Il Grande assedio turco-musulmano di Malta del 1565 1/ Il primo attacco turco a Malta del 1551 e la devastazione di Gozo (da Marco Pellegrini, Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V) 2/ Appendice: qualche nota di cronologia a cura de Gli scritti 3/ Il Grande assedio di Malta (1565), di Gabriele Zweilawyer

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /07 /2016 - 23:04 pm | Permalink | Homepage
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1/ Il primo attacco turco a Malta del 1551 e la devastazione di Gozo (da Marco Pellegrini, Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V)

Riprendiamo sul nostro sito alcuni brani del volume Pellegrini M., Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V, il Mulino, Bologna 2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia, e, più specificamente, Il Grande assedio di Malta, di Tony Rothman, Il Grande assedio turco-musulmano di Malta del 1565 1/ Il primo attacco turco a Malta del 1551 e la devastazione di Gozo (da Marco Pellegrini, Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V) 2/ Appendice: qualche nota di cronologia a cura de Gli scritti 3/ Il Grande assedio di Malta (1565), di Gabriele Zweilawyer e Gozo 1551: la data che divide in due la storia dell'isola, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)

La sete di vendetta [di Dragut, corsaro di Solimano, che per un pelo era scappato alla cattura da parte di Andrea Doria] trovò occasione di sfogo nella grande offensiva che era stata predisposta contro i Cavalieri di san Giovanni: quella del 1551 sarebbe stata, nei piani della Sublime porta, la campagna che li avrebbe spazzati via dal Mediterraneo.

Come un pungiglione conficcato nel fianco occidentale della sfera d'influenza marittima della Mezzaluna, l'ordine giovannita non aveva smesso di disturbare i collegamenti tra il mar Egeo, il mar Ionio e il canale di Sicilia. A differenza di Andrea Doria, abile a scansare gli incontri ravvicinati quando essi non promettevano vittoria sicura, i Cavalieri di san Giovanni rappresentavano un bersaglio statico, assai più facile da aggredire in quanto localizzato nelle due basi di Malta e di Tripoli. La campagna ebbe inizio da Malta, considerata il caposaldo principale. L'isola non aveva mai smesso di subire attacchi in questo arco di tempo, ma la furia che la investì nell'estate del 1551 ebbe proporzioni mai viste, tanto da segnare una vera cesura nella sua storia, ormai coincidente con la storia dell'ordine giovannita[1]. […]

A Malta, dove la notizia rimbalzò immediatamente, ci si mise in assetto difensivo: data la maggiore prossimità dell'isola, fu lì che ci si attese il colpo in arrivo. I Cavalieri non mancarono di fare appello a Carlo V, chiedendogli qualche migliaio di fanti spagnoli; ma i rovesci subiti sul fronte continentale, dove il conflitto con i protestanti stava volgendo al peggio, non consentirono all'imperatore di soddisfare la loro richiesta. Tutto quello che essi ottennero fu l'ospitalità che le città siciliane di Siracusa e di Licata offrirono alla popolazione civile di Malta inabile alla guerra: donne, bambini, anziani che vi vennero trasportati in fretta e furia, scampando di poco all'orrore in arrivo.

Anche la popolazione sicula fece le spese di quest'imponente campagna dimostrativa della forza d'urto turco-barbaresca dell'era del dopo-Barbarossa. Un primo assaggio venne sperimentato dalla città di Augusta, che fu presa e incendiata; dopodiché Sinan si portò a Malta, dove arrivò con la sua armata il 18 luglio. Il Gran maestro aveva sperato fino all'ultimo di ricevere soccorsi; ma la flotta spagnola, investita da una bufera, perse 8 galee e 1.500 uomini e fu impossibilitata a intervenire. I Cavalieri si rassegnarono a contare solo sulle loro forze e ressero animosamente ai reiterati assalti che per cinque giorni il nemico sferrò in vari punti di Malta, alla ricerca di incrinature nella barriera difensiva. Sinan e i suoi furono regolarmente respinti, malgrado i lavori di ammodernamento delle fortificazioni, intrapresi in tutta fretta nei mesi precedenti, fossero ben lontani dall'essere completati. Il vero muro di sbarramento fu rappresentato dalla determinazione dei difensori, che permise alla città di Mdina, antica capitale dell'isola, di rimanere inviolata malgrado le brecce che i cannoneggiamenti produssero nelle sue vetuste mura. Lo stesso accadde alla cittadina portuale di Birgù.

Traboccanti di rabbia, Sinan e i suoi ripiegarono sull'isola di Gozo, prospiciente Malta, che le piccole dimensioni rendevano un boccone assai più facile da inghiottire. La cittadinanza andò a rinchiudersi nella cittadella sovrastante l'unico centro abitato, presidiata da un'esigua guarnigione. Le difese di Gozo erano palesemente insufficienti, al punto che nei mesi passati i Cavalieri avevano vagliato la possibilità di abbatterle e di evacuare l'isola, trasferendo in Sicilia i suoi circa cinquemila abitanti. Costoro avevano però rifiutato di muoversi, convinti di potercela fare; ma giunti al momento della verità, constatarono di aver compiuto un tragico errore. La loro resistenza, disperata, venne travolta dalla superiorità numerica degli assalitori, alla cui testa si pose Dragut che con Gozo aveva un conto in sospeso. In passato un suo fratello vi era stato ucciso e il comandante della cittadella, aggiungendo un ultimo insulto, aveva rifiutato il permesso di portare via il corpo per dargli onorata sepoltura. Era giunto il momento di far pagare l'oltraggio a tutti coloro che ne erano stati complici o testimoni.

L'assalto a Gozo, iniziato il 24 luglio, si concluse due giorni dopo con la presa della cittadella, seguita dalla deportazione di tutta la popolazione valida e dalla distruzione di case e bastioni. Quando il 30 luglio la flotta turco-barbaresca ripartì, sull'isola restavano non più di un centinaio di sopravvissuti. Ma per Sinan Pasha, per Dragut e per Salah Rais quest'orgia di distruzione rappresentò solo una mezza vittoria: Malta non era stata presa e i Cavalieri si erano dimostrati avversari invincibili[2]. […]

All'indomani della conquista di Tripoli, Solimano riconoscente nominò Dragut governatore (beylerbey) della città che era stata strappata ai Cavalieri soprattutto per merito suo. Per solennizzare quest'atto, gli inviò in dono una spada dall'impugnatura d'oro e una copia del Corano con rilegatura tempestata di pietre preziose: cimeli che sottolineavano il suo ruolo di promotore del riscatto dell'onore islamico in un'area ancora soggetta a contesa con la cristianità. Al di là della celebrazione simbolica, il concreto ruolo strategico che Dragut venne chiamato a ricoprire fu quello che lo avrebbe portato a infestare le acque del canale di Sicilia, senza rinunciare a risalite nel Tirreno in direzione della Sardegna e della Corsica. Anche sotto questo riguardo egli poteva considerarsi il prosecutore di Barbarossa: la sua azione era volta a creare uno stato di instabilità permanente nel Mediterraneo centro-occidentale, ricercato a Istanbul quale stadio preparatorio alla sottomissione dell'Italia.

L'odio di Dragut si appuntava in sommo grado sui Cavalieri, ed egli non faceva mistero della sua determinazione a cacciarli anche da Malta[3]. […]

La notizia delle razzie che, con furia immutata dai tempi di Barbarossa, imperversarono sulle coste andaluse, baleariche, siciliane, calabresi, campane, pugliesi, riaprirono in Carlo V la ferita del disastro di Algeri, aggiungendosi a un elenco già troppo lungo di sconfitte che lo confermarono nella sensazione di essere sopravvissuto a se stesso. Anche dal fronte ungherese giunsero notizie desolanti, attestanti l'incapacità di Ferdinando di tamponare una corrosione territoriale che nel 1552 mise nelle mani di Solimano la città di Temesvár (attuale Timisoara) con tutto il Banato. La personalità profonda dell'imperatore, il suo mondo ideale, quell'impasto di energie e di valori che in ogni essere umano alimentano la coscienza di sé e la sospingono in una continua proiezione verso il futuro, stavano ormai declinando[4].

2/ Appendice: qualche nota di cronologia a cura de Gli scritti

Ci permettiamo di appuntare alcune date per situare, anche se solo in maniera molto grossolana, il doppio attacco turco all’isola di Malta, postazione ovviamente strategica per ulteriori conquiste

1438-1439 Concilio di Ferrara-Firenze: al Concilio ecumenico trasferitosi da Ferrara a Firenze l’imperatore di Costantinopoli insieme al patriarca della stessa città giungono in Europa ad implorare aiuti militari contro i turchi, consapevoli che le armate turche che avanzano sono troppo forti dinanzi alla resistenza bizantina

1453 Conquista di Costantinopoli con grande strage: i turchi si impossessano dopo un lunghissimo assedio della capitale dell’impero bizantino che viene definitivamente annientato. I territori residui nei Balcani cadono nel giro di pochi anni

1480 Sbarco dei turchi ad Otranto, come testa di ponte per un’azione nella penisola italiana, e massacro della popolazione locale

1492 Il nuovo regno di Castiglia-Aragona, consapevole che i turchi stanno per impossessarsi dell’Andalusia e mettere piede nella penisola iberica, prende il potere sul regno nasride

1529 I assedio di Vienna: i turchi, dopo la conquista di Costantinopoli, proseguono la loro avanzata militare e giungono ad assediare Vienna che sbarra il passo verso il resto d’Europa.

1551 I attacco a Malta: i turchi attaccano Malta, difesa dai Cavalieri di Malta che vi sono giunti solo nel 1530 fuggendo da Rodi, appena conquistata dai turchi. I turchi, non riuscendo nel loro intento, devastano l’isola di Gozo.

1565 II attacco a Malta: è il cosiddetto Grande assedio, nel quale i turchi cercano con ogni mezzo di piegare la resistenza di Malta e dei Cavalieri, senza riuscirvi

1571 Battaglia di Lepanto (in greco Nafpaktos, fra Patrasso e l’isola di Itaca): i turchi vengono sconfitti alle isole Echinadi (allora dette dai veneziani Curzolari) dalle navi della Lega Santa composta dalla Repubblica di Venezia, dall'Impero spagnolo, (con il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia), dallo Stato Pontificio, dalla Repubblica di Genova, dai Cavalieri di Malta, dal Ducato di Savoia, dal Granducato di Toscana e dal Ducato di Urbino.

1607-1608 Caravaggio soggiorna nell’isola e diviene Cavaliere di Malta: con uno speciale permesso papale si cerca di trovare una sistemazione onorevole a Caravaggio, che diviene Cavaliere e firma la Decollazione di San Giovanni Battista di Malta con la f. di frater, frate dell’Ordine  

1683 II assedio di Vienna: i turchi cercano per l’ultima volta di conquistare l’Europa e stanno per riuscirvi, poiché Vienna da loro assediata sta per cedere, quando le truppe del re polacco Giovanni III Sobieski, giunte a rompere l’assedio, sconfiggono i turchi

3/ Il Grande assedio di Malta (1565), di Gabriele Zweilawyer

Riprendiamo dal sito www.zweilawyer.com un testo di Gabriele Zweilawyer pubblicato in quattro parti l’1/3/2016, il 9/3/2016, il 29/3/2016 e il 15/4/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)

N.B. de Gli scritti
Gabriele Zweilawyer segue, nella sua presentazione del Grande assedio di Malta, lo studio ottocentesco di Giovanni Antonio Vassallo (Storia di Malta raccontata in compendio, 1854). Il Vassallo si basava a sua volta sugli archivi dell’ordine di Malta che è la fonte quasi esclusiva degli eventi. La narrazione del Vassallo deve essere considerata “romantica”, con quelle notazioni di eroismo tipiche dell’ottocento. Nondimeno essa è certamente affidabile ed, anzi, permette di immaginare il Grande assedio meglio di una fredda esposizione dei fatti, più tipica delle ricostruzioni storiche odierne.

I/ L’Assedio di Malta del 1565: dallo Sbarco dei Turchi alla Presa di Sant’Elmo

 […] Avevamo lasciato i Cavalieri sulle loro navi, diretti a occidente dopo aver abbandonato Rodi, rimasta sotto il loro dominio per due secoli. Con la fortezza rasa al suolo e i dintorni della cittadella devastati, si erano arresi alle forze di Solimano dopo averle decimate. Lo stesso sovrano, impressionato dal valore militare degli Ospitalieri, aveva addirittura cercato di corrompere L‘Isle-Adam per farlo diventare generale supremo delle forze islamiche, ma poi si era limitato a concedere qualche giorno affinché i cavalieri abbandonassero l’isola senza essere disturbati.

Tornati in Europa, i Cavalieri si trovarono a dover risolvere la questione “nuova casa”. In realtà, le offerte da parte di alcuni regnanti furono discrete. L’Isola d’Elba, alcune isole del Baltico e altri territori divennero papabili per costruire un nuovo dominio dell’Ordine, ma l’Isle-Adam, d’accordo con i suoi Cavalieri, rifiutò tutte le soluzioni proposte. Da un lato infatti, il Gran Maestro sperava di poter ottenere nuovamente Rodi, dall’altro non voleva allontanare i Cavalieri dal cuore della lotta contro l’Islam, il Mediterraneo orientale.

