«Unmittelbar zu Gott» («legato direttamente a Dio»), di Henri-Irénée Marrou
Riprendiamo dal sito www.letterepaoline.it un testo tratto da Henri-Irénée Marrou, Teologia della storia, trad. it. Jaca Book, Milano, pp. 74-78. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2009)
Non so quanto il nome Leopold von Ranke (1795-1886) potrà richiamare per un cospicuo numero dei miei lettori: senza dubbio è buona cosa ricordar loro che si tratta di un grande spirito, che non appartiene soltanto ai fasti della letteratura germanica, e che consideriamo come il primo dei grandi storici moderni, nel senso scientifico della parola – il primo ad aver saputo che bisognava lavorare su fonti primarie (gli archivi della Repubblica di Venezia, tanto per cominciare), mostrandosi al tempo stesso quel grande scrittore che la storia esige, perché la verità sia trasmessa senza deformazioni e tradimenti in tutte le sfumature elaborate dalla minuziosa fatica dell’erudito.
In una conferenza tenuta nel 1854 [1] egli ha pronunciato la famosa formula: jede Epoche ist unmittelbar zu Gott, ogni epoca è legata direttamente a Dio ed ogni generazione è equidistante dall’eternità. Detta da lui, essa esprime precisamente quella protesta dello storico di mestiere che abbiamo appena ricordato: attenendosi ai valori specifici della propria disciplina, se la prendeva con Hegel e con la filosofia della storia in generale, per l’abuso che essa induce a fare della nozione di progresso. Prima di tutto, se si è sensibili alla traiettoria d’insieme descritta dall’umanità, si tenderà a vedere in ogni epoca o civiltà nient’altro che una tappa verso un ulteriore livello da raggiungere: O, to die advancing on... [2].
In questo modo conferendo valore mediale ad ogni generazione, essa non ha più significato per se stessa ed in se stessa, ma soltanto come gradino della scala del progresso. È allora che lo storico per esperienza sa che il suo studio si rivela interessante e fruttuoso ed il proprio Io possiede dei valori che gli sono esclusivi e si rivelano spesso inestimabili: chi oserebbe dire che i «Primitivi» non sono che una transizione tra Medioevo e Rinascimento! Marx era un uomo di cultura abbastanza vasta per aver risentito della difficoltà: quanto costituiva problema ai suoi occhi è che Omero, e tutta l’arte greca, possiedono un valore estetico permanente, indipendente dalle «forme di sviluppo sociale» che le hanno viste o fatte nascere, un valore in qualche modo assoluto.
Ma questa formula di Ranke, così spesso ripetuta e talvolta compresa male, è ugualmente suscettibile di assumere un significato più profondo, e può servire ad esprimere il rapporto misterioso che si stabilisce tra tempo ed eternità, o meglio tra storia ed escatologia, nella prospettiva della nostra teologia della storia.
Si è spesso sottolineata questa legge di carattere apocalittico che conduce il profeta a vedere lontano e a fondere in qualche modo in un’unica visione il suo giudizio sul presente (o il futuro immediato) e la sua evocazione degli ultimi tempi. Il tempo storico si trova per così dire soppresso in virtù di una prospettiva accorciata: l’escatologia o meglio «il finale», tà éschata, si profila all’orizzonte immediato sopprimendo l’immenso svolgimento dei secoli intermedi, un po’ come in certi paesaggi di montagna nei quali si possono vedere da lontano sovrapporsi delle cime apparentemente vicine, che nascondono però gli abissi profondi che le separano.
