1/ Attenti ai morti. Dati come di guerra nell’Italia 2015, di Gian Carlo Blangiardo 2/ Sboom demografico insidia per il futuro. Cala la fecondità anche tra le straniere, di Gian Carlo Blangiardo
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1/ Attenti ai morti. Dati come di guerra nell’Italia 2015, di Gian Carlo Blangiardo
Riprendiamo da Avvenire del l’11/12/2015 un articolo di Gian Carlo Blangiardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2015)
Leggendo i dati forniti dall’Istat sul totale dei morti in Italia nei primi sette mesi del 2015 – ultimo aggiornamento a tutt’oggi disponibile – si scopre un aumento di 39mila decessi rispetto agli stessi primi sette mesi del 2014. La cosa non è affatto marginale se si pensa che ciò corrisponde a un aumento dell’11% e che, se confermato su base annua, porterebbe a 664mila morti nel 2015 contro i 598mila dello scorso anno. Si tratterebbe di un aumento di ben 66mila unità, che si annuncia in gran parte concentrato sulla componente femminile (+40mila) e che verosimilmente coinvolgerà soprattutto la componente più anziana della popolazione residente nel nostro Paese.
Il dato è impressionante. Ma ciò che lo rende del tutto anomalo è il fatto che per trovare un’analoga impennata della mortalità, con ordini di grandezza comparabili, si deve tornare indietro sino al 1943 e, prima ancora, occorre risalire agli anni tra il 1915 e il 1918: due periodi bellici della nostra storia che largamente spiegano dinamiche di questo tipo. Viceversa, in un’epoca come quella attuale, in condizioni di pace e con uno stato di benessere che, nonostante tutto, è da ritenersi ancora ampio e generalizzato, come si giustifica un rialzo della mortalità di queste dimensioni? È solo la naturale conseguenza del cambiamento in un popolo che diventa sempre più anziano o è (anche) un segnale di allarme rispetto a un sistema socio-sanitario che, dopo averci abituati al continuo allungamento della vita, – con guadagni sensibili anche in corrispondenza delle età anziane – inizia a mostrare i limiti e i condizionamenti derivanti da una congiuntura economica meno favorevole? Detto in altre parole: gli effetti della crisi, i tagli di cui sentiamo spesso parlare e che non hanno certo risparmiato la sanità, hanno forse accresciuto nel corrente anno il rischio di mortalità in corrispondenza dei gruppi tipicamente più fragili: i vecchi e i "grandi vecchi", più di ogni altro?
Non potendo ancora disporre dei dati puntuali sull’incidenza dei decessi per singola età e per genere nel corso del 2015 – dati che ci consentirebbero di valutare gli eventuali cambiamenti del rischio di morte – possiamo sin da ora cercare almeno di capire se, e soprattutto in quale misura, l’impennata di mortalità del 2015 sia ascrivibile al semplice processo di invecchiamento della popolazione italiana o se invece vada argomentata in altro modo. A tale proposito, andando a vedere come è cambiata la composizione per età dei residenti tra il 1° gennaio del 2014 e alla stessa data del 2015 scopriamo subito che, a fronte di 159mila unità in meno nella fascia d’età fino a 60anni, se ne contano +70mila in età tra 61 e 70 anni, +40mila tra 71 e 85 anni e +62 mila con oltre 85 anni. Lo spostamento verso le età più "mature" è ben evidente, ma è sufficiente a spiegare un aumento della mortalità nell’ordine (presumibile) dei 66mila casi annui di cui si è detto? La risposta è no.
Le modifiche nella struttura della popolazione non spiegano che in minima parte la maggior frequenza di decessi. In particolare, valutando l’ipotetico numero di morti derivante dal solo cambiamento nella struttura per sesso ed età della popolazione nel corso del 2015 si arriverebbero a spiegare circa 16mila decessi in più rispetto al 2014. E le altre 50mila unità come le si giustificano?