Dopo Gerusalemme, Acri e Rodi, i Cavalieri attendevano ancora una volta l’enorme esercito nemico e uno scontro finale dopo quasi quattro secoli di battaglie, fughe, inseguimenti e assedi. Attendevano il vecchio Solimano, ancora divorato dalla rabbia per non essere riuscito a sconfiggerli definitivamente 43 anni prima, quando era ancora giovane e invincibile.

Come al solito, i cavalieri affrontarono la sorte con l’armatura indosso e le armi in pugno.

Alla loro testa, l’ennesimo Gran Maestro guerriero, Jean La Vallette, coetaneo di Solimano.

Il Gran Maestro La Vallette aveva 71 anni all’inizio dell’Assedio del 1565

Siamo nel 1565, sei anni prima di Lepanto.

Malta era stata stravolta dall’arrivo di Cavalieri. Prima non era altro che uno scoglio battuto dal sole, terra di pescatori e corsari, senza fortificazioni degne di nota a parte quelle della Città Notabile (o Notabile, oggi Medina) e con un’economia basata esclusivamente su quello che il mare aveva da offrire. I Cavalieri costruirono città e fortezze, imposero una legislazione moderna e la portarono ad essere una dei paesi più ricchi del Mediterraneo. 

Avendo utilizzato l’opera del De Caro per i primi due assedi, ho deciso di passare alla narrazione, meno prolissa ma ben strutturata, di Giovanni Antonio Vassallo, reperibile nel suo volume Storia di Malta raccontata in compendio (1854).

Visto che il Vassallo a volte commette piccoli errori di cronologia o narrazione militare, consiglio di leggere anche l’ottimo Osprey di Tim Pickles, Malta 1565 Last Battle of the Crusades (1998).

L’Ordine si era mantenuto sull’offensiva per diversi anni, affondando o sottraendo ai Maomettani (qui intesi sia come Pirati Barbareschi che come forze “regolari” ottomane) oltre 60 vascelli corsari e commerciali. I governanti delle roccaforti barbaresche situate ad Algeri, nell’attuale Marocco e in altri punti della costa settentrionale africana, chiedevano a Solimano I di espugnare Malta, promettendogli adeguati rinforzi per l’impresa.  Alcuni consiglieri e strateghi si Solimano, come Mehemed Pascià e Pialì Pascià, erano contrari a un attacco, mentre l’anziano Dragut, nemico giurato degli Ospitalieri, spingeva per iniziare i preparativi.

Ad ogni modo, la voce di una enorme armata turca, pronta a muoversi nella primavera del 1565, si sparse in Europa e, soprattutto, a Malta.

La Vallette fece erigere nuove cortine ai baluardi del Borgo (Birgu, oggi Vittoriosa) e della Senglea, approfondire i fossati, alzare terrapieni, insomma, si preoccupò di tutti gli accorgimenti necessari a respingere un assedio. Tutti lavorarono ai miglioramenti difensivi, comprese le donne e gli “uomini agiati“; lo stesso Gran Maestro “portava la corba per quattro ore al giorno”.

La Vallette iniziò subito anche il razionamento dell’acqua, aggiungendo vasche e condutture per massimizzare l’approvvigionamento di acqua piovana. Il problema delle c.d. Bocche Inutili venne risolto imbarcando per la Sicilia tutta la popolazione non in grado di combattere.

Oltre alle questioni tecniche, c’era da risolvere anche quelle monetarie. Bisognava assoldare i mercenari e acquistare tonnellate di vettovaglie; alla fine il Gran Maestro fu costretto a imporre una tassa di 30.000 scudi a ciascuna commenda e i singoli cavalieri misero a disposizione le loro finanze personali. In prestito dai banchieri genovesi arrivarono 12.000 scudi, 20.000 li fornirono i notabili maltesi e 10.000 giunsero dal Papa.

Il Cav. Pietro Mesquita fu nominato Capitano d’Armi e Governatore della Notabile, il Cav. Guglielmo Coupier Generale di tutta la campagna, mentre il Cav. Torellas rimase a proteggere il Gozo con i suoi uomini e altri cento soldati inviati da La Valletta. All’inizio si era pensato di evacuare il Gozo e portare tutti i suoi abitanti a Malta, ma alla fine prevalse l’idea di mantenere la roccaforte durante l’Assedio.

Il 9 Aprile 1565 raggiunse l’isola, alla testa di 27 galere, il Viceré Don Garcia. Era in viaggio per raggiungere la Goletta e preparare anche lì le difese, visto che nessuno conosceva l’effettivo obbiettivo finale dei Turchi. Rimase solo un giorno,  ma ebbe modo di consigliare al Gran Maestro l’aggiunta di un revellino al Forte di Sant’Elmo. In realtà, Don Garcia chiese anche “in prestito” le galee dell’Ordine, sostenendo che non sarebbero servite in caso di assedio, ma La Valletta accettò di inviargliele a Messina solo dopo aver ottenuto da lui mille uomini e vettovaglie. In breve: non se ne fece nulla.

Verso i primi di Maggio, il Gran Maestro chiese ai suoi commissari di redigere un rapporto completo sulle forze militari disponibili.

LINGUA CAVALIERI SERVENTI d’ARMI
Provenza 61 15
Alvernia 25 14
Francia 57 24
Italia 160 5 (oltre a 10 volontari)
Inghilterra 1 0
Aragona 86 2
Alemagna 13 1
Castiglia 68 6
TOTALE 471 77

A questi numeri vanno aggiunti i 44 cappellani militari, per un totale di 592 uomini in arme appartenenti all’Ordine.

Il calcolo finale porta, comprendendo anche i 5830 della milizia maltese e i 1120 mercenari, a 9117 combattenti. Un numero molto vicino agli 8500 menzionati dal Bosio.

Pochi giorni dopo, a Costantinopoli, l’Armata pronta a lasciare il porto ha dimensioni molto differenti. Al comando di Pialì Pascià ci sono 138 galere in assetto da guerra, che portano oltre 50 cannoni da campo e una forza di sbarco, comandata da Mustafà Pascià, di 38.300 uomini.

Gli obbiettivi affidati ai due generali da Solimano sono tre:

- Prendere Malta

- Prendere La Goletta (città tunisina in mano europea)

- Conquistare la Corsica

Cinque giorni di navigazione, e le vele della flotta turca compaiono all’orizzonte della costa orientale maltese. Il Forte di Sant’Elmo avverte il resto dell’isola con tre colpi d’artiglieria, cui rispondono quelli di Forte Sant’Angelo, della Notabile e di Gozo.

Gli abitanti di Malta piombano nel terrore. Chi è rimasto fuori dai luoghi fortificati si affretta a raggiungerli,  altri cittadini radunano gli averi e le provviste rimanenti, mentre gli addetti ai lavori di fortificazione moltiplicano gli sforzi (poiché non tutte le opere sono complete).

Il Generale Coupier si apposta vicino al porto Marsascirocco con circa 1500 uomini, dove una barca turca si avvicina e poi ritorna alla flotta. Coupier continua a seguire gli spostamenti della flotta turca dalla costa e a un certo punto quasi tira un sospiro di sollievo, perché l’armata punta verso sud. Molti altri sperano che Pialì Pascià si diriga verso La Goletta e non molesti Malta, ma i Turchi gettano l’ancora  nelle insenature di Migiarro e Ghain Toffiha.

Giunta la notte, Coupier fa riparare il grosso della truppa nella Notabile, ma teme che i Turchi vogliano assediare proprio la città. Indecisi se evacuare la città, Coupier e i notabili inviano un messaggero al Gran Maestro, che lo riceve a tarda notte e lo incoraggia a mantenere la posizione; all’alba parte per la Notabile un contingente di uomini e munizioni.

I tre forti presidiati dai Cavalieri: Sant’Elmo, Sant’Angelo (Borgo), 
San Michele (Senglea). La mappa è di poco successiva al Grande Assedio,
quindi è già presente la cinta muraria de La Valletta
nei pressi di Sant’Elmo

La mattina seguente, La Valletta assegna la difesa del Borgo ai cavalieri francesi, spagnoli e tedeschi, mentre alle più numerose schiere italiane, comandate dall’Ammiraglio De Monte, spetta quella della Senglea. Al Forte di Sant’Elmo decide di mandare il Balì Cav. d’Eguaras con 40 cavalieri e 200 mercenari spagnoli, in modo da supportare l’anziano Balì De Broglio, che è già lì a difenderlo con 120 uomini.

La Valletta ordina anche di avvelenare tutti i pozzi e le riserve idriche dell’entroterra. I Turchi però non mostrano interesse per la Notabile, e nel giro di un giorno e mezzo tutta la flotta ritorna a Marsascirocco, dove poche ore prima erano sbarcati 3000 uomini di avanguardia. I Turchi costruiscono lì gli accampamenti.

È domenica e Fra Roberto d’Evoli, un cappuccino rimasto schiavo dei musulmani per molti anni, infiamma gli animi dei soldati con le sue prediche. Un contingente di cavalleria si avvicina per provocare i Turchi e riesce a portarli fino alla fanteria di Coupier, che a sua volta indietreggia per far arrivare il nemico a distanza di tiro dell’artiglieria di Borgo. Dalla fortezza escono però 800 uomini, non autorizzati dal Gran Maestro, per aiutare Coupier. Lo scontro con i Turchi è violento e mette in rotta questi ultimi. I maltesi li inseguono a lungo, massacrandone molti e catturandone sei. Il Cav. Melchiore d’Eguaras, comandante della sortita di cavalleria, viene ferito a una gamba e sostituito con il Cav. Barrese, che riporta i cavalieri alla Notabile, mentre la fanteria rientra nel Borgo.

Il 21 Maggio il Gran Maestro fiuta un attacco turco al Borgo, quindi ordina a Coupier di accamparsi con 600 archibugieri sulla collina di Santa Margherita e al Gen. Gioù sotto i baluardi di fronte al Borgo con altri 400. Vieta inoltre ai Cavalieri di uscire e combattere allo scoperto, poiché molti di loro hanno intenzione di affrontare il nemico in campo aperto. Quando i Turchi attaccano, gli archibugieri si fanno trovare pronti e rispondono al fuoco, supportati dai cannoni del Borgo. Le ondate dell’attacco musulmano si infrangono contro il muro di piombo di quasi mille bocche da fuoco. Alla fine della giornata, i Turchi si ritirano lasciando sul campo 900 morti. Le perdite maltesi sono insignificanti.

Mustafà Pascià posiziona gli accampamenti nelle pianure di casal Tarxen, in quelle della Marsa e di fronte alla Senglea (ovviamente a distanza di sicurezza dall’artiglieria maltese). Non riesce però a concordare una strategia precisa con Pialì Pascia, anche perché entrambi sono in attesa di Dragut. L’ottantenne corsaro rimane il favorito del Sultano, e proprio quest’ultimo vuole che sia consultato per ogni decisione importante.

In linea di massima, Mustafà vuole attaccare il Borgo, mentre Pialì ha messo gli occhi su Sant’Elmo. Alla fine, prevale l’opinioni di Pialì, che ha intenzione di spostare la flotta da Marsascirocco a Marsamuscetto (una delle due insenature che delimitano la penisola ove è posizionato Sant’Elmo), in modo da precludere ogni possibilità di soccorso da parte di navi cristiane.

Sant’Elmo sorge all’estremità di una lingua di terra che viene interamente occupata dai Turchi. I lavori di costruzione delle trincee, posizionamento delle artiglierie e sistemazione della logistica continuano a ritmo incessante sotto la direzione dei due Pascià, che prevedono di prendere il forte in meno di cinque giorni. Il monte Sciberas, di fronte a Sant’Elmo, è un luogo impervio e roccioso, quindi gli Ottomani sono costretti a creare dei terrapieni portando terra dalla base del monte. Il 24 Maggio, i cannoni iniziano a cantare.

Dal canto suo, il Gran Maestro si rallegra per la scelta turca. Immagina infatti una lunga resistenza di Sant’Elmo, che possa almeno dare il tempo di finire le fortificazioni della Senglea o di vedere arrivare i soccorsi del Viceré. Per questo, invia al forte altri uomini e munizioni, portando il numero dei difensori totali a 600: 500 soldati e 100 cavalieri. Alla notizia, poi, che le riserve idriche maltesi consentiranno ai cristiani di sopravvivere per circa quattro mesi, La Valletta ordina di uccidere tutto il bestiame e salarne le carni, in modo da risparmiare tutto il consumo idrico animale.

Purtroppo per l’Ordine, il Vicerè continua a negare gli aiuti e l’arrivo di una grande flotta cristiana, guidata da Filippo II di Spagna, sembra lontano.

Arrivano invece i rinforzi turchi, sia quelli guidati dal rinnegato calabrese Luccialì (con la sua “Guardia di Alessandria”), 6 galee e 900 uomini, sia quelli di Dragut (il 30 Maggio), altre 15 galee e 1500 uomini.

Il Gran Maestro teme soprattutto le capacità tattiche e militari di Dragut, tanto da mettergli alle calcagna la sua galea personale per spiare i suoi movimenti prima dell’arrivo a Malta.