Prendiamo ad esempio la più antica delle apocalissi canoniche, quella del Libro di Daniele: a leggerla sembrerebbe che il regno escatologico (2,44), la venuta del Figlio dell’Uomo (7,13) ed il Giudizio finale (12,1 ss.) debbano seguire immediatamente la morte del persecutore – nel caso specifico è Antioco Epifane. E ciò vale anche per quella che è chiamata la piccola Apocalisse dei vangeli sinottici, dove è la volta della presa di Gerusalemme da parte di Tito a trovarsi inestricabilmente legata all’evocazione della Fine dei tempi. Lo stesso per l’Apocalisse di Giovanni... Lasciamo da parte il senso tipico di ciascuna profezia: tanto in Epifane quanto nella Roma del primo secolo si intende uno stato pagano e persecutore in qualsiasi momento dello svolgersi dei tempi. Non chiamiamo neppure in causa l’accondiscendenza pedagogica di Dio, che in questo modo ci suggerirebbe l’approssimarsi dell’ora per esortarci di più a vigilare.
No, in questo caso non vi è affatto artificio pedagogico o semplice espediente letterario: in questo accostamento sistematico fra il presente vissuto dai contemporanei del profeta e la fine dei tempi è proposta, «insinuata» come amavano dire i Padri, alla nostra riflessione una verità profonda. Senza dubbio ogni episodio successivo della storia viene a collocarsi nel suo ambito, in quel posto conosciuto da Dio, previsto e voluto da Lui nella trama della storia umana, in quel grande viaggio, diciamolo ora, in quel pellegrinaggio che parte dalla creazione e dalla caduta per terminare col giudizio finale. Ciascuno di questi fatti storici segna una nuova tappa di questo destino e divenire comuni: costituisce per così dire una nota che contribuisce a scandire il trascorrere ritmico di quella grande sinfonia che sfugge alla nostra attuale percezione, ma di cui con la fede riconosciamo l’esistenza reale e la misteriosa armonia.
E questo è vero per quel parziale episodio, se lo si considera nel quadro della storia universale, che per ciascuno di noi costituisce la breve giornata terrena che avrà vissuto alternativamente nella fatica, nella sofferenza, nella tentazione, in qualche gioia, nella speranza fino a quell’ora che, misurata dal punto di vista terreno, fu o sarà per lui l’ultima. La morte è per ognuno di noi l’inizio della Fine. Certo, la morte è sempre là minacciosa e vicina fintanto che noi viviamo, e «mille cadono alla mia destra e diecimila alla mia sinistra», così che il presente vissuto si trova per così dire illuminato all’orazione dal barlume tragico della Fine universale e con ciò stesso ripieno di valori escatologici.
Secondo questo profondo significato possiamo ripetere con Ranke che ogni epoca, ogni generazione della storia, ogni nostra vita personale è unmittelbar zu Gott, legata direttamente a Dio, all’Eternità, all’aldilà in cui si compie la storia. Poiché lo stesso avviene per la storia intera, per l’avventura collettiva dell’umanità, quanto per ogni vita individuale. Ricordiamo il motto che portano certe nostre vecchie meridiane, vulnerant omnes, ultima necat: ogni ora che viviamo ci avvicina all’ultima. In certo qual modo, ogni volta diventano un po’ più vere in senso letterale e più direttamente applicabili le parole degli Apostoli: «La notte è avanzata e si avvicina il giorno» (Rm 13,12); «Questo, o fratelli, io vorrei dirvi: il tempo è limitato» (1Cor 7,29); «Ancora un poco...» (Eb 10,37); «La fine di tutto si è avvicinata» (1Pt 4,7); «Figlioletti, è l’ultima ora» (1Gv 2,18); «Sì, vengo presto » (Ap 22,20).
Occorre dire di più: queste parole sono state sempre vere. Non si può non essere colpiti dalla frequenza con cui queste affermazioni ricorrono per tutto il Nuovo Testamento. Sarebbe ingenuo immaginare di sbarazzarsene «spiegandole» con la convinzione tormentosa che avrebbe avuto la prima generazione cristiana circa l’approssimarsi della Parusia. Poco importa il carattere più o meno ipotetico di una tale ricostruzione psicologica. Il fatto dominante è che questi testi siano stati ricevuti dalla Chiesa come facenti parte del canone ispirato della Scrittura; da allora in poi bisogna ben che siano veri, di una verità in qualche modo permanente, valida per ogni generazione cristiana allo stesso titolo che per la prima.
