Il Progetto culturale e la pastorale della Chiesa in Italia, di mons. Cataldo Naro
Riprendiamo dal web la relazione tenuta da mons. Cataldo Naro – che il Signore ha chiamato a sé nel 2006 - in occasione del primo Incontro nazionale dei Referenti diocesani per il Progetto culturale, tenutosi a Roma il 15-16 maggio 1998. La relazione recava il titolo originario “Progetto culturale e pastorale della Chiesa”.
I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il centro culturale Gli scritti (23/1/2010)
Dalle parole della riflessione introduttiva del card. Camillo Ruini è apparso con tutta evidenza il legame tra il progetto culturale e la pastorale ordinaria e quotidiana della Chiesa italiana, che del resto è affermato variamente ma unanimemente nei documenti della CEI che trattano del progetto. Anche di recente, nel consiglio permanente della CEI dello scorso gennaio, mons. Ennio Antonelli, segretario della CEI, ha messo a tema, in un suo intervento, il legame tra progetto pastorale e pastorale ordinaria. È un tema importante, perché è in fondo sulla capacità del progetto culturale di raccordarsi alla pastorale ordinaria, per ridarle linfa, motivazioni e obiettivi ai fini di un suo effettivo rinnovamento che si gioca, in buona parte, la partita, per così dire, della rispondenza o meno della proposta del progetto culturale alla attuale vicenda storica della Chiesa italiana. E mi pare che una parte di delicata importanza in questo necessario raccordo e incontro tra progetto culturale e pastorale delle nostre Chiese particolari possano e debbano svolgere proprio i referenti diocesani. Il mio compito è di proporvi una breve riflessione in proposito, che raccoglie stimoli e suggerimenti già emersi anche questa mattina e, comunque, abbondantemente presenti nei documenti già pubblicati sul progetto culturale.
1. Il nesso tra progetto culturale e pastorale
Vorrei, innanzitutto, sottolineare come il legame tra progetto culturale e pastorale sia veramente intrinseco, perché deriva sia dalla natura della pastorale che da quella della proposta del progetto culturale.
La pastorale è infatti la «cura» che la Chiesa mette in atto per l’accoglienza della fede e poi per la sua crescita e maturazione; una maturazione che non può non comprendere la tensione missionaria a comunicare, con semplicità e delicatezza, la propria esperienza di fede nell’ambito e nella rete delle proprie relazioni personali e anche a influire, con discrezione rispettosa ma anche senza alcun senso di subalternità, nei diversi ambienti sociali e nella cultura che in essi si esprime e si elabora.
Contrapporre evangelizzazione delle persone ed evangelizzazione della cultura è piuttosto artificioso. L’evangelizzazione si rivolge alle persone ma le persone vivono in un ambiente e respirano una cultura e contribuiscono, a loro volta, a generarla e plasmarla. Rientra, dunque, nella dinamica intrinseca della pastorale, che pure si indirizza primariamente alle persone, alimentare e sostenere la consapevolezza e la capacità delle comunità ecclesiali a essere attivamente protagoniste dei processi culturali, specialmente in un tempo, quale il nostro, contrassegnato da forti spinte a una marcata «privatizzazione» della fede e, al fondo, a una sua perdita di vero significato esistenziale e di fecondità storica.
Da parte sua, il progetto culturale vuole essere la proposta di un cammino attraverso cui le comunità ecclesiali siano in grado di consapevolmente operare per una mediazione nuova della concezione cristiana dell’uomo con le situazioni del nostro tempo. È una proposta, come appare evidente, di grande portata. E anche coraggiosa. L’avere posto all’ordine del giorno della Chiesa italiana la questione della cultura, cioè della fecondità del cristianesimo rispetto alla cultura del nostro tempo, in analogia e anzi, più propriamente, in continuità con altre e decisive precedenti fasi della storia del cristianesimo, è stato un passo che può sembrare temerario e anche un po’ controcorrente, almeno in relazione a certe concezioni piuttosto riduttive della fede a una sfera intima e strettamente personale, ma che d’altra parte appare urgente e indispensabile, quasi imposto dalle cose, forse anche deciso un po’ in ritardo, come pure è stato detto. E, comunque, è indubbiamente una proposta impegnativa che può realizzarsi solo attraverso un cammino, un processo, un coinvolgimento di tutte le diverse componenti della comunità ecclesiale.