In una settimana di bombardamento continuo, le mura di Sant’Elmo subiscono gravi danni.

Il Gran Maestro decide di radunare un contingente e raggiungere Sant’Elmo per barricarvisi all’interno assieme ai suoi, ma gli altri Cavalieri gli impediscono di partire. Tuttavia molti di loro, vedendo i fratelli in difficoltà, si imbarcano su scafi leggeri per raggiungere la zona calda; il Gran Maestro cerca di favorirne il passaggio bersagliando il campo dei Turchi con l’artiglieria di Sant’Angelo. Una scheggia di pietra ferisce gravemente Pialì Pascià e tra i suoi uomini si sparge la voce della sua morte.

Il 29 Maggio i Cavalieri approfittano del caos nella catena di comando nemica e improvvisano una sortita, massacrando inizialmente molti turchi. La loro reazione è però pronta, e dopo un breve scontro, riescono a spingere di nuovo i Cavalieri all’interno del forte. Le sorti della giornata propendono a favore dei turchi quando il fumo delle armi viene portato dal vento proprio sugli spalti. Il tempo di aspettare che si diradi, e i Cavalieri si ritrovano con un cannone turco, piazzato sulla controscarpa, che fa fuoco sul revellino.

I fanti turchi mostrano grande coraggio, approntano le scale e tentano di arrivare agli spalti. Purtroppo per loro, le scale sono troppo corte, e la scalata si trasforma ben presto in un massacro. Le scale cadono sui soldati, la ritirata è resa difficile dalla controscarpa e i Cavalieri li bersagliano senza sosta. In poche ore, dall’alba a mezzogiorno, 3000 cadaveri riempiono il fosso. I Cavalieri morti sono 20, i soldati 100.

Il posizionamento finale delle batterie ottomane (blu) 
e dei forti degli Ospitalieri (rosso)

Il Cav. Bridiers, ricevuto un colpo di moschetto in pieno petto, allontana i confratelli, dicendo loro di occuparsi di chi può sopravvivere (“non mi contate più nel numero dei vivi“); si trascina poi fino alla cappella del forte e muore ai piedi dell’altare. Il balì di Negroponte e il commendator Del Broglio, anziani e sanguinanti, sono trasferiti assieme agli altri feriti a Borgo, ma chiedono a La Vallette di poter tornare al loro posto e morire con le armi in mano. Fra tanti guerrieri c’è anche un cavaliere codardo, che si imbarca con i feriti pur avendo solo una piccola escoriazione (“un colpo di cui appena vedevasi il segno“). Il Gran Maestro, disgustato, lo fa arrestare e condurre in prigione.

Per sostituire i morti e i feriti, La Vallette invia a Sant’Elmo cento uomini freschi. Ma il forte è ormai un luogo di lacrime e sangue. Moltissimi Cavalieri e soldati sono sulle mura con le braccia al collo, zoppicanti o con le bende sulla testa. Gli arti amputati durante il combattimento rimangono sparpagliati in terra perché non c’è neanche il tempo di raccoglierli. Ogni giorno, gli assediati perdevano altri uomini senza avere più la possibilità di rimpiazzarli.

Alcuni di questi inviano messaggi al Gran Maestro, chiedendogli di abbandonare Sant’Elmo e partecipare all’ultima difesa di Borgo e Senglea, ma La Vallette chiarisce che devono rimanere sul posto. La maggior preoccupazione dei Cavalieri sembra essere quella di finire sotterrati durante i cannoneggiamenti, considerandola una morte poco onorevole, quindi il Gran Maestro è costretto a ripetere loro di non abbandonare i loro posti e non tentare atti eroici.  Invia anche tre commissari per valutare le effettive condizioni in cui versa Sant’Elmo; due di loro lo reputano ormai indifendibile e, anzi, non capiscono come abbia fatto a resistere per così tanti giorni, mentre il terzo, Costantino Castriota (che si vantava di discendere da Scanderberg), pensa di poterlo far resistere ancora a lungo, e chiede al Gran Maestro di assegnargli la difesa del forte. Molti cittadini, soldati e abitanti delle campagne sfuggiti ai Turchi chiedono di seguire Costantino, mentre La Vallette stuzzica i difensori del forte dicendo loro che volendo possono ritirarsi, perché per ognuno di loro che abbandonerà Sant’Elmo ci sono dieci volontari pronti. I difensori del forte, colpiti nell’orgoglio, dichiarano al Gran Maestro (ci vogliono due missive, perché La Vallette rimanda indietro la prima, considerandola poco sottomessa) che rimarranno a difesa di Sant’Elmo fino alla morte.

La milizia di Costantino viene così sciolta e la difesa del forte rimane ai superstiti dei primi assalti. Sant’Elmo, gravemente danneggiato, ancora resiste.

Dopo il suo arrivo, Dragut ordina di avvicinare l’artiglieria e di posizionare altre quattro colubrine sulla punta opposta al forte (divenuta poi Punta Dragut), in modo da colpirlo anche al fianco. In realtà, Dragut non approva la scelta di lasciarsi alle spalle sia la fortezza del Gozo che la Notabile, ma essendo arrivato con una settimana di ritardo, accetta le decisioni dei due Pascià.

Il 3 giugno, Mustafà Pascià ha due settimane di ritardo rispetto al piano originale. Ordina quindi un attacco congiunto via terra e via mare, non prima di aver completamente raso al suolo il bastione del forte. Migliaia di Giannizzeri passano sul fossato, ormai riempito, con il supporto di 4000 archibugieri. Per gli assediati è quasi impossibile affacciarsi alle breccia aperta nelle mura. I Giannizzeri arrivano a pochi metri da ciò che resta del forte e trovano la breccia presidiata da tutti i sopravvissuti; le linee di difesa sono costituite da tre soldati alternati a un Cavaliere.

Dopo essersi scaricati addosso gli archibugi, le due parti arrivano a un corpo a corpo furioso. Le alabarde vanno in frantumi, le spade si spezzano, e a molti non rimane che affrontarsi a colpi di pugnale o di pietra.

Per la prima volta, l’Ordine sperimenta quel giorno un’arma terribile. Dall’alto delle mura, i Cavalieri gettano sugli assalitori, ammassati sotto la breccia, dei cerchi di stoppa infuocati (inzuppati di pece e olio bollente). Ogni cerchio manda a fuoco da tre a sei Turchi, creando un grave scompiglio. Per sei ore è un continuo di cadaveri in fiamme e corpi che volano giù dalle mura sulla massa degli assedianti. A denti stretti, Mustafà fa suonare la ritirata. 2000 dei suoi sono morti, mentre i Cavalieri rimasti sul campo sono 17. Purtroppo i Cavalieri hanno perso 300 soldati (contando anche i gravemente feriti).

Il Gran Maestro è sempre più convinto che la difesa di Sant’Elmo sia la chiave per resistere fino all’arrivo degli aiuti e, con l’ennesimo stratagemma, riesce a far arrivare al forte altri 150 soldati e Cavalieri. Non ci fu bisogno di convincere nessuno, perché si presentarono tutti volontari.

Le parole del Vassallo sono chiare: il forte era diventato una tomba, i volontari erano destinati alla morte.

Mustafà è furioso oltre ogni limite. Addirittura, il 10 Giugno tenta un fallimentare attacco notturno. Sant’Elmo impegna tutte le sue forze da troppo tempo e i Cavalieri stanno rinforzando le difese delle altre due roccaforti di Borgo e Senglea. Il 15 Giugno, per evitare altri aiuti da Borgo, Mustafà inizia a far scavare una nuova trincea per cannoneggiare eventuali imbarcazioni inviate dal Gran Maestro.

Quest’ultimo continua inoltre a bersagliare, da forte Sant’Angelo, l’esterno delle linee turche. La sua perseveranza viene premiata.

Il 18 Giugno Dragut, infastidito dai fallimenti ottomani, decide infatti di controllare di persona le fortificazioni nemiche nonostante gli 80 anni suonati. Da forte Sant’Angelo, l’artigliere siciliano Giovanni Antonio Grugno nota le insegne colorate del drappello e fa fuoco con il suo pezzo. Dragut è fuori portata, ma la palla di Giovanni Antonio frantuma una roccia e le schegge investono Dragut e i suoi accompagnatori. Il capitano corsaro rimane ferito gravemente a un orecchio.

Dragut si trascina al campo aiutato da altri soldati, ma le sue condizioni sono gravissime.

Anche per questo evento, Mustafà opta per una soluzione drastica. Fa allungare le trincee sotto Sant’Elmo fino al mare (su entrambi i lati) e le riempie di artiglieria, in modo da investirlo con un fuoco a 180°. Fa inoltre risalire 80 galere e numerose barche cariche di archibugieri verso l’imboccatura di Marsamuscetto.

Posizionamento finale delle artiglierie ottomane che battono Sant’Elmo

Il 21 Giugno, il Gran Maestro celebra la festa del Corpus Domini pregando per i suoi confratelli di Sant’Elmo. Nel frattempo, inizia l’assalto finale di Sant’Elmo, che vede contrapposti duecento assediati a decine di migliaia di turchi. Quando sorge il giorno, centinaia di bocche da fuoco tempestano Sant’Elmo.

Gli Ottomani compiono tre assalti, uno più violento dell’altro, ma sono respinti. Al tramonto, i Cavalieri sono stremati, arsi dal caldo e feriti. Molti muoiono nel corso della notte, che i sopravvissuti impiegano quasi per intero a medicarsi reciprocamente le ferite. L’unico cappellano rimasto nel forte è un generoso cappuccino, che non potendo più celebrare nella cappella, esorta e prega direttamente sulla breccia. Al tramonto del secondo giorno Sant’Elmo ancora resiste, ma i Cavalieri e i soldati rimasti decidono di prepararsi alla morte ricevendo i sacramenti e abbracciandosi fra loro.

Un disperato tentativo di far giungere altri soldati a Sant’Elmo con cinque galee fallisce nella notte. Fra i volontari ci sono anche due ebrei maltesi.

All’alba del 23 Giugno, nel forte di Sant’Elmo ognuno va a occupare il posto prestabilito “per morire nel letto d’onore.

In preda a un senso del dovere e dell’onore al di fuori dell’umana comprensione, gli infermi e i gravemente feriti (fra cui il comandate D’Eguaras) chiedono di posizionare delle sedie sulla sponda della breccia, caricano gli archibugi e attendono lì i loro nemici. A detta delle fonti dell’epoca, anche i soldati e i mercenari mostrano lo stesso valore dei Cavalieri.

Il 23 giugno, dopo quattro ore di assalti, a difendere Sant’Elmo rimangono 60 uomini. Sotto le mura, ci sono 10.000 Ottomani. Il cavaliere posto davanti al forte, abbandonato dai Cavalieri, viene occupato dal nemico, che da quella posizione inizia a tirare all’interno del forte. Si tratta di un vero e proprio tiro al bersaglio, poiché i Cavalieri non hanno più polvere da sparo.

Rimasti a difendere la breccia con picche e spadoni, gli ultimi soldati cristiani vengono spazzati via dall’ultimo assalto. All’interno di Sant’Elmo, i Turchi trovano seicento fra morti e moribondi. Questi ultimi prendono la prima arma a disposizione e cercano di trovare una morte onorevole. Nessuno di loro sopravvive al massacro, a parte nove Cavalieri presi prigionieri di cui non conosciamo la sorte. Le notizie relative a quegli ultimi momenti provengono da cinque maltesi che, feriti, lasciano l’armatura e raggiungono Borgo a nuoto.

Quando entra nel forte, Mustafà fa cercare i cadaveri dei Cavalieri e li fa inchiodare per un piede alla volta della cappella, strappa i loro cuori e gli amputa le mani. Ad altri fa incidere delle grosse croci sul petto e sulla schiena, li inchioda ad alcune travi e li getta in mare dove la corrente si muove verso Borgo.

Guardando Sant’Angelo, Mustafà dice:

Allah, se un figliuolo ci è costato così tanto, quale prezzo dovremo pagare per il padre?

Ha perso 8.000 dei suoi uomini migliori per prendere un cumulo di macerie. La notizia della presa di Sant’Elmo raggiunge anche Dragut, che riesce ad accennare un sorriso prima di morire per le ferite riportate qualche giorno prima.

Quando i cadaveri mutilati dei Cavalieri raggiungono le sponde di Borgo, l’anziano Gran Maestro non resiste alla rabbia. Fa decapitare tutti i prigionieri ottomani e caricare i cannoni di Sant’Angelo con le loro teste, che raggiungono così l’accampamento di Mustafà come monito di ciò che lo aspetta.

La battaglia per Sant’Elmo è finita, ma quella per Malta è appena iniziata.

II/ L’Assedio di Malta del 1565: dalla Caduta di Sant’Elmo all’Assalto della Senglea

La presa di Forte Sant’Elmo è costata a Mustafà oltre 8.000 dei suoi uomini migliori, mentre i difensori maltesi hanno perso circa 1.500 fra Cavalieri e soldati. Il computo rimane comunque a vantaggio degli Ottomani, che continuano a ricevere aiuti da migliaia di corsari provenienti dal nord Africa in cerca di bottino.

