Una “Intifada” silenziosa, frutto dell’emulazione dei gesti, di Camille Eid
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Riprendiamo da Avvenire del 27/12/2015 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (31/1/2016)
In circa tre mesi, la cosiddetta «Intifada dei coltelli» ha provocato la morte di 155 persone, tra cui 135 palestinesi e almeno venti cittadini israeliani, con una media di meno di due vittime al giorno. Nella maggior parte dei 120 attacchi censiti da ottobre, si è trattato di giovani palestinesi che hanno assalito con armi da taglio delle guardie di sicurezza israeliane oppure cercato di investire con la macchina dei civili alla fermata del bus.
Uno stillicidio che, nonostante la sua gravità in termini di vite umane, non ci permette di parlare di una vera e propria sollevazione popolare sul modello delle due precedenti Intifada nei Territori palestinesi. Semmai, quella di oggi è una «Intifada silenziosa», frutto di una serie di emulazioni di gesti individuali, disperati.
Gli autori degli attacchi – fanno notare diversi analisti – sono persone profondamente segnate dalla solitudine: non hanno nessuna aspettativa da parte di Israele, si sentono abbandonati dai Paesi arabi e sanno che l’attenzione della comunità internazionale è tutta concentrata sulla lotta al terrorismo del Daesh piuttosto che sulla soluzione della questione palestinese.
Detto ciò, non è difficile trovare alcune analogie con le cause delle due precedenti Intifada. Oggi come allora, sullo sfondo della violenza in atto sta una politica di repressione israeliana basata sulla continua espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, con l’inevitabile frantumazione dei territori del futuro Stato palestinese. Il tutto coniugato a misure di restrizione contro i luoghi santi islamici.
Questo spiega il risultato del sondaggio realizzato di recente nei Territori, secondo il quale il 67 per cento dei palestinesi giustifica l’Intifada dei coltelli. Giustifica, ma non partecipa per motivi oggettivi. Anzitutto, perché manca una volontà politica in quella direzione all’interno della (delle) leadership palestinese.
Nonostante alcuni retorici appelli in senso opposto, sia il debole governo di Abu Mazen (il 65 per cento dei palestinesi chiede le sue dimissioni nello stesso sondaggio) che quello di Hamas vorrebbero trarre il massimo vantaggio delle proteste senza tuttavia spingerle a un punto di non ritorno. Questa realpolitik è dettata da fattori interni ed esterni che rendono molto difficile il successo di un’eventuale nuova Intifada.
Infatti, sul 18 per cento della Cisgiordania sotto controllo dell’Anp vive oggi il 90 per cento della popolazione palestinese. Ciò riduce di molto le occasioni di scontro diretto tra palestinesi e soldati israeliani, che hanno caratterizzato la prima Intifada.
Mentre la costruzione del Muro ha diminuito il rischio di attentati kamikaze all’interno del territorio israeliano, che hanno segnato la seconda Intifada. Ma c’è un altro importante elemento che rende ogni reale intenzione di escalation una mera speranza: il contesto regionale e internazionale.
Oggi, le diverse guerre che divampano in vari Paesi del Medio Oriente e del Nordafrica (Siria, Iraq, Yemen e Libia) e le opposte soluzioni sul tavolo assorbono tutta l’attenzione delle diplomazie internazionali. La pace in Palestina, in assenza di nuovi sviluppi (o di una nuova presa di coscienza, come vorrebbe il Papa) sarà sempre relegata in secondo piano.