Per ogni civiltà, generazione umana, come già per ogni uomo vivente, bisogna riconoscere che il suo ultimo giorno, il suo unico giorno (cos’è in effetti la durata d’una vita umana, d’una civiltà al confronto, non dico nemmeno dell’eternità, ma dell’immensa estensione di tutta la storia dell’umanità?) è per lui, per essa, l’ultimo Giorno. Tale è la profonda visione metafisica che è presupposta alla costituzione Benedictus Deus con la quale Benedetto XII ha rettificato le imprudenti affermazioni di Giovanni XXII sulla sorte delle anime dei giusti prima del Giudizio finale. Per il Buon Ladrone, il Regno con il Figlio dell’Uomo è iniziato la sera stessa del Venerdì Santo: Hodie mecum eris in Paradiso. Come ha visto giustamente sant’Ambrogio: «La Vita è essere con Cristo, poiché laddove è Cristo è la Vita, il Regno» (In Lucam, X, 121).
L’escatologia è sempre là che si profila per ciascuno di noi al nostro orizzonte immediato: insomma, che cosa importava ai martiri del tempo dei Maccabei che dopo Antioco IV dovessero venire Nerone e Diocleziano... e Stalin o Hitler? L’itinerario di quei martiri, quello di ogni uomo, il mio stesso appare davvero come un segmento reale, sebbene infinitesimale, della curva che disegna l’insieme storico: di anno in anno, quegli anni che mi sono dati per lavorare nella vigna del Signore ed io spreco nel peccato, in cui si approfondisce in me anche l’opera della grazia, di anno in anno diventa per me letteralmente più vera quella frase dell’Apostolo: «La nostra salvezza si fa ormai più vicina di quando abbracciammo la fede» (Rm 13,11). Lo scorrere del tempo insensibilmente mi avvicina a quell’ultima ora tanto imprevedibile come quella della «Fine del mondo», in cui balzerò fuori del tempo ai piedi del Giudice sovrano, terminata ormai la mia concreta partecipazione all’opera della storia. E quindi qualche cosa della gravità di quest’ora si profila in ogni mio istante.
Ma questa verità è suscettibile di ricevere un significato ancora più profondo. L’ultimo Giorno, «il finale», non è soltanto un momento nella serie del tempo, un giorno determinato di un anno che porterà il suo millesimo secondo l’era in vigore fra gli storici di allora; è anche il fatto del compimento totale del disegno di Dio sulla sua creatura. Ma se questo compimento non sarà effettuato che in quel famoso Giorno, sarebbe falso immaginare che esso è riservato completamente a quel futuro: in realtà questo compimento accompagna e sostiene lo svolgersi della durata storica, è presente ad essa e raccoglie il frutto di ogni lacrima e di ogni slancio d’amore. Tutto il tempo in tal modo si trova a rivestire una partecipazione alla qualità escatologica.
Infatti nemmeno il tempo della storia cristiana saprebbe limitarsi ad essere nient’altro che la successione di istanti misurati da orologi e cronache. Come ha ben visto sant’Agostino (cfr. Civ. Dei, XI-XII, 9: capitoli dedicati a quel «prologo nel cielo» in cui si vede il tempo della storia umana riconoscere la sua fraternità col misterioso divenire della storia angelica), in un senso più pieno il tempo è il modo di quel compimento del disegno divino che totalizza il finale, compimento in profondità (nella densità dell’essere), realtà misteriosa come tutto ciò che riguarda l’essere, ma che ci fa intravedere l’uso ispirato delle metafore di «crescita», «maturazione», «costruzione dell’edificio».