Il suo stile più proprio è quello del «discernimento comunitario» quale espressione della comunione ecclesiale e metodo di lettura della storia. L’hanno ripetutamente sottolineato i documenti della CEI sul progetto culturale, in particolare la Proposta di lavoro del gennaio dell’anno scorso. Un tale progetto culturale, inteso come processo dinamico mirante al confronto creativo della comunità ecclesiale con le forme della cultura del nostro tempo, non può non avere uno stretto nesso con le forme ordinarie della cura pastorale.
È vero che il progetto culturale fa appello non secondariamente a un impegno nuovo e maggiormente produttivo di ricerca e di studio dei credenti nei diversi campi specialistici di elaborazione della cultura, in cui gli uomini di pensiero, gli artisti, gli scienziati, gli operatori della comunicazione sociale di professione e di vita cristiana hanno da mostrare la fecondità della loro ispirazione cristiana in un dialogo aperto e costruttivo con le altre componenti culturali del paese. Ma il progetto culturale non può non rapportarsi anche alle forme, ai metodi e allo stile della pastorale, affinché essa, anche nelle sue forme più comuni e quotidiane, maturi ed esprima un’attenzione nuova alle condizioni culturali e sociali del nostro tempo, nelle quali la fede ha da essere vissuta e testimoniata.
2. Necessità di una conversione pastorale
Del resto l’esigenza di un rinnovamento della pastorale è a tutti evidente. Nella nota pastorale della CEI dopo il convegno di Palermo (Con il dono della carità dentro la storia) si dice con tutta chiarezza che si impone una «conversione pastorale» che significa, concretamente, la «conversione» o rinnovamento delle sue forme vigenti. E lo stesso documento individua la linea di una tale conversione nell’assunzione di responsabilità della pastorale verso «il compito di plasmare una mentalità cristiana», che una volta era affidato alla tradizione familiare e sociale e ora è in gran parte da reinventare a opera di una comunità ecclesiale che viva la sua dimensione comunitaria e riscopra la sua vocazione missionaria in rapporto alla società circostante.
In questa richiesta o esigenza di una «conversione» pastorale e della pastorale mi pare si esprima una valutazione forse non negativa ma che, comunque, registra un limite delle forme dell’attuale pastorale delle Chiese d’Italia, talvolta segnate da un impianto di fondo indirizzato alla cura delle devozioni, che fu indubbiamente la forza e l’originalità della pastorale in età moderna – Seicento-Settecento – e ancora nell’Ottocento e in parte nel Novecento e ha contribuito a creare saldi e resistentissimi vincoli d’appartenenza ecclesiale. La dimensione popolare del cattolicesimo italiano deriva in buona parte da questa tradizione pastorale di cura delle devozioni. Il cristianesimo popolare italiano è storicamente un derivato, spiritualmente e organizzativamente, del cattolicesimo della riforma tridentina (con l’importanza data alle devozioni) e del cattolicesimo dell’opposizione allo Stato liberale dell’Ottocento (con l’importanza data al momento organizzativo «sociale»).
Come mostrano le più recenti indagini sociologiche, c’è tra gli italiani un larghissimo senso d’appartenenza alla Chiesa cattolica che vive momenti di espressione collettiva particolarmente in occasione delle festività natalizie e pasquali: in tali occasioni è il «cattolicesimo dei devoti» che emerge con forza, perché è tale cattolicesimo quello storicamente più radicato e anche quello variamente coltivato, con più continuato impegno, dalla cura pastorale ordinaria. La sfida che si pone alla pastorale italiana è quella di far evolvere questo diffuso senso d’appartenenza, mediato prevalentemente dalle devozioni, verso un cattolicesimo maggiormente radicato nell’ascolto della Parola e nella partecipazione liturgica e più capace di testimonianza cristiana e di fermento evangelico nella società. E tutto ciò salvaguardando il volto popolare del cattolicesimo italiano, cioè non riducendolo a un cristianesimo d’élite.
