatti, il Capitano Vincenzo Anastagi uscì da Mdina, massacrando i feriti e gli ammalati che i turchi lasciarono senza alcuna protezione nell’ospedale da campo.
Le azioni di Anastagi sono state poi giustificate ricordando che allora il concetto di pietà in battaglia non esisteva all’epoca. Quando Mustafa prese Sant’Elmo decapitò e sventrò i corpi dei cavalieri comandanti e li fece giungere attraverso il Porto fino a Sant’Angelo facendoli galleggiare sul mare. De Valette si vendicò decapitando i suoi prigionieri turchi sparando loro alla testa dall’altra parte del porto. Bosio descrive come dopo l’assalto su Senglea, alcuni turchi “gettarono via le armi e domandarono ‘un buon trattamento di guerra’”. Ma senza nessun risultato. Tale era la sete di vendetta da parte dei maltesi che il Gran Maestro fece torturare questi prigionieri e poi li fece gettare alla folla.
Dopo la battaglia del 7 agosto, lo spirito dei turchi sembrò iniziare ad affievolirsi, anche se continuò il bombardamento e venne lanciata almeno una grande offensiva contro San Michele e Birgu. Ad un certo punto ad agosto, il Consiglio dei Signori decise di abbandonare la città e ritirarsi a Castel Sant’Angelo. De Valette rifiutò di abbandonare i suoi sottoposti che avevano combattuto così coraggiosamente e bocciò la proposta. Probabilmente intuì che il nemico stava esaurendo le sue forze tanto quanto i difensori e, in effetti, i suoi attacchi non ripresero subito.
I resoconti delle settimane finali dell’assedio sono confusi, così come il diario di Balbi diventa sempre più scarso di notizie. Seguì un gioco mortale e ingegnoso di mine e contro-mine, e di combattimenti tra uomini con i lanciafiamme. I turchi tentarono di costruire un ponte che portasse a san Michele così da assalirlo ma un ingegnere maltese si fece calare sulle mura del forte in un involucro protettivo per scavare un passaggio e far passare un cannone così da distruggere il ponte. I turchi elevarono il ponte da assedio ma gli ingegneri distrussero le sue basi con una serie di colpi a catena.
Una disperazione crescente colse i turchi. Verso la fine di agosto i Giannizzeri si ammutinarono, poi Mustafa ordinò un mancato attacco su Mdina nel tentativo di passare l’inverno lì. Una lunga lettera dal Capitan Anastagi, il principale responsabile dei collegamenti con la Sicilia, dell’11 agosto ad Ascanio della Corgna, uno dei comandanti della forza di soccorso che si stava radunando, nota:
“Io giudico e sostengo a Lei, Illustrissimo Eccellenza... che i turchi non hanno più dai 12 ai 13.000 uomini da combattimento, dei quali gli unici che valgono qualcosa sono i Giannizzeri; il fior fiore è morto, e i sopravvissuti non osano più avvicinarsi all’attacco, anche se sono costretti a randellate dai Pasha”.
La lettera di Anastagi è piena di disprezzo per l’avversario ma il suo compito era di persuadere i comandanti della tanto attesa forza di aiuto che Malta sarebbe stata per loro una facile vittoria. Infatti egli sostiene che solo 22.000 soldati fossero arrivati all’inizio dell’assedio, un numero molto più vicino alla stima iniziale di de Valette che a quella di Balbi. Forse i turchi persero semplicemente perché non avevano portato uomini a sufficienza, e Balbi e altri hanno in seguito gonfiarono i numeri dell’esercito invasore.
Probabilmente l’assedio finì per esaurimento. A settembre il tempo cominciò a cambiare. Con le piogge i sopravvissuti dovettero ricorrere alle balestre invece che agli archibugi. Il cibo scarseggiava, ma i difensori non stavano morendo di fame. Balbi parla di uno scambio di pane per meloni con i turchi, e Anastagi scrive che a Mdina il bestiame era ancora numeroso anche se il vino era finito.
I turchi sapevano che l’inverno stava per giungere su di loro. Dopo la fallita conquista di Mdina cominciarono ad imbarcare l’artiglieria ed entro l’8 settembre, l’assedio venne tolto. Il giorno prima, circa 8.000 degli uomini di Don Garcia arrivarono dalla Sicilia. L’11 settembre si scontrarono con i turchi demoralizzati nella battaglia della Baia di San Paolo, dopo la quale quelli che sopravvissero si affrettarono a salire nelle loro galee e scomparvero dall’orizzonte.
Quanti furono i morti? Stando a Balbi, 35.000 turchi; secondo Bosio 30.000. Un’anonima Breve Narratione ne dichiara in modo preciso 26.654 e ancora un’altra fonte 23.000. Circa un terzo dei difensori morì, e con essi un terzo della popolazione maltese. Secondo la tradizione, si dice che alla fine solo 600 degli uomini di de Valette erano in grado di camminare.
Dopo l’assedio somme di denaro cominciarono ad arrivare a Malta, permettendo la lenta ricostruzione di Birgu, che era stata rasa al suolo da circa 100.000 colpi di cannone, e anche la costruzione della nuova pianificata città moderna, la fortificata La Valletta, che prese il nome del Gran Maestro, sul Monte Sciberras.
Per la lentezza con la quale organizzò la spedizione di aiuto, Don Garcia venne considerato la canaglia di questa vicenda e molti scrittori storici l’hanno descritto come destituito dal suo incarico dopo l’assedio, anche se rimase Viceré fino al 1568 e fu anche consigliere principale di Don Giovanni d’Austria a Lepanto tre anni dopo. In più, la corrispondenza tra de Valette, Don Garcia, e Filippo II di Spagna dimostra in modo abbastanza chiaro che se Don Garcia fu cauto, lo era perché il re Filippo lo era ancora più di lui.
I sostenitori dei turchi hanno sostenuto che il fallimento dell’assedio non alterò gli equilibri di potere, e che gli Ottomani mantennero lo stesso il controllo del mediterraneo orientale, così come furono ugualmente capaci di mantenerlo anche dopo la battaglia di Lepanto al largo di Corfù, che vide la distruzione dell’armata turca ad opera dell’armata cristiana condotto da Don Giovanni. Comunque lo scacco che subirono a Malta impedì un altro attacco in Nord Africa a La Goletta, che i turchi intendevano conquistare subito dopo Malta, e fermò una possibile invasione dell’Italia. Mostrò soprattutto che quello che una volta era l’invincibile impero Ottomano poteva essere arrestato. In questo senso Malta fu più decisiva di Lepanto, e i Cavalieri – e specialmente de Valette, il quale morì prima che la sua nuova città fosse completata e oggi è sepolto nella sua cattedrale – furono ricoperti di onore.