A Sant’Elmo, Mustafà spera di impadronirsi dell’artiglieria maltese; perde il senno quando capisce che i Cavalieri mutilati e più gravemente feriti hanno passato le ultime ore di vita a danneggiare tutti e 27 i pezzi rimasti, che risultano inutilizzabili. Dall’altra parte del Porto Grande, La Valette si trasferisce da Sant’Angelo all’Albergo d’Italia, negli appartamenti del Commendator De Mailloc. Non sopporta infatti la vista della mezzaluna che sventola sulle macerie di Sant’Elmo, ma al popolo e ai Cavalieri non mostra alcuno scoramento. Si reca anzi nella piazza del Borgo per parlare con i cittadini e rassicurarli; non annulla neanche i festeggiamenti (con fuochi pirotecnici) per il giorno di San Giovanni. Il giorno dopo, come già ricordato nel precedente capitolo, i cadaveri mutilati e crocefissi dei Cavalieri arrivano, galleggiando, fino al Borgo. Il Gran Maestro si reca a osservare l’osceno spettacolo assieme al popolo. Stavolta non trattiene la rabbia. Mentre i cadaveri degli amici vengono portati sulla terraferma per avere degna sepoltura, tiene un discorso direttamente in loco, infuocando gli animi anche delle donne e dei fanciulli.

Agli armati si rivolge invece così:

Cosa potrebbe desiderare di meglio un Cavaliere, che morire con le armi in mano? E cosa potrebbe essere più adatto, per un membro dell’Ordine, che sacrificare la vita in difesa della propria fede? Non dobbiamo abbatterci perché i Turchi, alla fine, sono riusciti a piantare il loro maledetto stendardo fra le rovine di Sant’Elmo. I nostri Fratelli, che sono morti per noi, hanno insegnato loro una lezione che ha causato angoscia in tutto l’esercito Turco. Se il povero, piccolo e insignificante Sant’Elmo è stato in grado di resistere ad attacchi violenti per un mese, come può aspettarsi di avere successo contro la più forte e numerosa guarnigione del Borgo? Noi Vinceremo.

Il Gran Maestro non si dimentica degli altri combattenti, maltesi e mercenari, e parla anche a loro:

Siamo tutti soldati di Nostro Signore, anche voi fratelli miei. E se per sfortuna tutti i Cavalieri e gli ufficiali dovessero morire, sono sicuro che voi continuerete a battervi con la stessa veemenza.

È comunque interessante notare come il Vassallo, nella sua cronaca, non giustifichi la rappresaglia di La Valette, che fa piovere le teste dei prigionieri sul campo turco.

La Valette, caduto Sant’Elmo, chiede al Cav. Mesquita (il comandante della Notabile) di inviargli alcuni contingenti della milizia cittadina e di cercare, ancora una volta, aiuto dalla Sicilia. Nel frattempo, un Piccolo Soccorso proveniente proprio da quell’isola giunge in vista di Malta. A guidarlo è Don Giovanni di Cardona, che però gira le vele appena vede le bandiere ottomane sventolare su Sant’Elmo. Il Vicerè è infatti stato chiaro: se Sant’Elmo è già caduto, non avvicinarti all’isola.

La Valette dirige e partecipa in prima persona a tutti i lavori e alle opere necessarie a rendere il più sicure possibili le due penisole fortificate di Borgo e Senglea. In pochissimi giorni, fa abbattere tutti gli alberi dei giardini nelle vicinanze delle città e anche decine di abitazioni che i Turchi potrebbero utilizzare come riparo o come materiale di recupero per piattaforme o per altre difese. Davanti alle mura vuole tabula rasa.

Il 29 Giugno, a sei giorni dalla caduta di Sant’Elmo, arrivano alla Notabile (favoriti da una densa nebbia) i primi soccorsi dalla Sicilia. In tutto circa 600 uomini, fra cui 44 Cavalieri (compreso Enrico La Valette, nipote del Gran Maestro), 200 soldati spagnoli, 200 mercenari italiani e una quarantina di benestanti avventurieri europei.

Mesquita decide che il Gran Maestro deve sapere la buona novella, e quindi ha l’idea di spedire al Borgo un maltese, Bajada, in abiti ottomani. Bajada ha trascorso diversi anni come schiavo dei turchi e padroneggia la loro lingua. In pieno giorno, passa in mezzo ai ricognitori turchi e arriva senza problemi davanti al Gran Maestro.

Il 3 Luglio l’intero contingente di soccorso giunto alla Notabile (con l’eccezione di 60 uomini trattenuti in città da Mesquita) percorre quasi 20 miglia a piedi per aggirare gli Ottomani e arrivare al Borgo passando dalla parte meridionale dell’isola.

I Cavalieri sono a conoscenza, a grosse linee, del piano d’assalto di Mustafà, ma a confermarlo in modo completo è uno schiavo greco, Filippo Lascaris, che fugge dall’accampamento turco e raggiunge a nuoto la Senglea.

La storia di Filippo Lascaris merita un approfondimento. Egli è infatti un aristocratico greco, discendente degli Imperatori Romani d’Oriente, catturato in gioventù dai Turchi. Pur avendo raggiunto una buona posizione all’interno dell’esercito ottomano, egli racconta che la difesa dei Cavalieri ha fatto scattare qualcosa in lui, e che non può più accettare di stare dalla parte di coloro che hanno umiliato la sua famiglia. Definiamolo un ravvedimento operoso e tardivo.

I Turchi avrebbero attaccato in massa, via terra e via mare, la Senglea. Per evitare le cannonate di Sant’Angelo, Mustafà ha intenzione di trasportare le barche via terra, attraverso la penisola di Sant’Elmo, fino al Porto Grande. Mustafà ha inoltre già deciso anche la strategia post-conflitto: dopo aver massacrato tutti i Cavalieri, lascerà a Malta il Pascià di Rodi (l’isola strappata all’Ordine quaranta anni prima) con 10.000 uomini. Mustafà pensa infatti anche alla conquista de La Goletta, ossia il secondo obiettivo fissato da Solimano.

Mentre la parte della penisola Senglea che guarda al Borgo è protetta dalla grossa catena che unisce le punte delle due penisole e da un sufficiente quantitativo di artiglieria, sul lato interno le mura non sono ancora abbastanza alte. La Vallette chiede ai suoi ingegneri di trovare una soluzione per impedire lo sbarco delle forze turche sul litorale, e il costruttore Orlando Zabbar, coadiuvato dai piloti Paolo Micciolo e Paolo Burlò, propone la costruzione di una palizzata lungo tutta la penisola, da piantare in acqua a 15 passi dal litorale. I pali, distanziati di 10 passi fra loro, saranno uniti da una grossa catena Si tratta dell’unica soluzione fattibile per impedire uno sbarco. La Valette ordina di costruirla solo nelle ore notturne, e gli operai riescono nell’impresa impossibile di ultimarla in poco più di una settimana. Altri intralci allo sbarco (alberi, tronchi, vecchie imbarcazioni) sono disseminati nei luoghi strategici.

Il 4 Luglio, Mustafà viene a sapere che un contingente (di cui non conosce esattamente la consistenza numerica) è riuscito ad aggirare i suoi uomini e a raggiungere i Cavalieri. Dopo la rabbia iniziale, invia a Solimano una missiva per chiedergli nuove truppe, giustificandosi, a detta del Vassallo, così:

Perché le fortezze di Malta sono assai più bellicose ed ostinate di quello ch’era stato dato a intendere.

Inizia inoltre a pensare di offrire ai Cavalieri dei termini di resa favorevoli, simili a quelli già concordati a Rodi nel 1522. Addirittura, vuole proporre una nuova isola ai Cavalieri, forse nell’Egeo, al prezzo di un modesto tributo annuo.

Le teste dei prigionieri turchi, recapitate a colpi di cannone nell’accampamento, fanno però riflettere Mustafà sull’opportunità di mandare uno dei suoi come messaggero. Decide quindi di inviare un anziano schiavo cristiano. Il Gran Maestro pretende però che lo schiavo giunga a lui bendato, senza avere la possibilità di osservare le forze cristiane. Dopo aver ascoltato le condizioni turche, il Gran Maestro rimane in silenzio per qualche secondo e poi dice una sola parola: Impiccatelo. Lo schiavo lo prega di risparmiarlo e La Valette gli concede la grazia e la possibilità di tornare da Mustafà. Non prima, però, di averlo portato ai bastioni di Provenza e Alvernia, i più possenti e presidiati, e avergli fatto osservare l’altezza delle mura.

Il Gran Maestro gli indica soprattutto l’ampiezza e la profondità del fossato. Lo schiavo si sporge dalle mura e mormora “I Turchi non prenderanno mai questo posto“. La Valette risponde:

Dì al tuo padrone che (il fossato) è l’unico terreno che gli concederò. Ecco lì il luogo che potrà avere per i suoi. Lo riempirà con i corpi dei sui Giannizzeri.

La Valette non prende neanche in considerazione una possibile resa. Preferisce farsi massacrare come i difensori di Sant’Elmo. I maltesi di Borgo e Senglea sono della stessa idea: con i Cavalieri fino alla morte.

Di fronte al rifiuto, Mustafà giura che ucciderà ogni Cavaliere e ogni maltese di Borgo e Senglea.

Si rivolge poi alla Notabile, questa volta facendo leva direttamente sui maltesi. Cerca di convincerli che turchi e maltesi, una volta eliminati i Cavalieri, potrebbero vivere in pace e prosperità. Per la seconda volta in pochi giorni, i maltesi rifiutano di venire a patti con gli Ottomani, dicendo che hanno giurato alla Religione (ossia ai Cavalieri) “fedeltà inviolabile”.

Il giorno successivo, Mustafà ordina di aprire il fuoco sulla Senglea. Il posizionamento iniziale della sua artiglieria prevede sette cannoni sulle alture di Santa Margherita, sette a Corradino e dodici sul monte Sceberras.

Un drappello turco attacca il fronte della Senglea (la parte della penisola che dà sulla terraferma), dove alcuni difensori si sono sistemati fra il revellino e un riparo di botti piene di terra. L’avamposto maltese riesce a resistere per qualche tempo, ma alla fine è costretto a ritirarsi nelle mura; non prima, però, di aver fatto saltare in aria il revellino.

I Turchi iniziano subito a lavorare a un ponte di assi per attraversare il fossato e tentare la scalata. Dall’altro lato delle difese cristiane, il 7 luglio tocca anche al Borgo subire un bombardamento.

L’8 luglio, La Valette viene a sapere che ai Turchi sono arrivati nuovi aiuti: si tratta di Hassan Pascià, governatore di Algeri, con 28 galere e 2.500 soldati. Si risolve quindi a scrivere, per l’ennesima volta, al Vicerè di Sicilia, chiedendo il “Gran Soccorso” atteso da settimane. Il Gran Maestro descrive con minuzia di particolari le forze nemiche che stanno cannoneggiando Borgo e Senglea, e spera in una forza di sbarco cristiana di 12.000 fanti e 80 galere. Nel corso della missiva, considerando la penuria d’acqua che i Turchi sono costretti a fronteggiare, reputa sufficienti anche soli 6.000 uomini. Anche i Cavalieri hanno però quasi esaurito le riserve idriche, tanto che il Gran Maestro chiude così la sua missiva:

Il Vicerè però fa dei calcoli diversi. A Malta ci sono più di 200 galee turche e circa 40.000 (visto che i rinforzi avevano quasi pareggiato i caduti) uomini in armi. Don Garcia di Toledo ha a sua disposizione meno di 100 galee e sa che Sant’Elmo è già caduta. Il rischio di condurre alla distruzione buona parte delle forze armate poste a difesa della Sicilia è grande. Chiede quindi consiglio a Re Filippo. Nel frattempo però, a Messina si sono radunati 600 fanti, inviati dal Papa e comandati da Pompeo Colonna, 200 mercenari spagnoli e altri cavalieri e avventurieri per un totale di 1200 soldati. Caricati su 4 galee, i soldati sostano al Gozo e, la notte del 12 Luglio, arrivano nei pressi del Grande Porto, pronti a forzare il blocco turco. La Valette però segnala da Sant’Angelo che l’attracco non è sicuro e che il rischio di essere affondate dal fuoco turco è troppo grande. Le galee quindi riprendono la rotta per la Sicilia

In rosso la linea difensiva dei Cavalieri. Le mezzelune verdi 
rappresentano il posizionamento dell’artiglieria ottomana
diretta sulla Senglea. La freccia verde mostra invece il tragitto
terrestre per portare le navi ottomane nel Porto Grande.

Pur essendo in numero sempre maggiore e con enormi quantità di artiglieria a disposizione, i Turchi non se la passano troppo bene. L’arrivo di Hassan crea infatti un altro triumvirato che raramente si trova d’accordo. Il governatore di Algeri vuole concentrare gli sforzi sulla Senglea (che vuole affidati al suo comando), mentre Mustafà preferirebbe un assalto generale a entrambe le fortificazioni. Inoltre, i pozzi fatti avvelenare dal Gran Maestro provocano una moria di soldati.