***
NOTE
[1] L. von Ranke, Ueber die Epochen der neueren Geschichte (Weltgeschichte, IX, 2).
[2] W. Whitman, Pioneers! O Pioneers!, v. 40.
Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2009)
Non so quanto il nome Leopold von Ranke (1795-1886) potrà richiamare per un cospicuo numero dei miei lettori: senza dubbio è buona cosa ricordar loro che si tratta di un grande spirito, che non appartiene soltanto ai fasti della letteratura germanica, e che consideriamo come il primo dei grandi storici moderni, nel senso scientifico della parola – il primo ad aver saputo che bisognava lavorare su fonti primarie (gli archivi della Repubblica di Venezia, tanto per cominciare), mostrandosi al tempo stesso quel grande scrittore che la storia esige, perché la verità sia trasmessa senza deformazioni e tradimenti in tutte le sfumature elaborate dalla minuziosa fatica dell’erudito.
In una conferenza tenuta nel 1854 [1] egli ha pronunciato la famosa formula: jede Epoche ist unmittelbar zu Gott, ogni epoca è legata direttamente a Dio ed ogni generazione è equidistante dall’eternità. Detta da lui, essa esprime precisamente quella protesta dello storico di mestiere che abbiamo appena ricordato: attenendosi ai valori specifici della propria disciplina, se la prendeva con Hegel e con la filosofia della storia in generale, per l’abuso che essa induce a fare della nozione di progresso. Prima di tutto, se si è sensibili alla traiettoria d’insieme descritta dall’umanità, si tenderà a vedere in ogni epoca o civiltà nient’altro che una tappa verso un ulteriore livello da raggiungere: O, to die advancing on... [2].
In questo modo conferendo valore mediale ad ogni generazione, essa non ha più significato per se stessa ed in se stessa, ma soltanto come gradino della scala del progresso. È allora che lo storico per esperienza sa che il suo studio si rivela interessante e fruttuoso ed il proprio Io possiede dei valori che gli sono esclusivi e si rivelano spesso inestimabili: chi oserebbe dire che i «Primitivi» non sono che una transizione tra Medioevo e Rinascimento! Marx era un uomo di cultura abbastanza vasta per aver risentito della difficoltà: quanto costituiva problema ai suoi occhi è che Omero, e tutta l’arte greca, possiedono un valore estetico permanente, indipendente dalle «forme di sviluppo sociale» che le hanno viste o fatte nascere, un valore in qualche modo assoluto.
Ma questa formula di Ranke, così spesso ripetuta e talvolta compresa male, è ugualmente suscettibile di assumere un significato più profondo, e può servire ad esprimere il rapporto misterioso che si stabilisce tra tempo ed eternità, o meglio tra storia ed escatologia, nella prospettiva della nostra teologia della storia.
Si è spesso sottolineata questa legge di carattere apocalittico che conduce il profeta a vedere lontano e a fondere in qualche modo in un’unica visione il suo giudizio sul presente (o il futuro immediato) e la sua evocazione degli ultimi tempi. Il tempo storico si trova per così dire soppresso in virtù di una prospettiva accorciata: l’escatologia o meglio «il finale», tà éschata, si profila all’orizzonte immediato sopprimendo l’immenso svolgimento dei secoli intermedi, un po’ come in certi paesaggi di montagna nei quali si possono vedere da lontano sovrapporsi delle cime apparentemente vicine, che nascondono però gli abissi profondi che le separano.