Dice espressamente la nota pastorale dopo il convegno di Palermo, che ho prima citato, che «non ci si può (oggi) limitare alle celebrazioni rituali e devozionali e all’ordinaria amministrazione: bisogna passare a una pastorale di missione permanente», una pastorale che cioè prenda sul serio le sfide che vengono all’evangelizzazione e allo stesso radicamento della Chiesa nella società italiana dalla situazione attuale – culturale, sociale, economica e politica – del nostro paese e anche dell’intero Occidente; sfide molto radicali che riguardano la fedeltà o l’allontanamento dalle radici cristiane che hanno costruito la nostra civiltà e che, comunque, comportano il rischio di quel conformismo culturale cui accennava il card. Camillo Ruini nella sua introduzione come a una delle maggiori insidie di questi anni per i cristiani del nostro paese.
Quando si lamenta la scarsa incidenza dei cattolici sul terreno culturale, mentre si rileva la consistenza della testimonianza cristiana sul terreno della carità e della solidarietà, non solo si solleva un problema reale, che è stato colto pure da osservatori «laici», ma anche si evidenzia un limite del cattolicesimo italiano che deriva certo dai processi storici, che in qualche modo ci superano e comunque ci condizionano, ma anche dalle concrete scelte ecclesiali e dalle forme attualmente coltivate, non esclusivamente ma forse con prevalenza di intenti e di impegno, dalla cura pastorale. E, prima ancora, si evidenzia un deficit di consapevolezza diffusa e di fronte all’importanza e alla radicalità delle sfide con cui deve confrontarsi l’azione pastorale delle Chiese italiane.
3. “Novità” del progetto culturale e pastorale ordinaria
L’ambizione più grande e più propria del progetto culturale è quella di suscitare una tale consapevolezza, che a sua volta diventi stimolo per il rinnovamento della pastorale, nelle sue forme più ordinarie e quotidiane, e non per parole d’ordine e suggestioni dall’alto ma per diffuso convincimento e perciò efficace corresponsabilità dal basso, cioè delle varie componenti delle Chiese diocesane.
Ciò significa che il progetto culturale si configura come una proposta alla Chiesa italiana (gradualmente maturata al suo stesso interno, particolarmente negli anni del dopoconcilio ma con significativi precorrimenti e profetiche anticipazioni precedenti il Concilio in alcune singole personalità ecclesiali) nella linea di quell’esigenza di conversione pastorale di cui parla la nota della CEI dopo il convegno di Palermo. E per far ciò il progetto culturale evidenzia le dimensioni di novità del compito complessivo che la pastorale ha oggi da esercitare. In altri termini la novità che è propria del progetto culturale – cioè la consapevolezza che oggi per vivere la fede e trasmetterla è necessario portare attenzione alla cultura e ai processi culturali prevalenti nella nostra società – viene proposta come novità che potrebbe segnare e rinnovare la pastorale tutta.