Mustafà e i suoi, nonostante la costruzione notturna, si sono accorti della palizzata davanti alle sponde della Senglea e vogliono distruggerla prima dell’assalto generale. Alcuni soldati turchi in grado di nuotare sono inviati a smantellarla, ma dopo pochi minuti si gettano in acqua anche i maltesi, che nel nuoto sono molto più abili. Lo scontro acquatico si risolve infatti a favore dei maltesi, che non subiscono perdite, mentre i turchi lasciano sul fondo del mare uomini e strumenti.

Alla fine comunque, prevale il piano di Hassan, che porta i suoi uomini e migliaia di guastatori alle porte della Senglea. I difensori non perdono tempo e, nell’attesa dell’assalto, costruiscono un ponte di barche (idea del Cav. Ottone Bosio) per favorire le comunicazioni fa la Senglea e Borgo e colpiscono con diverse sortite notturne.

I Turchi tentano ancora i Maltesi con vantaggiose proposte di resa, ma la risposta rimane la stessa:

Il Popolo fra mille stenti volentieri morrebbe, anziché mettersi sotto lo stendardo dell’aborrita mezzaluna.

Il grande assalto si fa imminente. Hassan è pronto a guidare le truppe via terra, mentre un suo ufficiale, il vecchio corsaro Candelissa, quelle di mare. Pialì Pascià ha invece il compito di tenersi pronto con le sue 60 galee, trasportate all’estremità più lontana dell’insenatura del Grande Porto.

All’alba del 15 Luglio, inizia il cannoneggiamento generale. Hassan porta i suoi verso San Michele, mentre Candelissa appronta decine di navi di ogni dimensione per tentare lo sbarco sui lidi protetti dalla palizzata. Le lodi ad Allah assordano i difensori, mentre Mustafà osserva l’azione dalla collina di Corradino.

La palizzata impedisce lo sbarco lungo tutta la costa interna della Senglea, ma un migliaio di Giannizzeri riesce ad approdare sullo sperone, ossia sulla punta della penisola. Candelissa, onde evitare una ritirata dei suoi, ha scelto i soldati fra coloro che non sanno nuotare.

Sulla punta dell’altra penisola, quella di Borgo, il Cav. De Guiral presidia una delle batterie di Sant’Angelo. Dall’arrivo dei Turchi, ormai quasi due mesi prima, non ha ancora sparato un colpo.

Quel giorno però, osserva con attenzione le manovre turche. Impedisce ai suoi artiglieri di far fuoco subito e chiede loro di caricare i cinque cannoni a sua disposizione con pezzi di ferro, catene e mitraglie. De Guiral attende che tutte e dieci le imbarcazioni turche abbiano completato le operazioni di sbarco. Quando mille Giannizzeri si ammassano sulla punta scogliosa della Senglea, De Guiral ordina di fare fuoco con tutti i pezzi. Palle di piombo, catene e chiodi investono in pieno Giannizzeri e imbarcazioni. È una carneficina. In cinque minuti ne muoiono 800 e tutte le imbarcazioni, tranne una, finiscono a picco.

Lo sventurato sbarco di Candelissa

Nonostante questo, uno sfortunato evento rischia di far cadere la punta della Senglea. Un soldato di galera cristiano infatti, tale Ciano, accende per sbaglio una pignatta infuocata e, impaurito, la getta via; la pignatta finisce nel mucchio delle altre pignatte provocando una deflagrazione che, pur facendo pochi morti, crea una grande scompiglio in quella sezione dei bastioni. Candelissa riesce a sbarcare altri dei suoi, che arrivano a ridosso delle mura (dove i cannoni di Sant’Angelo non possono più colpire senza rischiare di uccidere anche i difensori) e li spedisce all’assalto dicendo loro che le forze di Hassan, dall’altro lato della Senglea, sono già entrate in città e hanno iniziato il saccheggio senza di loro.

I Turchi salgono sulla mura, ma i Cavalieri, guidati da D’Aux e coadiuvati da centinaia di giovani maltesi armati di pietre e fionde, riescono a respingerli. Federico di Toledo, figlio del Vicerè, viene però colpito a morte. I Turchi inizialmente ritentano la scalata, ma alla fine si sparge la voce che Candelissa li ha ingannati (ossia che gli uomini di Hassan non hanno, in realtà, fatto breccia),  e il loro furore si spegne, anzi, si rivolge verso Candelissa, che viene accusato di essere solamente un rinnegato greco e bugiardo.

Nella confusione della ritirata, i Turchi si gettano sulle poche barche rimaste, ma sono colpiti duramente dagli archibugieri sulle mura, dai sassi (le donne rifornivano continuamente i frombolieri), dagli ordigni incendiari e, infine, dai cannoni di Sant’Angelo, che tornano a tuonare. Lasciando solo poche vedette sul lato verso il mare, tutti i difensori corrono dall’altro lato della Senglea, dove le forze dei Cavalieri, comandate dal Cav. Ricca e dal Cav. De Robles, resistono con grande difficoltà.

Qui Hassan, perso l’impeto iniziale, abbandona gli assalti e affida il comando all’Agà dei Giannizzeri. Arriva anche Mustafà, che ha appena osservato il disastro delle forze di Candelissa.

Dagli spalti i difensori si fanno coraggio urlando: “Nessuna pietà, ricordate Sant’Elmo!“.

Dopo sei ore di battaglia, Mustafà fa suonare la ritirata, mentre i soldati maltesi sono trattenuti a stento dall’inseguire il nemico fuori dalle mura. Allo sperone (la parte di Senglea verso il mare) i difensori hanno perso poche decine di uomini; sul fronte interno invece sono morti 42 cavalieri e 200 soldati (mercenari e maltesi). Per i Turchi le cose sono andate molto peggio, visto che all’appello mancano più di 3.000 soldati e, cosa da non sottovalutare per il morale, ben otto stendardi, che il Gran Maestro fa appendere al contrario nella Chiesa di S.Lorenzo.

Sperando almeno di disturbare il sonno dei difensori, Mustafà ordina un cannoneggiamento generale notturno sulla Senglea, ma i maltesi (come ogni notte) non gli danno peso e si calano dalle mura per saccheggiare vesti di sete e gioielli dai cadaveri dei Giannizzeri.

La Valette scrive subito al Vicerè, sperando che la notizia della vittoria lo spinga a inviare almeno gli aiuti che, pochi giorni prima, non si erano potuti avvicinare. Le comunicazioni però, con i Turchi che controllano tutta la zona a ridosso di Borgo e Senglea, sono complicatissime. Ogni messaggio del Gran Maestro deve prima giungere alla Notabile, dove Mesquita si occupa di inviarlo in Sicilia. Bajada, il maltese turcofono impiegato di solito, non può più essere impiegato. Quando era stato schiavo infatti, il suo padrone turco gli aveva mozzato un orecchio e un servo del Cav. Romegas, fuggito dal Borgo, è in grado di riconoscerlo. La Valette affida quindi quattro copie della missiva ad altrettanti valorosi maltesi, che si impegnano ad attraversare a nuoto il Porto Grande per poi raggiungere a piedi la Notabile. Tre di loro sono catturati, torturati e uccisi, ma riescono a disfarsi delle lettere nelle imminenze della cattura, mentre il quarto riesce nell’impresa.

Il 16 Luglio, Mustafà osserva con orgoglio il posizionamento dell’enorme ponte di assi sopra il fossato davanti alla Senglea. I Cavalieri sono preoccupati, perché ci sono diverse brecce nelle mura e il ponte permetterebbe ai Turchi di avanzare in massa o piazzare delle mine sotto le mura. Il fuoco incrociato delle artiglierie dell’Ordine non riesce a colpire il ponte, posizionato in modo ottimale dagli ingegneri turchi. L’unico modo per colpirlo è dalla sezione di mura perpendicolare a esso. Gli ingegneri maltesi e i Cavalieri studiano, nel giro di poche ore, una rischiosissima contromossa. L’idea è quella di calare due gomene ai lati del ponte assieme a un manipolo di soldati, i quali dovranno legare le gomene sotto il ponte e permettere così di rovesciarlo tramite gli argani all’interno della fortezza.

Il nipote di La Valette, giunto con il Piccolo Soccorso, si offre volontario per guidare la spedizione notturna. I Turchi però sono lì ad aspettarli e li massacrano tutti. La notizia giunge immediatamente a La Valette, che non versa (almeno in pubblico) una lacrima, e anzi, giunta la mattina, tiene un discorso in onore del nipote in cui narra di come sia “bello e onorevole morire da prode per la fede.

Ma non c’è tempo neanche per le esequie: quel ponte è un pericolo troppo grande. Il Gran Maestro spedisce quindi l’ingegnere maltese Evengelista Menga e l’allievo Girolamo Cassar a concordare con il Cav. Robles (a capo del Piccolo Soccorso) un modo per distruggere l’opera turca. Le sue ultime parole prima di lasciarli andare sono:

Non mi tornate d’innanzi senza aver distrutta quell’opera!

Gli ingegneri si mettono quindi al lavoro

III/ L’Assedio di Malta del 1565: dall’Assalto della Senglea all’Arrivo del Gran Soccorso

Abbiamo lasciato l’ingegnere maltese Evangelista Menga e il suo allievo Girolamo Cassar alle prese con lo studio di un piano atto a distruggere il ponte di assi gettato dai Turchi sul fossato. Girolamo Cassar decide di rischiare la vita per effettuare le accurate misurazioni necessarie al progetto. Fa costruire una cassa di legno un po’ più lunga di lui e imbottita con diversi materiali per attutire un eventuale colpo di artiglieria. Entra nella cassa disteso a pancia in giù e, piano piano, si fa spingere fuori dalle mura.

Dobbiamo immaginarla come una specie di bara con la parte anteriore, quella che sbuca oltre il parapetto, ben corazzata. Cassar rimane quasi sospeso, grazie alle due funi che permettono alla cassa di “uscire” dalle mura, sul ponte dei Turchi, ed è quindi in grado di prendere le misure necessarie con il filo a piombo (calato da un’apertura sul fondo della “bara”). Con tutti i dati a disposizione, Menga e Cassar ricavano una nuova troniera (un’apertura per l’artiglieria) all’interno di una casamatta, che guardi esattamente al centro del ponte. Il cannone viene posizionato e fa fuoco a ripetizione, mandando in frantumi parte del ponte. Vista la grande quantità di schegge e detriti prodotti, i maltesi completano l’opera incendiandolo con pignatte infuocate. Il ponte brucia per tutta la notte del 17 Luglio. I Turchi provano a rimetterlo in sesto durante la mattinata, ma non c’è più nulla da fare.

Nel frattempo, a quasi tre mesi dall’arrivo a Malta, il campo degli assedianti continua a essere fiaccato dalle malattie e dalla mancanza d’acqua. Si sparge inoltre la voce che il Gran Soccorso stia arrivando; Mustafà (anche per tenere buoni i suoi) manda Hassan di Algeri a pattugliare le acque intorno all’isola, mentre Uccialì (corsaro rinnegato italiano, nato Giovanni Dionigi Galeni), governatore di Tripoli, è costretto a ritornare ai suoi possedimenti a causa di una rivolta araba.

Le defezioni non si fermano qui, visto che anche Pialì Pascià, infuriato per essere bloccato a Malta da mesi con tutta la flotta, decide di riprendere il largo con operazioni di pattugliamento. Giovane e favorito di Solimano, Pialì Pascià è a malapena tollerato dal vecchio Mustafà, che, dal canto suo, ha inanellato una serie di sconfitte inaspettate. Proprio per questo, Mustafà riesce a convincere Pialì a rientrare in Malta e guidare egli stesso il prossimo assalto, diretto al Borgo. Egli riesce a convincere l’Ammiraglio  (più volte definito “giovane” nonostante avesse 50 anni) dicendogli che a vittoria è certa, ma in realtà vuole qualcuno con cui condividere un eventuale fallimento.

Altra spina nel fianco è la cavalleria della Notabile (la vecchia capitale di Malta, una roccaforte al centro dell’isola), che per tutto l’assedio ha continuato le sue scorribande, intercettando ogni drappello turco che prova a staccarsi dal grosso dell’esercito.

Le disavventure dell’esercito turco sono boccate d’ossigeno per il Gran Maestro, che reputa imminente anche l’arrivo del Grande Soccorso (lo aspetta per il 25 Luglio).

Purtroppo per i Cavalieri però, i Turchi cominciano i preparativi per il nuovo assalto. A preoccupare maggiormente i difensori sono le mine che i Turchi iniziano a scavare sotto i bastioni. Protetti infatti dal tiro di ottimi cecchini, che rendono quasi impossibile affacciarsi ai parapetti senza il rischio di una palla in fronte, i manovali ottomani non hanno problemi ad arrivare fin sotto le mura.

Ancora oggi, è facile comprendere come la Notabile 
fosse una città quasi inespugnabile.

Il 22 Luglio, le artiglierie di Mustafà e Pialì cantano all’unisono sul Borgo. Sessanta cannoni e altri pezzi di piccolo calibro. I Turchi bersagliano soprattutto le abitazioni, volendosi vendicare sui maltesi, rei di non aver tradito di Cavalieri.