Prendiamo ad esempio la più antica delle apocalissi canoniche, quella del Libro di Daniele: a leggerla sembrerebbe che il regno escatologico (2,44), la venuta del Figlio dell’Uomo (7,13) ed il Giudizio finale (12,1 ss.) debbano seguire immediatamente la morte del persecutore – nel caso specifico è Antioco Epifane. E ciò vale anche per quella che è chiamata la piccola Apocalisse dei vangeli sinottici, dove è la volta della presa di Gerusalemme da parte di Tito a trovarsi inestricabilmente legata all’evocazione della Fine dei tempi. Lo stesso per l’Apocalisse di Giovanni... Lasciamo da parte il senso tipico di ciascuna profezia: tanto in Epifane quanto nella Roma del primo secolo si intende uno stato pagano e persecutore in qualsiasi momento dello svolgersi dei tempi. Non chiamiamo neppure in causa l’accondiscendenza pedagogica di Dio, che in questo modo ci suggerirebbe l’approssimarsi dell’ora per esortarci di più a vigilare.
No, in questo caso non vi è affatto artificio pedagogico o semplice espediente letterario: in questo accostamento sistematico fra il presente vissuto dai contemporanei del profeta e la fine dei tempi è proposta, «insinuata» come amavano dire i Padri, alla nostra riflessione una verità profonda. Senza dubbio ogni episodio successivo della storia viene a collocarsi nel suo ambito, in quel posto conosciuto da Dio, previsto e voluto da Lui nella trama della storia umana, in quel grande viaggio, diciamolo ora, in quel pellegrinaggio che parte dalla creazione e dalla caduta per terminare col giudizio finale. Ciascuno di questi fatti storici segna una nuova tappa di questo destino e divenire comuni: costituisce per così dire una nota che contribuisce a scandire il trascorrere ritmico di quella grande sinfonia che sfugge alla nostra attuale percezione, ma di cui con la fede riconosciamo l’esistenza reale e la misteriosa armonia.
E questo è vero per quel parziale episodio, se lo si considera nel quadro della storia universale, che per ciascuno di noi costituisce la breve giornata terrena che avrà vissuto alternativamente nella fatica, nella sofferenza, nella tentazione, in qualche gioia, nella speranza fino a quell’ora che, misurata dal punto di vista terreno, fu o sarà per lui l’ultima. La morte è per ognuno di noi l’inizio della Fine. Certo, la morte è sempre là minacciosa e vicina fintanto che noi viviamo, e «mille cadono alla mia destra e diecimila alla mia sinistra», così che il presente vissuto si trova per così dire illuminato all’orazione dal barlume tragico della Fine universale e con ciò stesso ripieno di valori escatologici.
Secondo questo profondo significato possiamo ripetere con Ranke che ogni epoca, ogni generazione della storia, ogni nostra vita personale è unmittelbar zu Gott, legata direttamente a Dio, all’Eternità, all’aldilà in cui si compie la storia. Poiché lo stesso avviene per la storia intera, per l’avventura collettiva dell’umanità, quanto per ogni vita individuale. Ricordiamo il motto che portano certe nostre vecchie meridiane, vulnerant omnes, ultima necat: ogni ora che viviamo ci avvicina all’ultima. In certo qual modo, ogni volta diventano un po’ più vere in senso letterale e più direttamente applicabili le parole degli Apostoli: «La notte è avanzata e si avvicina il giorno» (Rm 13,12); «Questo, o fratelli, io vorrei dirvi: il tempo è limitato» (1Cor 7,29); «Ancora un poco...» (Eb 10,37); «La fine di tutto si è avvicinata» (1Pt 4,7); «Figlioletti, è l’ultima ora» (1Gv 2,18); «Sì, vengo presto » (Ap 22,20).
Occorre dire di più: queste parole sono state sempre vere. Non si può non essere colpiti dalla frequenza con cui queste affermazioni ricorrono per tutto il Nuovo Testamento. Sarebbe ingenuo immaginare di sbarazzarsene «spiegandole» con la convinzione tormentosa che avrebbe avuto la prima generazione cristiana circa l’approssimarsi della Parusia. Poco importa il carattere più o meno ipotetico di una tale ricostruzione psicologica. Il fatto dominante è che questi testi siano stati ricevuti dalla Chiesa come facenti parte del canone ispirato della Scrittura; da allora in poi bisogna ben che siano veri, di una verità in qualche modo permanente, valida per ogni generazione cristiana allo stesso titolo che per la prima.