Segnalo rapidamente tre principali linee attraverso cui la novità propria del progetto culturale (o meglio: evidenziata e proposta dal progetto culturale) può e anzi dovrebbe interessare la pastorale tutta:
1. la riscoperta della dimensione missionaria nell’esperienza di fede personale e nella vita ecclesiale. Ho citato prima l’affermazione di un documento della CEI secondo cui bisogna passare a una pastorale di missione permanente. È una conseguenza dell’assunzione radicale di responsabilità cristiana di fronte agli enormi spazi di non credenza, di povertà spirituale e morale, di richiesta di senso, di domanda diffusa ma vaga di religiosità che si aprono davanti a noi nel nostro tempo e nel nostro paese. Ma è, primariamente e più radicalmente, la conseguenza della fede in Cristo Figlio di Dio e nostro unico Salvatore. Il senso della missione cristiana deriva da questa fede e si alimenta nella certezza del sostegno dello Spirito del Cristo che vive nel cuore dei credenti e guida e accompagna il cammino storico della Chiesa. Senza dire, a questo proposito, che, come dimostra la storia della Chiesa, la progettualità pastorale, che risponde a una valutazione razionale del momento storico, ha bisogno di trovare, per così dire, la sponda della creatività spirituale, cioè donata dallo Spirito del Risorto, pena il suo inaridimento e comunque la sua stessa irrilevanza storica. In altre parole ogni grande progettualità pastorale sembra invocare una grande stagione di santità esemplare, una nuova schiera di personalità spirituali emergenti;
2. l’acquisizione di una più forte valenza educativa della prassi pastorale anche nelle sue forme più quotidiane. La sfida pastorale, di cui dicevo prima, di far evolvere il cattolicesimo popolare italiano di impianto devozionale verso un cattolicesimo di ascolto della Parola di Dio e capace di testimonianza coerente e significativa, passa attraverso una diffusa scelta formativa, un’importanza nuova assegnata a momenti, occasioni, luoghi e processi formativi necessariamente differenziati secondo i contesti e le persone e tutti unitariamente tesi alla maturazione personale della fede;
3. la promozione di un coinvolgimento sempre più pieno e sempre più ampio di tutte le componenti del popolo di Dio nella missione ecclesiale, in particolare i laici e compresi tanti credenti che, pur desiderosi di spendersi in qualche modo per il Vangelo, sembrano oggi vivere ai margini della Chiesa. Come già detto, il progetto culturale mira a un tale coinvolgimento, anche perché è evidente che l’incontro della fede con la cultura del nostro tempo non può essere opera di poche persone o di singoli gruppi a motivo della radicalità e complessità delle sfide oggi portate all’annuncio cristiano. Ma questo stesso coinvolgimento si richiede alla pastorale nelle sue forme più varie e ordinarie, anche per una efficace testimonianza della comunione ecclesiale e anche per alimentarla e in qualche modo renderla vera e visibile.
4. Iniziative specifiche del progetto culturale
Vorrei concludere con una osservazione sulla distinzione tra progetto pastorale e pastorale ordinaria. È una distinzione che conviene evidenziare. Nel senso che quanto detto sul loro nesso intrinseco non conduce a un assorbimento reciproco. Voglio dire che la proposta del progetto culturale potrà essere di stimolo e di contributo al rinnovamento della pastorale se riesce a calarsi nella vita delle Chiese locali anche con iniziative specifiche, da avviare e sperimentare creativamente a opera di soggetti particolari, specialmente laicali, come opportunamente sottolineato da don Gianni Ambrosio. Iniziative che si misurino con il compito di lettura e valutazione cristiana della cultura del nostro tempo in un dialogo che sia tra quanti si riconoscono nella Chiesa e vogliono essere più partecipi della sua vita e anche con quanti, non credenti o comunque lontani o ai margini della vita ecclesiale, sono desiderosi di occasioni di confronto nella sincera ricerca della verità e della giustizia.
Iniziative, anche, dotate di una certa continuità e di una programmazione organica, quali possono essere sostenute e condotte da strutture snelle come, ad esempio, i centri culturali o strutture simili, possibilmente raccordate e coordinate con iniziative analoghe nella stessa diocesi, nella stessa regione e anche a livello nazionale. Iniziative, dunque, che facciano emergere, in qualche modo esemplarmente, la novità del progetto culturale, cioè l’esplicita tematizzazione dell’incontro della fede con la cultura. Iniziative che, pur finalizzate a incidere nella pastorale ordinaria e anche inserite nel tessuto della pastorale ordinaria, se ne distinguano in qualche modo appunto per il loro carattere di novità. Mi sembra questo un punto importante. Penso ci sarà modo in questi due giorni di tornare su questo punto, specialmente quando si parlerà delle esperienze e dei programmi per il progetto culturale nelle diocesi.