Il Gran Maestro, a rischio della vita, continua a percorrere le vie del Borgo senza mostrare preoccupazione, in armatura completa e con picca e scudo. Vacilla solo il 25 Luglio, quando capisce che del Gran Soccorso non c’è traccia. Raduna quindi tutta la popolazione nella piazza del Borgo e tiene l’ennesimo discorso, in cui sostiene che ormai Malta deve contare solo sulle proprie forze e sperare nell’aiuto divino. Si dice pronto a morire per primo e giura di non abbandonare mai il suo popolo.

Alle parole, La Valette fa seguire i fatti. Abbandona infatti la sua residenza nell’Albergo d’Italia e si trasferisce nella bottega di un mercante nella piazza del Borgo. L’effetto psicologico di questa sua azione sulla popolazione è enorme: il Gran Maestro è lì con loro, sotto il tiro dei cannoni turchi. Forse non tutto è perduto.

Il cannoneggiamento delle abitazioni civili lascia anche presumere che Mustafà punti molto sulla guerra di mina. Tuttavia, le controgallerie dei Cavalieri riescono spesso a intercettare e vanificare il lavoro dei Turchi.

Ad ogni modo, Mustafà non abbandona neanche l’idea di ottenere la resa dei Cavalieri. A questo fine sfrutta Orlando Magri e Giorgio Malvasia, due messaggeri del Viceré di Sicilia, catturati al largo di Malta. Orlando Magri riferisce a Mustafà che l’armata cattolica conta già 210 vascelli, ma quest’ultimo lo costringe a dire tutt’altro al Gran Maestro. Lo porta infatti davanti alle mura, dove Magri urla al Balì Felizes che il Viceré ha solo 50 navi malconce e che quindi è meglio arrendersi.

In realtà il Viceré, su ordine di Filippo II, sta effettivamente preparando un contingente di 12.000 uomini, e invia un nuovo messo per avvertire il Cav. Mesquita, che continua a mantenere il controllo delle comunicazioni fra l’isolotto del Gozo e la Notabile. Il messaggio però contiene anche una data, fine Agosto, per l’arrivo del Gran Soccorso. Ancora un mese.

Poco dopo, Mesquita dà al Gran Maestro un notizia ben peggiore: i Turchi tenteranno un altro assalto generale il 2 Agosto.

Un’ora dopo mezzogiorno, tutte le artiglierie turche tornano a tuonare. Si tratta del cannoneggiamento più devastante dell’intero Assedio. Sant’Angelo è bersagliato da un fuoco incrociato proveniente da Gallows Point, dal Salvatore, dal Monte Sciberras e addirittura da Sant’Elmo, dove i Turchi sono riusciti a piazzare, fra i detriti, altra artiglieria. Verso la Senglea invece, Mustafà è talmente convinto di uscire vittorioso da ordinare ai cannonieri di sparare alto sopra le mura o senza palla. Fare frastuono, insomma, senza rovinare le fortificazioni, che immagina di poter utilizzare a proprio favore negli anni successivi.

Le linee di tiro dell’artiglieria turca su Sant’Angelo

Migliaia di Turchi si gettano sui parapetti. Inizialmente hanno la meglio, e lo stendardo della mezzaluna appare in diverse sezioni dei bastioni. Poi lo scontro all’arma bianca volge a favore dei Cavalieri. Da un lato corazze europee, armi in asta e zweihander, dall’altro sciabole, qualche armatura e molte vesti di seta. Il peso specifico degli Europei alla fine è decisivo e i Turchi finiscono a centinaia nel fossato.

L’ennesimo attacco fallito alla Senglea, mentre il Borgo non ha ancora subito assalti. Intorno a quest’ultimo i Turchi lavorano senza sosta, scavando trincee e postazioni difensive per l’imminente aggressione. Durante la notte del 2 Agosto, i Cavalieri effettuano una sortita del tutto inaspettata. I Turchi fuggono verso le retrovie, abbandonando i loro lavori, alcuni dei quali vengono distrutti.

Ma c’è poco da festeggiare. Un soldato spagnolo ha infatti disertato, unendosi ai Turchi, e ha reso nota la tremenda situazione all’interno delle fortificazioni: fra Cavalieri e mercenari, sono rimaste solo 500 persone in grado di combattere. E le munizioni scarseggiano.

La Valette decide di lasciare solo pochi difensori sul lato marino delle due penisole (dove i Turchi effettuano finte manovre di attacco da giorni) e di concentrarsi sulla difesa nell’entroterra. Per avere a disposizione più armi, fa demolire alcune case e utilizzare i detriti come proiettili da tirare sugli assedianti.

La mattina del 7 Agosto, parte un nuovo cannoneggiamento generale della Senglea. Gli imam intonano canti, promettendo 72 vergini ai martiri, e Mustafà è ben lieto di mandare all’assalto buona parte dei suoi. È un assalto generalizzato, contro tutte le poste della Senglea; i difensori riescono a malapena a coprire tutti i bastioni. I Turchi lanciano oltre i parapetti un  gran numero di fuochi artificiali e ordigni incendiari, sperando di costringere i Cavalieri a ritirarsi. In realtà, sia i Cavalieri che i Maltesi sono molto abili nel maneggiare gli ordigni e rispedirli al mittente prima dell’esplosione. Sugli assedianti precipitano massi e ogni tipo di materiale infiammabile a disposizione dei Cavalieri. Il combattimento diviene molto intenso sulla posta difesa da Robles, ma l’assalto più duro e prolungato impegna la posta di Burmola.

Dopo un’ora, entra in azione Pialì Pascià, che bombarda il Borgo mentre i suoi attaccano la posta di Castiglia. La Valette ha però previsto un attacco in quel punto e l’ha dotata del miglior rifornimento possibile di uomini e munizioni. Colpita duro dal tiro laterale proveniente dalle batterie posizionate sul Salvatore, la posta barcolla, ma regge.

Non ci sono però defezioni o fughe: Maltesi e Cavalieri rimangono alle loro postazioni anche quando vedono che i loro vicini sono straziati o spazzati via da una palla di ferro. Candelissa, il rinnegato che, poche settimane prima, aveva tentato il disastroso sbarco sullo sperone della Senglea (dove avevano perso la vita 800 Giannizzeri), vuole rifarsi agli occhi di Pialì. Getta la scala contro le mura e guida in prima persona il nuovo assalto. Ad attenderlo dietro il parapetto c’è però un archibugio cristiano, che lo centra in fronte; il suo cadavere precipita nel fossato.

I Musulmani cercano di entrare in ogni breccia scavata dall’artiglieria, ma sono respinti ogni volta e subiscono enormi perdite nel tentativo di avere la meglio sulle guarnigioni della Posta d’Alemagna e d’Inghilterra.

A quattro ore dall’inizio dell’assalto, assediati e assedianti sono allo stremo. La Valette è convinto che, a breve, i nemici suoneranno la ritirata, ma si sbaglia. Mustafà e Pialì giungono insieme sotto le poste e ordinano ai loro di continuare. I Turchi hanno mostrato un grande coraggio nel continuare le scalate nonostante abbiano assistito al massacro di migliaia di commilitoni, ma ai due generali non basta.

Il Cav. Robles, che da giorni non si toglie l’armatura completa, osserva con rassegnazione i preparativi dei Turchi. Si gira verso i suoi, forse un centinaio di uomini, e si toglie il crocifisso. Lo alza in aria e gira per le poste esortando Cavalieri e Maltesi a ricevere la palma del martirio. Allora anche i vecchi e i bambini si gettano sulle mura, e in generale tutti i Maltesi sono percorsi da un furore innaturale. L’inerzia psicologica vira in pochi minuti, e ora i Turchi si ritrovano Maltesi armati fino ai denti che li insultano nella loro lingua e li massacrano senza pietà. La Valette, settantunenne, si presenta sulla breccia in armatura completa e guida il contrattacco. Tutti i soldati – mercenari, maltesi e Cavalieri – lo guardano come un’apparizione divina.

Mustafà Pascià aveva 65 anni 
quando iniziò l’Assedio di Malta.

A risolvere la battaglia è anche l’intuizione del Cav. De Lingny, che piomba con la cavalleria sul campo Turco della Marsa, pieno di feriti, e massacra sia loro che il corpo di guardia. Le voci di un attacco al campo raggiungono gli assedianti, che cercano di tornare indietro sotto le cannonate e gli scherni provenienti dalle mura. Gli ottomani si ammassano gli uni sugli altri e le chiacchiere circolano senza freni; a un certo punto, lo stesso Mustafà si convince che sia arrivato il Gran Soccorso!

Degli aiuti siciliani non c’è però traccia, e l’8 Agosto le postazioni di artiglieria ottomane ritornano all’opera. La Valette è addirittura costretto a non far entrare in porto due galee dell’Ordine che sono in attesa del momento propizio per forzare il blocco. Da Sant’Angelo segnala loro di tornare in Sicilia. L’unico a sbarcare, di soppiatto, è il Capitano Andrea Salazar, incaricato dal Viceré di raccogliere (grazie all’aiuto di Mesquita e della Notabile) tutte le informazioni necessarie all’attacco e alle modalità per portarlo a termine con successo.

Il 10 Agosto, Pialì Pascià lascia le operazioni nei dintorni di Borgo e Senglea e si porta con 5.000 uomini in vista della Notabile. Visti gli enormi danni fatti dalla cavalleria della città (che rappresentava anche il centro direzionale dell’intelligenza di Malta), molti pensano che Pialì voglia assediarla. Tuttavia, egli si limita a tagliare le vie di rientro ai cavalieri cristiani, che si frammentano in decine di bande per sfuggire ai blocchi con maggiore facilità. Negli scontri perdono la vita diversi uomini ma, cosa peggiore, ne cadono prigionieri 11. Una volta giunti davanti a Mustafà, questi ultimi sono costretti a svelare parte della corrispondenza fra la Notabile e il Viceré. Lo stesso giorno, i Cavalieri sono protagonisti di un altro evento sfortunato. Il Cav. Robles, che pochi giorni prima era stato fondamentale a respingere gli assalti turchi, decide di affacciarsi a un parapetto della Senglea per controllare in prima persona l’opera di un gruppo di ingegneri ottomani sotto una posta della Senglea. Fra i Giannizzeri ci sono però dei cecchini davvero straordinari, e uno di loro gli piazza una palla in mezzo alla fronte.

Nei giorni successivi, il morale dei difensori scende. Le batterie turche martellano notte e giorno, uccidendo molti armati e civili, e proprio questi ultimi pensano che sarà difficile sfuggire a un futuro di schiavitù. Il 14 Agosto si verifica un buon presagio, ossia una colomba si posa e indugia sull’immagine della Madonna di Filermo. Il Gran Maestro, ormai disposto a far leva su qualsiasi cosa pur di restituire vigore ai suoi, dice che il Gran Soccorso è in arrivo, e di aver ricevuto numerose missive al riguardo. Ordina addirittura dei modesti festeggiamenti per dare forza alla sua bugia.

È difficile però distogliere l’attenzione dalle palle di ferro che, fra 13 e 16 Agosto, piovono su Borgo e Senglea con particolare vigore. Il risultato è che le brecce diventano talmente larghe da destare paure sempre maggiori fra i Cavalieri.

Mustafà e Pialì, d’altro canto, non gioiscono. In tre mesi di sforzi sono riusciti a prendere solo Sant’Elmo e il prezzo pagato, in termini di uomini e materiali, è stato altissimo. Si sono addirittura arrischiati a chiedere rinforzi a Solimano, cosa che il Sultano non ha preso bene.

Nel tentativo di intimorire ulteriormente i Cavalieri, i generali turchi tentano anche uno stratagemma teatrale; fingono infatti l’arrivo di 30 galere, scelte fra quelle all’ancora a Malta o in pattugliamento, con tanto di sbarco di Giannizzeri (in realtà sono manovali e semplici soldati truccati e agghindati per l’occasione) sullo Sceberras.

Il 18 Agosto, alla vigilia del nuovo attacco, il comando delle forze del Borgo è direttamente nelle mani del Gran Maestro, quello della Senglea è affidato al Cav. Coupier, che prende il posto del defunto Robles.

La posta di Castiglia, nel Borgo, sostiene l’aggressione più dura. Nel momento di massimo sforzo, il Gran Maestro lascia la postazione di osservazione e, per l’ennesima volta, si presenta sulle mura, dove trova una situazione disperata. Poco dopo il suo arrivo, cade trafitto il Cav. Burlò, mentre gli altri Cavalieri, alcuni di loro molto anziani, si stringono in difesa del Gran Maestro e cercano di tirarlo fuori dalla mischia. Il Cav. Mendoza, anch’egli oltre i settanta, si inginocchia addirittura davanti a La Valette e pronuncia queste parole:

Maestro, finito voi, finiti tutti! Deh, riducetevene al chiuso!

I difensori respingono diversi assalti, fra cui uno in piena notte. Fra questo e il primo assalto del 19 Agosto, i Turchi danno ai Cavalieri solo un’ora di riposo. Tornato alla posta di Castiglia, La Valette viene ferito alla gamba da una scheggia di pietra, ma rimane sul posto. Dopo quasi 48 ore di assalti continuati, i Turchi si ritirano la sera del 19, lasciando sotto le mura un quantitativo enorme di cadaveri.