Per ogni civiltà, generazione umana, come già per ogni uomo vivente, bisogna riconoscere che il suo ultimo giorno, il suo unico giorno (cos’è in effetti la durata d’una vita umana, d’una civiltà al confronto, non dico nemmeno dell’eternità, ma dell’immensa estensione di tutta la storia dell’umanità?) è per lui, per essa, l’ultimo Giorno. Tale è la profonda visione metafisica che è presupposta alla costituzione Benedictus Deus con la quale Benedetto XII ha rettificato le imprudenti affermazioni di Giovanni XXII sulla sorte delle anime dei giusti prima del Giudizio finale. Per il Buon Ladrone, il Regno con il Figlio dell’Uomo è iniziato la sera stessa del Venerdì Santo: Hodie mecum eris in Paradiso. Come ha visto giustamente sant’Ambrogio: «La Vita è essere con Cristo, poiché laddove è Cristo è la Vita, il Regno» (In Lucam, X, 121).
L’escatologia è sempre là che si profila per ciascuno di noi al nostro orizzonte immediato: insomma, che cosa importava ai martiri del tempo dei Maccabei che dopo Antioco IV dovessero venire Nerone e Diocleziano... e Stalin o Hitler? L’itinerario di quei martiri, quello di ogni uomo, il mio stesso appare davvero come un segmento reale, sebbene infinitesimale, della curva che disegna l’insieme storico: di anno in anno, quegli anni che mi sono dati per lavorare nella vigna del Signore ed io spreco nel peccato, in cui si approfondisce in me anche l’opera della grazia, di anno in anno diventa per me letteralmente più vera quella frase dell’Apostolo: «La nostra salvezza si fa ormai più vicina di quando abbracciammo la fede» (Rm 13,11). Lo scorrere del tempo insensibilmente mi avvicina a quell’ultima ora tanto imprevedibile come quella della «Fine del mondo», in cui balzerò fuori del tempo ai piedi del Giudice sovrano, terminata ormai la mia concreta partecipazione all’opera della storia. E quindi qualche cosa della gravità di quest’ora si profila in ogni mio istante.
Ma questa verità è suscettibile di ricevere un significato ancora più profondo. L’ultimo Giorno, «il finale», non è soltanto un momento nella serie del tempo, un giorno determinato di un anno che porterà il suo millesimo secondo l’era in vigore fra gli storici di allora; è anche il fatto del compimento totale del disegno di Dio sulla sua creatura. Ma se questo compimento non sarà effettuato che in quel famoso Giorno, sarebbe falso immaginare che esso è riservato completamente a quel futuro: in realtà questo compimento accompagna e sostiene lo svolgersi della durata storica, è presente ad essa e raccoglie il frutto di ogni lacrima e di ogni slancio d’amore. Tutto il tempo in tal modo si trova a rivestire una partecipazione alla qualità escatologica.
Infatti nemmeno il tempo della storia cristiana saprebbe limitarsi ad essere nient’altro che la successione di istanti misurati da orologi e cronache. Come ha ben visto sant’Agostino (cfr. Civ. Dei, XI-XII, 9: capitoli dedicati a quel «prologo nel cielo» in cui si vede il tempo della storia umana riconoscere la sua fraternità col misterioso divenire della storia angelica), in un senso più pieno il tempo è il modo di quel compimento del disegno divino che totalizza il finale, compimento in profondità (nella densità dell’essere), realtà misteriosa come tutto ciò che riguarda l’essere, ma che ci fa intravedere l’uso ispirato delle metafore di «crescita», «maturazione», «costruzione dell’edificio».
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NOTE
[1] L. von Ranke, Ueber die Epochen der neueren Geschichte (Weltgeschichte, IX, 2).
[2] W. Whitman, Pioneers! O Pioneers!, v. 40.