I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il centro culturale Gli scritti (23/1/2010)
Dalle parole della riflessione introduttiva del card. Camillo Ruini è apparso con tutta evidenza il legame tra il progetto culturale e la pastorale ordinaria e quotidiana della Chiesa italiana, che del resto è affermato variamente ma unanimemente nei documenti della CEI che trattano del progetto. Anche di recente, nel consiglio permanente della CEI dello scorso gennaio, mons. Ennio Antonelli, segretario della CEI, ha messo a tema, in un suo intervento, il legame tra progetto pastorale e pastorale ordinaria. È un tema importante, perché è in fondo sulla capacità del progetto culturale di raccordarsi alla pastorale ordinaria, per ridarle linfa, motivazioni e obiettivi ai fini di un suo effettivo rinnovamento che si gioca, in buona parte, la partita, per così dire, della rispondenza o meno della proposta del progetto culturale alla attuale vicenda storica della Chiesa italiana. E mi pare che una parte di delicata importanza in questo necessario raccordo e incontro tra progetto culturale e pastorale delle nostre Chiese particolari possano e debbano svolgere proprio i referenti diocesani. Il mio compito è di proporvi una breve riflessione in proposito, che raccoglie stimoli e suggerimenti già emersi anche questa mattina e, comunque, abbondantemente presenti nei documenti già pubblicati sul progetto culturale.
1. Il nesso tra progetto culturale e pastorale
Vorrei, innanzitutto, sottolineare come il legame tra progetto culturale e pastorale sia veramente intrinseco, perché deriva sia dalla natura della pastorale che da quella della proposta del progetto culturale.
La pastorale è infatti la «cura» che la Chiesa mette in atto per l’accoglienza della fede e poi per la sua crescita e maturazione; una maturazione che non può non comprendere la tensione missionaria a comunicare, con semplicità e delicatezza, la propria esperienza di fede nell’ambito e nella rete delle proprie relazioni personali e anche a influire, con discrezione rispettosa ma anche senza alcun senso di subalternità, nei diversi ambienti sociali e nella cultura che in essi si esprime e si elabora.
Contrapporre evangelizzazione delle persone ed evangelizzazione della cultura è piuttosto artificioso. L’evangelizzazione si rivolge alle persone ma le persone vivono in un ambiente e respirano una cultura e contribuiscono, a loro volta, a generarla e plasmarla. Rientra, dunque, nella dinamica intrinseca della pastorale, che pure si indirizza primariamente alle persone, alimentare e sostenere la consapevolezza e la capacità delle comunità ecclesiali a essere attivamente protagoniste dei processi culturali, specialmente in un tempo, quale il nostro, contrassegnato da forti spinte a una marcata «privatizzazione» della fede e, al fondo, a una sua perdita di vero significato esistenziale e di fecondità storica.
Da parte sua, il progetto culturale vuole essere la proposta di un cammino attraverso cui le comunità ecclesiali siano in grado di consapevolmente operare per una mediazione nuova della concezione cristiana dell’uomo con le situazioni del nostro tempo. È una proposta, come appare evidente, di grande portata. E anche coraggiosa. L’avere posto all’ordine del giorno della Chiesa italiana la questione della cultura, cioè della fecondità del cristianesimo rispetto alla cultura del nostro tempo, in analogia e anzi, più propriamente, in continuità con altre e decisive precedenti fasi della storia del cristianesimo, è stato un passo che può sembrare temerario e anche un po’ controcorrente, almeno in relazione a certe concezioni piuttosto riduttive della fede a una sfera intima e strettamente personale, ma che d’altra parte appare urgente e indispensabile, quasi imposto dalle cose, forse anche deciso un po’ in ritardo, come pure è stato detto. E, comunque, è indubbiamente una proposta impegnativa che può realizzarsi solo attraverso un cammino, un processo, un coinvolgimento di tutte le diverse componenti della comunità ecclesiale.