La mattina del 20 Agosto però, riprendono l’assalto. La loro costanza e perseveranza suscita l’ammirazione anche dei cronisti dell’epoca. Per tutta la giornata e per quella successiva, i difensori continuano a resistere. Il Bosio, nella sua cronaca, scrive:

Et era cosa maravigliosa il vedere, che fin le donne, et i fanciulli havessero perduto e lasciato affatto ogni timore dell’archibusate, delle cannonate, e dei fuoci artificiati, e che non mostrassero avere horrore, o abigottimento alcuno, di veder cadersi a lato e vicino tanti morti, smembrati, e stranamente feriti. Anzi ch’arditamente se non mostrassero in continuo essercitio di lavorar intorno a’ripari, o di tirar sassate contra nemici, o di ritirar morti, e d’ajutar feriti, o di portar rinfrescamenti a combattenti; intrepidamente accostandosi a’parapetti, ancorche danno, ferite e morte ne ricevessero.

I maltesi arrivano a urlare ai Turchi di provare altri assalti, così da aumentare il numero dei loro morti, che già si aggira fra i 18.000 e i 20.000.

La Valette non rinuncia alla corrispondenza con il Vicerè, che deve anche fronteggiare le maldicenze su di lui. Filippo II infatti gli ordina di raggiungere Malta a costo di perdere l’intera armata. Don Garcia vuole invece una vittoria schiacciante e continua a radunare forze. Se anche Malta dovesse cadere, immagina di poter scacciare i pochi turchi rimasti e impossessarsene. Ma ormai Siracusa è piena di uomini d’arme, e rimandare diventa quasi impossibile. Il 25 Agosto, a tre mesi dall’inizio dell’Assedio, partono dalla Sicilia 58 galee cristiane.

A bordo ci sono:

  • 250 Cavalieri di Malta e 100 uomini al loro seguito;
  • 40 Cavalieri di Santo Stefano;
  • 104 uomini condotti dai fratelli Pompeo e Prospero Colonna;
  • 100 da Ascanio della Corgna;
  • 80 da Cesare e Giovanni D’Avalos;
  • 47 dal Conte De Cefuentes;
  • 36 dal Marchese Pallavicino;
  • 36 da Enea Pio;
  • 31 da Paolo Sforza;
  • 28 da Don Bernardo de Cardenas;
  • 21 da Chiappin Vitelli;
  • 20 da Alessandro Pallavicino

Contando anche gli avventurieri in proprio di ogni nazione, il conto totale arriva a 1.800. A questi si aggiungono 5.000 soldati di Lombardia, Napoli e Corsica, e 1.700 italiani scelti dal Colonnello Vincenzo Vitelli.

Nel frattempo, i Turchi sono sempre più furiosi. Ormai limitano al minimo l’uso dell’artiglieria e lavorano “con pala e zappa” sotto le poste del Borgo. Mustafà giunge alla follia di costruire una torre d’assedio in legno, di quelle utilizzate prima dell’avvento della polvere da sparo, per fare fuoco con gli archibugieri sui difensori di San Michele. L’insolita costruzione all’inizio desta meraviglia, ma i Cavalieri la distruggono senza troppi problemi con cerchi e pignatte incendiarie.

Tuttavia, la posta di Castiglia (Borgo) torna a essere battuta dall’artiglieria e le posizioni turche arrivano così vicini alle mura da renderne quasi impossibile la difesa. La maggior parte dei Cavalieri propone di evacuare tutti i superstiti del Borgo all’interno di Sant’Angelo, che è ancora intero, ma il Gran Maestro non vuole nemmeno considerare questa opzione. Gli chiedono quindi di rinchiudersi almeno lui nel forte, assieme ai libri dell’Ordine. A questo punto, La Valette va su tutte le furie:

Che non mi si parli più di ritirate! Io combatterò primiero alla posta di Castiglia, morirò ivi, sarò ivi sepolto!

Prende poi quasi tutti gli uomini disponibili e si dirige alla posta di Castiglia, ordinando di bruciarne il ponte. I nemici ora occupano il piccolo sprone della posta: bisogna riprenderlo.

Guastatori, minatori e operai turchi ebbero 
un ruolo fondamentale durante l’Assedio.

La Valette incarica dell’impresa il Cav. Clairmont, che il 26 Agosto opta per una sortita notturna. Il trambusto e le urla del contingente cristiano sono talmente forti che i Turchi pensano di essere assaliti dall’intera popolazione del Borgo, quindi battono in ritirata abbandonando armi e opere di difesa. I Cavalieri le convertono subito in materiale da adoperare contro il nemico e fortificano lo sperone talmente bene che i Turchi non riusciranno più a riprenderlo. Nell’azione di distinguono in particolare due maltesi, Agostino Tabone e Giacomo Bonnici.

Ancora più scoraggiati, il 28 Agosto i Turchi sparano sul Borgo, ma non tentano assalti. Ne approfittano i Cavalieri, che effettuano una fruttuosa sortita fuori dalla Senglea. Tutti i lavori dei turchi vengono distrutti, e gli incursori sottraggono anche un enorme quantitativo di pale, zappe e altri attrezzi.

In completo delirio mistico, il 29 Agosto Fra Roberto, considerato quasi come un santo dalla popolazione maltese, confida al Gran Maestro di aver avuto una visione: entro pochi giorni, la benevolenza divina avrebbe concesso una gloriosa vittoria agli assediati, liberandoli definitivamente dall’assedio.

Di certo la suddetta benevolenza non sembra essere dalla parte dei difensori la mattina seguente, quando Mustafà si presenta sotto le brecce del Borgo con 6.000 uomini, la metà dei quali posizionati sotto la posta di Castiglia, dove ci sono probabilmente meno di 200 difensori. In realtà, si tratta di un diversivo. I Turchi infatti vogliono solo tenere occupati i difensori del Borgo mentre un altro contingente prova l’attacco alla Senglea, i cui bastioni erano ridotti a un colabrodo. Una delle brecce è talmente ampia che le due parti si fronteggiano solo da una grande tavola di legno messa di traverso sulla breccia. Le donne e i fanciulli sono ai lati, tirando pietre e qualsiasi cosa capiti loro in mano.

Mustafà arriva giusto in tempo per ricevere una pietra in faccia e ritirarsi, ma lo scontro va avanti per due ore.

Il tempo di riorganizzarsi, e i Turchi riprendono a spingere sulla breccia. Mustafà utilizza anche moltissimi arcieri per creare un vero e proprio “fuoco di copertura” all’avanzata dei suoi, ma niente, al tramonto deve ritirarsi come ogni sera dei precedenti tre mesi.

La mattina del 31 Agosto, Mustafà capisce di dover fare i conti con il malcontento quasi ingestibile dei suoi. Per alzare il morale della truppa, ordina a 4.000 soldati di seguirlo alla Notabile, promettendogli il saccheggio della città. Mesquita però fa trovare tutti i Cavalieri e buona parte dei cittadini (vestiti e armati a guisa di Cavalieri) sugli spalti. Mustafà temporeggia, anche perché non ha portato artiglieria pesante, e poi desiste. È decisivo, in questo caso, lo stratagemma di Mesquita, che fa sparare i cannoni anche se i Turchi sono fuori tiro. Questi ultimi infatti pensano che la Notabile sia talmente ben equipaggiata da potersi permettere di sprecare colpi, e si ritirano definitivamente. Mesquita, ovviamente, aspetta che il grosso della forza nemica si sia messa in moto e poi sguinzaglia la cavalleria, che raggiunge la retroguardia e uccide una trentina di Turchi.

Nel frattempo, la guerra di mina, ossia lo scontro che si svolge sottoterra fra gallerie turche (il cui fine è far brillare barili di esplosivo sotto le mura) e maltesi, volge a favore di questi ultimi. Fra i difensori, si distingue in particolare “Maestro Giovanni, inglese bombardiero”.

Fallita la sortita sulla Notabile, Mustafà decide di far costruire un’altra torre d’assedio, questa volta molto più alta e resistente. La torre supera di alcuni metri i parapetti, e decine di difensori cadono sotto i colpi degli archibugi ottomani. Le pignatte infuocate questa volta non hanno effetto. Andare sui parapetti diventa impossibile: la situazione precipita velocemente.

Ancora una volta, La Valette si affida ai suoi ingegneri. La soluzione viene proposta dal maltese Andrea Cassar, fratello di Girolamo. Ed è una soluzione rischiosa, già sperimentata con il ponte di legno gettato dai Turchi qualche settimana prima: aprire un buco nei bastioni e portarci un pezzo di artiglieria, in modo da avere una linea di tiro diretta sulla Torre. I lavori sono frenetici; i Cavalieri sanno di avere una sola possibilità prima di ricevere un massiccio fuoco nemico. Al tramonto, con il pezzo in posizione, è proprio Andrea Cassar a consigliare di aggiungere alla palla pezzi di catene e ferraglia. La torre è li davanti, e la mattina dopo servirà come testa di ponte per un assalto cui nessuno potrà opporsi.

Oltre ad aver ideato la contromossa, Cassar si prende anche la responsabilità di accendere la miccia.

Il cannone fa fuoco. La palla colpisce la torre a mezza altezza, mentre le catene e i pezzi di ferro tranciano legno e carne. È un vero massacro, la torre crolla con tutti gli occupanti. Maltesi e Cavalieri tornano sui parapetti urlando come ossessi.

Il 4 Settembre, arriva il Gran Soccorso. Ma il Vicerè non fa sbarcare le truppe e sembra allontanarsi da Malta. Mustafà e Pialì sguinzagliano uomini e flotta per capire se qualcuno sia effettivamente sbarcato, e dopo due giorni di ricerche per terra e mare capiscono di no.

Mustafà, nella disperazione più completa, decide di tentare un ultimo assalto a tutte le poste. Si dice che volesse a tutti i costi morire lì, guidando l’assedio, per non presentarsi davanti a Solimano a mani vuote e con 20.000 morti. In realtà, la situazione dell’esercito ottomano non è delle migliori, visto che iniziano a mancare anche la polvere per gli archibugi e le armi. I suoi ufficiali cercano quindi di farlo desistere, ma lui li alletta con promesse di saccheggio e vendetta, rianimando anche il bey di Algeri, che si offre di guidare l’assalto.

Il 7 Settembre però, mentre i Turchi si preparano sotto le mura, il Gran Soccorso, 8.300 uomini, sbarca a Melleha e si mette in marcia verso la Notabile.

Quando la notizia arriva nei pressi della Senglea, sui soldati turchi cala un silenzio di tomba.

IV/ L’Assedio di Malta del 1565: la Fine e le Conseguenze

A quasi quattro mesi dall’arrivo dell’esercito Turco, Malta ancora resiste. Mustafà ha seppellito (il più delle volte lasciato marcire nei fossati) più di 20.000 soldati, oltre al miglior comandante navale dell’Impero, Dragut, e a centinaia di ufficiali. Le fortificazioni di Borgo e Senglea, in alcuni punti, sono state spianate da 130.000 palle di cannone, ma i due-trecento uomini in arme, Cavalieri e Maltesi, che ancora combattono, non mollano un solo centimetro.

Quella mattina però cambia tutto. Non solo il Gran Soccorso, 8.300 soldati cristiani, è arrivato a Malta, ma ha già raggiunto la Notabile senza incontrare resistenza.

I Turchi ne hanno notizia prima dei difensori. Dopo un momento di smarrimento, si ritirano. La rabbia di Mustafà è tale che ordina di continuare il cannoneggiamento della Senglea per alcune ore. Ai Cavalieri però non interessa, men che meno ai Maltesi.

Le campane suonano a festa, il Gran Maestro fa un bagno di folla nella piazza di Borgo e ringrazia il Signore. Non si sparano colpi di festa, perché la polvere da sparo è finita, ma quella sera i fuochi d’artificio arrivano dalla Notabile, letteralmente gremita si soldati e rifornimenti.

Mustafà invece vuole solo andarsene da quell’inferno. I suoi uomini lavorano notte e giorno per smontare i campi e trasportare tutto l’equipaggiamento alle navi, attraccate al Corradino, al Salvatore e al Marsamuscetto. Le operazioni sono talmente sbrigative, che un grande basilisco finisce in acqua mentre si cerca di caricarlo sulla nave e un altro viene abbandonato vicino al bastione di Burmola: ha una ruota rotta e nessuno ha intenzione di trascinarlo verso l’imbarco.

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L’Impero ottomano alla massima espansione, 
la freccia indica la posizione di Malta.

Il 10 Settembre, con il Soccorso ancora alla Notabile a causa di dissensi interni sulle modalità d’azione, Mustafà, con una mossa dettata dalla stizza piuttosto che dall’acume militare, vuole mettere a ferro e fuoco l’entroterra maltese. Punta la Notabile con 16.000 uomini, mentre Pialì Pasha muove la flotta verso il porto di San Paolo. I soldati del Soccorso escono dalle mura e incalzano Mustafà, che ha ancora un numero di uomini sufficiente ad avere buone probabilità di vittoria in una battaglia campale.