Il suo stile più proprio è quello del «discernimento comunitario» quale espressione della comunione ecclesiale e metodo di lettura della storia. L’hanno ripetutamente sottolineato i documenti della CEI sul progetto culturale, in particolare la Proposta di lavoro del gennaio dell’anno scorso. Un tale progetto culturale, inteso come processo dinamico mirante al confronto creativo della comunità ecclesiale con le forme della cultura del nostro tempo, non può non avere uno stretto nesso con le forme ordinarie della cura pastorale.
È vero che il progetto culturale fa appello non secondariamente a un impegno nuovo e maggiormente produttivo di ricerca e di studio dei credenti nei diversi campi specialistici di elaborazione della cultura, in cui gli uomini di pensiero, gli artisti, gli scienziati, gli operatori della comunicazione sociale di professione e di vita cristiana hanno da mostrare la fecondità della loro ispirazione cristiana in un dialogo aperto e costruttivo con le altre componenti culturali del paese. Ma il progetto culturale non può non rapportarsi anche alle forme, ai metodi e allo stile della pastorale, affinché essa, anche nelle sue forme più comuni e quotidiane, maturi ed esprima un’attenzione nuova alle condizioni culturali e sociali del nostro tempo, nelle quali la fede ha da essere vissuta e testimoniata.
2. Necessità di una conversione pastorale
Del resto l’esigenza di un rinnovamento della pastorale è a tutti evidente. Nella nota pastorale della CEI dopo il convegno di Palermo (Con il dono della carità dentro la storia) si dice con tutta chiarezza che si impone una «conversione pastorale» che significa, concretamente, la «conversione» o rinnovamento delle sue forme vigenti. E lo stesso documento individua la linea di una tale conversione nell’assunzione di responsabilità della pastorale verso «il compito di plasmare una mentalità cristiana», che una volta era affidato alla tradizione familiare e sociale e ora è in gran parte da reinventare a opera di una comunità ecclesiale che viva la sua dimensione comunitaria e riscopra la sua vocazione missionaria in rapporto alla società circostante.
In questa richiesta o esigenza di una «conversione» pastorale e della pastorale mi pare si esprima una valutazione forse non negativa ma che, comunque, registra un limite delle forme dell’attuale pastorale delle Chiese d’Italia, talvolta segnate da un impianto di fondo indirizzato alla cura delle devozioni, che fu indubbiamente la forza e l’originalità della pastorale in età moderna – Seicento-Settecento – e ancora nell’Ottocento e in parte nel Novecento e ha contribuito a creare saldi e resistentissimi vincoli d’appartenenza ecclesiale. La dimensione popolare del cattolicesimo italiano deriva in buona parte da questa tradizione pastorale di cura delle devozioni. Il cristianesimo popolare italiano è storicamente un derivato, spiritualmente e organizzativamente, del cattolicesimo della riforma tridentina (con l’importanza data alle devozioni) e del cattolicesimo dell’opposizione allo Stato liberale dell’Ottocento (con l’importanza data al momento organizzativo «sociale»).
Come mostrano le più recenti indagini sociologiche, c’è tra gli italiani un larghissimo senso d’appartenenza alla Chiesa cattolica che vive momenti di espressione collettiva particolarmente in occasione delle festività natalizie e pasquali: in tali occasioni è il «cattolicesimo dei devoti» che emerge con forza, perché è tale cattolicesimo quello storicamente più radicato e anche quello variamente coltivato, con più continuato impegno, dalla cura pastorale ordinaria. La sfida che si pone alla pastorale italiana è quella di far evolvere questo diffuso senso d’appartenenza, mediato prevalentemente dalle devozioni, verso un cattolicesimo maggiormente radicato nell’ascolto della Parola e nella partecipazione liturgica e più capace di testimonianza cristiana e di fermento evangelico nella società. E tutto ciò salvaguardando il volto popolare del cattolicesimo italiano, cioè non riducendolo a un cristianesimo d’élite.