Ma il morale dei Turchi è bassissimo e vanno in rotta alla prima carica cristiana. La cavalleria ottomana fugge scomposta verso la spiaggia di San Paolo, lasciandosi dietro tutta la fanteria, che deve aprirsi la strada fino al mare. Gli unici a mantenere la formazione sono i Giannizzeri che scortano Mustafà.

Prendendo forse la miglior decisione dell’intera Campagna, Mustafà arriva fino alla retroguardia e la riorganizza, evitando un massacro completo dei suoi. Combatte anche lui in prima linea, tanto che per due volte i Cavalieri uccidono il suo cavallo. Solo grazie al sacrificio di alcuni Giannizzeri evita la cattura.

I Cavalieri continuano a pressare la retroguardia, alcuni cercano di raggiungere la cavalleria nemica, mentre il resto della fanteria cristiana è qualche chilometro più indietro. In armatura completa e sotto il sole a picco, ben quattro Cavalieri muoiono d’infarto.

Per guadagnare ai suoi il tempo necessario per l’imbarco, Mustafà piazza diversi archibugieri sulle rocce a ridosso della spiaggia; Hassem, il figlio di Dragut, fa lo stesso.

Quando però arriva anche la fanteria cristiana, la battaglia continua fin dentro l’acqua, con gli archibugieri che si scambiano colpi fra spiaggia e imbarcazioni. Centinaia di musulmani muoiono tentando di salire sulle imbarcazioni. Mustafà sale sull’ultima disponibile.

Giunto a conoscenza dell’esito dello scontro, il Gran Maestro scrive al Papa che l’assedio è terminato. Le lodi sono tutte per i Cavalieri e per i Maltesi, mentre manca qualsiasi menzione al Vicerè di Sicilia.

Il Gran Maestro La Valette, che a 27 anni aveva combattuto durante l’Assedio di Rodi del 1522, aveva giurato di non cedere Malta.

E alla fine mantiene la parola.

All’alba del 13 Settembre, l’intera flotta Turca, con a bordo un esercito decimato, si allontana da Malta. Mustafà osserva l’isola, incredulo di essere stato costretto alla ritirata dopo quattro mesi. Sia lui che Pialì non hanno idea di come affrontare Solimano, poco abituato a vedere i propri generali tornare in patria con la coda fra le gambe.

A Malta la situazione è drammatica. Le porte di Borgo e Senglea si aprono per la prima volta da Maggio (eccezion fatta per le sortite operate durante l’Assedio) e la popolazione trova la forza di esultare e festeggiare. La Valette limita al minimo il proprio entusiasmo e, da capace gestore della cosa pubblica, chiede un immediato elenco completo dei caduti e delle distruzioni sofferte da Malta.

Fra i combattenti (Cavalieri, mercenari e Maltesi) ci sono 3.000 morti a fronte dei 20.000 Turchi. A questi si aggiungono, purtroppo, 6.000 civili, quasi tutti bambini, donne e anziani.

Il 15 Settembre, con la flotta turca sulla via di Costantinopoli, il Viceré arriva a Malta con 48 galere. Le parole scelte dal Vassallo sono, in questo caso, di puro sarcasmo:

Nell’accoglienza di Don Garcia, il Gran Maestro si attiene al protocollo: grande sontuosità ma nessuna cordialità. Dopo le processioni e i canti, la messa del solito Fra Roberto porta alle lacrime tutti coloro che l’ascoltano.

Dopo un’ispezione delle mura e dei danni provocati dall’assedio, Don Garcia si complimenta ancora con il Gran Maestro, e la sera stessa tira l’ancora a bordo e parte per il Mediterraneo orientale alla ricerca di gloria. A dire il vero ne trova, però, molto poca, tanto che il 15 Ottobre è già nel porto di Messina.

Il 6 Novembre la Flotta Turca arriva a Gallipoli. Alla notizia della situazione in cui versano esercito e flotta, sbotta furioso che l’anno successivo avrebbe egli stesso comandato la spedizione per distruggere i Cavalieri di Malta:

La mia spada vale, ma solo quando è brandita da me.

Quando la flotta raggiunge Costantinopoli, Solimano ordina che entri in porto a notte fonda, onde evitare che la popolazione veda come è ridotta.

La notizia della vittoria cristiana viene celebrata a Roma il 23 Settembre. Grandi processioni avvengono sia a Santa Maria Maggiore che a San Giovanni. Poche settimane dopo, il Pontefice si congratula con il Gran Maestro con una missiva:

Era naturale che noi provassimo tant’angoscia, e che un assedio così lungo, ed un’aspugnazione così pertinace, l’animo ci tenesse giorno e notte fortemente sollecito al considerare in quanto pericolo si trovasse la salute del popolo cristiano, unitamente coll’Ordine vostro, coll’Italia, colla Sicilia, e le altre isole di questo mare […] Riparate alle rovine il più presto possibile; noi non mancheremo di aiutarvi, né di esortare i principi cristiani a fare lo stesso.”

I ringraziamenti arrivano anche da Filippo di Spagna, che invia al Gran Maestro una spada con a guardia d’oro e diamanti e gli conferisce il titolo di “Grande Eroe del Secolo“.

Anche la protestante Elisabetta d’Inghilterra, che durante l’Assedio aveva detto “Se i Turchi prenderanno Malta, non sappiamo quale altro pericolo potrebbe arrivare al resto della Cristianità“, alla notizia della vittoria de La Valette ordina all’Arcivescovo di Canterbury di officiare messe di ringraziamento tre volte a settimana per sei settimane.

In realtà, passata l’euforia per la vittoria, La Valette già riceve dalle sue spie la notizia che Solimano ha intenzione di guidare un nuovo assedio nel 1566.  A questo punto, mostra (ancora una volta, casomai ce ne fosse bisogno) tutte le sue capacità diplomatiche e di accentratore di interessi. Finge infatti, con tutti i sovrani d’Europa, di voler abbandonare Malta, semidistrutta e spopolata, per ritirarsi in un convento Siciliano. Aggiunge poi che potrebbe cambiare idea se Malta fosse dotata di 15.000 soldati in pianta stabile e se gli avessero dato parte della somma necessaria a costruire una grande città fortificata sul monte Sceberras, prima di Sant’Elmo.

A spingere La Valette non è l’avidità, ma la certezza che Solimano sta già organizzando i preparativi per l’attacco del 1566. A Malta, addirittura, molte famiglie ricche chiedono al Gran Maestro un salvacondotto per abbandonare l’isola, ed egli quasi sempre lo concede, facendo attenzione a rendere il meno pubblica possibile la cosa.

Il successore di Pio IV (morto il 9 Dicembre 1565) è Pio V, che appoggia completamente i Cavalieri. Assicura al Gran Maestro tutto l’aiuto economico possibile, dopo che Pio IV già gli aveva mandato l’ingegnere fiorentino Francesco Laparelli. Il 28 Dicembre sbarcano sull’isola il Cav. Fortuin (con 5.000 scudi presi in prestito a Palermo e l’ingegner Laparelli.

Il 3 Gennaio 1566 il primo progetto della città è davanti a La Valette, che lo apprezza, mentre gli ingegneri dell’Assedio, Menga e soprattutto Girolamo Cassar, la vorrebbero più grande. Ma l’opinione più importante, dopo quella del Gran Maestro, è quella di Filippo II, cui viene inviata sia la piantina che un modellino di cera in scala. Di grandissimo valore storico è la lettera (in realtà un rapporto sui lavori) che Francesco Laparelli consegna al Gran Maestro:

[…] Prima che passi questo resto di Gennaio qui ci vogliono 5.000 guastatori (ossia operai, manovali), e che la metà di essi abbiano strumenti adatti a tagliare monti e rocce, e gli altri per portare i materiali da usare sopra detto monte; a metà Marzo servono 5.000 fanti per presidiare Sant’Elmo e la Notabile. Nel caso in cui non si possano costruire altre fortificazioni, saranno invece necessari 12.000 fanti e 200 cavalli leggeri […] Non dico nulla riguardo ad artiglierie, munizioni e rifornimenti, perché V.S.Illma. sa molto bene quello che occorre in un assedio.

Francesco Laparelli da Cortona

Malta, 13 gennaio 1566

La città si sviluppa attraverso strade dritte, che corrono dalle porte d’ingresso a Sant’Elmo. Alcuni dei bastioni sono alti quasi 50 metri.

Una bella immagine de La Valetta in fase di costruzione (solo le mura). 
Alle sue spalle, il forte di Sant’Elmo ricostruito e rinforzato.

In Spagna, la discussione su come rifornire e rifortificare Malta vede interpellato anche Don Garcia, il cui tardivo soccorso aveva mandato su tutte le furie il Gran Maestro. Il Viceré ritiene sufficiente riparare le fortificazioni esistenti e trincerare il monte Sceberras. A prevalere presso Filippo II è però il partito di La Valette e Pio V. Il Re di Spagna invia a Malta il Priore d’Ungheria, Cav. Serbelloni, grande esperto di fortificazioni, che approva i progetti di Laparelli.

L’impegno di Pio V per rendere Malta inespugnabile è piuttosto intenso, tanto che il Vassallo reputa che se Adriano VI si fosse impegnato altrettanto con Rodi nel 1522, questa e il Gran Maestro Lisleadamo non si sarebbero dovuti arrendere a Solimano. Oltre a concedere finanziamenti in proprio, Pio V intercede con i sovrani europei, facendo capire loro che una Malta in mano cristiana è molto utile sia dal punto di vista politico che commerciale.

Filippo secondo concede 80.000 lire, Carlo IX di Francia 40.000 e Sebastiano di Portogallo, forse il meno interessato, addirittura 30.000 crusados. Anche sul fronte italiano, l’opera dei Pio V e dei Cavalieri della Lingua Italiana portano i loro frutti, visto che Cosimo de Medici concede prestiti vantaggiosi e altri favori.

Nell’Aprile del 1566 mancano solo le milizie. Sono appena arrivati 400 fanti assoldati in Sicilia, ma servono quelli promessi da Filippo II. Quest’ultimo, fra l’altro, palesa al Gran Maestro l’idea di voler riconquistare Algeri, ma il navigato La Valette lo fa desistere, chiedendogli di presidiare innanzitutto Malta e le coste italiane, anche perché c’è ancora incertezza su quale punto della cartina geografica abbia puntato gli occhi Solimano.

La flotta di Pialì Pascià è di nuovo in acqua nella primavera del 1566, funestando le isole in mano a Veneziani e Genovesi, ma i paesi del sud Europa tirano un sospiro di sollievo quando si accorgono che le vere mire di Solimano si dirigono verso Vienna.

Sovrano di tempra e volontà fuori dal comune, Solimano affronta la campagna in prima persona nonostante i 72 anni e una grave forma di gotta, che lo costringe su una carrozzella. La sconfitta di Malta lo ha colpito nell’orgoglio ed egli si rimprovera di non averla condotta personalmente.

Durante il terrificante Assedio di Szigetv, in Ungheria, le condizioni fisiche di Solimano peggiorano, ma decide di rimanere a dirigere le operazioni fino al 6 settembre 1566, quando muore.

In mezzo al Mediterraneo, il suo coetaneo La Valette si guarda intorno soddisfatto. I suoi avversari più pericolosi, Solimano e Dragut, non ci sono più. Malta ha resistito e i nuovi lavori di fortificazione la renderanno inespugnabile (solo Napoleone, con la complicità dei Cavalieri francesi, porrà fine al governo degli Ospitalieri).

Il Gran Maestro non vede però il completamento della città che porta il suo nome, muore infatti nel 1568, colto da un malore, che si aggrava nei giorni successivi, durante una battuta di caccia (una insolazione).

La Valletta nel 1705. Una città inespugnabile 
come richiesto dal suo fondatore.

Sir Oliver Starkey, l’unico Cavaliere inglese durante l’Assedio, scrive l’epitaffio del Gran Maestro, sepolto nella cripta della Cattedrale di San Giovanni a Malta:

Here lies La Valette.
Worthy of eternal honour,
He who was once the scourge of Africa and Asia,
And the shield of Europe,
Whence he expelled the barbarians by his Holy Arms,
Is the first to be buried in this beloved city,
Whose founder he was
.

N.B. de Gli scritti

I cavalieri ed i maltesi ritennero vinta la battaglia alla sera del 7 settembre, vigilia ed inizio della festa liturgica della Natività di Maria. Per questo da allora l’8 settembre è festa nazionale, conosciuta in maltese come il-Vitorja (la vittoria) e il-Bambina (la Vergine Maria). Oggi i maltesi ricordano in quel giorno anche la fine della presenza francese nell’isola in età napoleonica e la fine dei bombardamenti italiani sull’isola l’8 settembre 1943 nel corso della seconda guerra mondiale.

La Vallette, appena terminato il Grande assedio, si recò dinanzi all’icona di Nostra Signora di Damasco (che era stata portata dai Cavalieri appena una trentina di anni prima, quando da Rodi, sconfitti nel 1523, si erano trasferiti a Malta nel 1530), e depose sui gradini dell’altare il proprio cappello e la spada.

Note al testo

[1] Pellegrini M., Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 364-365.

[2] Pellegrini M., Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 365-367.

[3] Pellegrini M., Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 369-370.

[4] Pellegrini M., Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V, Il Mulino, Bologna 2015, p. 370.