Dice espressamente la nota pastorale dopo il convegno di Palermo, che ho prima citato, che «non ci si può (oggi) limitare alle celebrazioni rituali e devozionali e all’ordinaria amministrazione: bisogna passare a una pastorale di missione permanente», una pastorale che cioè prenda sul serio le sfide che vengono all’evangelizzazione e allo stesso radicamento della Chiesa nella società italiana dalla situazione attuale – culturale, sociale, economica e politica – del nostro paese e anche dell’intero Occidente; sfide molto radicali che riguardano la fedeltà o l’allontanamento dalle radici cristiane che hanno costruito la nostra civiltà e che, comunque, comportano il rischio di quel conformismo culturale cui accennava il card. Camillo Ruini nella sua introduzione come a una delle maggiori insidie di questi anni per i cristiani del nostro paese.
Quando si lamenta la scarsa incidenza dei cattolici sul terreno culturale, mentre si rileva la consistenza della testimonianza cristiana sul terreno della carità e della solidarietà, non solo si solleva un problema reale, che è stato colto pure da osservatori «laici», ma anche si evidenzia un limite del cattolicesimo italiano che deriva certo dai processi storici, che in qualche modo ci superano e comunque ci condizionano, ma anche dalle concrete scelte ecclesiali e dalle forme attualmente coltivate, non esclusivamente ma forse con prevalenza di intenti e di impegno, dalla cura pastorale. E, prima ancora, si evidenzia un deficit di consapevolezza diffusa e di fronte all’importanza e alla radicalità delle sfide con cui deve confrontarsi l’azione pastorale delle Chiese italiane.
3. “Novità” del progetto culturale e pastorale ordinaria
L’ambizione più grande e più propria del progetto culturale è quella di suscitare una tale consapevolezza, che a sua volta diventi stimolo per il rinnovamento della pastorale, nelle sue forme più ordinarie e quotidiane, e non per parole d’ordine e suggestioni dall’alto ma per diffuso convincimento e perciò efficace corresponsabilità dal basso, cioè delle varie componenti delle Chiese diocesane.
Ciò significa che il progetto culturale si configura come una proposta alla Chiesa italiana (gradualmente maturata al suo stesso interno, particolarmente negli anni del dopoconcilio ma con significativi precorrimenti e profetiche anticipazioni precedenti il Concilio in alcune singole personalità ecclesiali) nella linea di quell’esigenza di conversione pastorale di cui parla la nota della CEI dopo il convegno di Palermo. E per far ciò il progetto culturale evidenzia le dimensioni di novità del compito complessivo che la pastorale ha oggi da esercitare. In altri termini la novità che è propria del progetto culturale – cioè la consapevolezza che oggi per vivere la fede e trasmetterla è necessario portare attenzione alla cultura e ai processi culturali prevalenti nella nostra società – viene proposta come novità che potrebbe segnare e rinnovare la pastorale tutta.
Segnalo rapidamente tre principali linee attraverso cui la novità propria del progetto culturale (o meglio: evidenziata e proposta dal progetto culturale) può e anzi dovrebbe interessare la pastorale tutta:
1. la riscoperta della dimensione missionaria nell’esperienza di fede personale e nella vita ecclesiale. Ho citato prima l’affermazione di un documento della CEI secondo cui bisogna passare a una pastorale di missione permanente. È una conseguenza dell’assunzione radicale di responsabilità cristiana di fronte agli enormi spazi di non credenza, di povertà spirituale e morale, di richiesta di senso, di domanda diffusa ma vaga di religiosità che si aprono davanti a noi nel nostro tempo e nel nostro paese. Ma è, primariamente e più radicalmente, la conseguenza della fede in Cristo Figlio di Dio e nostro unico Salvatore. Il senso della missione cristiana deriva da questa fede e si alimenta nella certezza del sostegno dello Spirito del Cristo che vive nel cuore dei credenti e guida e accompagna il cammino storico della Chiesa. Senza dire, a questo proposito, che, come dimostra la storia della Chiesa, la progettualità pastorale, che risponde a una valutazione razionale del momento storico, ha bisogno di trovare, per così dire, la sponda della creatività spirituale, cioè donata dallo Spirito del Risorto, pena il suo inaridimento e comunque la sua stessa irrilevanza storica. In altre parole ogni grande progettualità pastorale sembra invocare una grande stagione di santità esemplare, una nuova schiera di personalità spirituali emergenti;
2. l’acquisizione di una più forte valenza educativa della prassi pastorale anche nelle sue forme più quotidiane. La sfida pastorale, di cui dicevo prima, di far evolvere il cattolicesimo popolare italiano di impianto devozionale verso un cattolicesimo di ascolto della Parola di Dio e capace di testimonianza coerente e significativa, passa attraverso una diffusa scelta formativa, un’importanza nuova assegnata a momenti, occasioni, luoghi e processi formativi necessariamente differenziati secondo i contesti e le persone e tutti unitariamente tesi alla maturazione personale della fede;
3. la promozione di un coinvolgimento sempre più pieno e sempre più ampio di tutte le componenti del popolo di Dio nella missione ecclesiale, in particolare i laici e compresi tanti credenti che, pur desiderosi di spendersi in qualche modo per il Vangelo, sembrano oggi vivere ai margini della Chiesa. Come già detto, il progetto culturale mira a un tale coinvolgimento, anche perché è evidente che l’incontro della fede con la cultura del nostro tempo non può essere opera di poche persone o di singoli gruppi a motivo della radicalità e complessità delle sfide oggi portate all’annuncio cristiano. Ma questo stesso coinvolgimento si richiede alla pastorale nelle sue forme più varie e ordinarie, anche per una efficace testimonianza della comunione ecclesiale e anche per alimentarla e in qualche modo renderla vera e visibile.
4. Iniziative specifiche del progetto culturale
Vorrei concludere con una osservazione sulla distinzione tra progetto pastorale e pastorale ordinaria. È una distinzione che conviene evidenziare. Nel senso che quanto detto sul loro nesso intrinseco non conduce a un assorbimento reciproco. Voglio dire che la proposta del progetto culturale potrà essere di stimolo e di contributo al rinnovamento della pastorale se riesce a calarsi nella vita delle Chiese locali anche con iniziative specifiche, da avviare e sperimentare creativamente a opera di soggetti particolari, specialmente laicali, come opportunamente sottolineato da don Gianni Ambrosio. Iniziative che si misurino con il compito di lettura e valutazione cristiana della cultura del nostro tempo in un dialogo che sia tra quanti si riconoscono nella Chiesa e vogliono essere più partecipi della sua vita e anche con quanti, non credenti o comunque lontani o ai margini della vita ecclesiale, sono desiderosi di occasioni di confronto nella sincera ricerca della verità e della giustizia.
Iniziative, anche, dotate di una certa continuità e di una programmazione organica, quali possono essere sostenute e condotte da strutture snelle come, ad esempio, i centri culturali o strutture simili, possibilmente raccordate e coordinate con iniziative analoghe nella stessa diocesi, nella stessa regione e anche a livello nazionale. Iniziative, dunque, che facciano emergere, in qualche modo esemplarmente, la novità del progetto culturale, cioè l’esplicita tematizzazione dell’incontro della fede con la cultura. Iniziative che, pur finalizzate a incidere nella pastorale ordinaria e anche inserite nel tessuto della pastorale ordinaria, se ne distinguano in qualche modo appunto per il loro carattere di novità. Mi sembra questo un punto importante. Penso ci sarà modo in questi due giorni di tornare su questo punto, specialmente quando si parlerà delle esperienze e dei programmi per il progetto culturale nelle diocesi.