La questione resta aperta. Tra qualche mese avremo certamente dati più completi che, ci si augura, consentiranno spiegazioni esaurienti. Oggi resta comunque il dubbio, e forse anche la paura, nel constatare l’improvviso e inspiegabile cambiamento di rotta di una delle componenti che determinano il corso della dinamica della popolazione italiana. La presenza di 66mila morti in più, se confermata dal resoconto di fine anno, rappresenta un segnale importante che la demografia consegna alla riflessione sia del mondo scientifico sia di quello della politica, della pubblica amministrazione e del welfare. Ogni scelta pesa. Attenti ai morti, dunque. Ascoltiamo ciò che dice questo evento "straordinario". Perché vorremmo tanto che possa restare tale.
2/ Sboom demografico insidia per il futuro. Cala la fecondità anche tra le straniere, di Gian Carlo Blangiardo
Riprendiamo da Avvenire del 13/2/2015 un articolo di Gian Carlo Blangiardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2015)
Mai dire mai. Chi pensava che le 514 mila nascite del 2013 – un minino che mai si era registrato dall’unità nazionale ai tempi nostri – fossero un confine difficilmente superabile, è stato smentito dai 509mila nati del 2014, secondo quanto registra l’Istat. E già il 2015 potrebbe "regalarci" la discesa oltre il confine simbolico del mezzo milione di nascite. Ecco dunque il drammatico bilancio demografico di un Paese in cui sessanta milioni di persone "producono" nascite sufficienti a garantir loro nel tempo, attraverso i processi di ricambio generazionale, una dimensione demografica di poco superiore ai 40 milioni abitanti.
Ecco l’amara realtà di un tessuto sociale, economico e culturale dove agiscono quei meccanismi di rinvio nell’avere un figlio, talvolta trasformato in definitiva rinuncia, che hanno portato le donne italiane ad esprimere in pochi decenni una fecondità ridotta del 50%, con un sensibile innalzamento dell’età di ingresso alla maternità accompagnato da un consistente taglio degli ordini di nascita superiori al secondo e spesso anche al primo.
Non dobbiamo dimenticare che è da ben 38 anni (dal lontano 1977) che in Italia il numero medio di figli per donna, il cosiddetto "tasso di fecondità totale", risulta inferiore alla soglia richiesta per assicurare la semplice sostituzione tra la generazione dei genitori e quella dei figli. A testimonianza di un segnale di crisi che viene da lontano e che è profondamente legato alla dinamica del ciclo familiare: la fecondità da noi è interna al matrimonio in quattro quinti dei casi, là dove in molti Paesi europei si è prossimi a uno su due.
Aver dilatato la permanenza dei giovani in famiglia ha fatto sì che si siano modificati anche i tempi che ne cadenzano gli eventi successivi: si studia più a lungo, si trova il primo impiego più tardi, si esce a fatica dal nucleo di origine, si ritarda il matrimonio e quindi il primo (e spesso unico) figlio arriva in molti casi ben oltre i 30 anni. Così, per quanto la fecondità in età "matura" sia oggi abbastanza rilevante, essa non basta a recuperare il contributo mancante delle età più giovani: avere figli più tardi significa inevitabilmente averne meno.
Allo stesso modo, non basta a compensare il calo della fecondità delle donne italiane il pur significativo contributo che da alcuni anni proviene dalle famiglie straniere. L’apporto di queste ultime – circa 80 mila nati nel 2012, scesi peraltro a 72 mila nel 2014 – è certamente importante ma non va affatto visto come risolutivo per invertire le dinamiche in atto.
Anche perché i dati mostrano come l’adattamento della popolazione immigrata al modello riproduttivo della società ospite proceda a ritmo veloce. Se infatti nel 2008 il valore medio della fecondità tra le straniere era ancora stimato in 2,65 figli per donna, nel 2012 era già sceso a 2,37 e, secondo la stima più recente, è scivolato sotto la soglia dei due figli (1,97 nel 2014). La verità è che la prevista "rivoluzione delle culle", che qualcuno teorizzava sull’onda dell’immigrazione, si è rivelata una falsa aspettativa. L’esperienza ha chiaramente dimostrato che la bassa fecondità non ha nazionalità quando si condividono le ben note difficoltà nel far crescere la famiglia.
L’adattamento degli stranieri al modello riproduttivo italiano appare progressivo e non sorprende, viste le condizioni di contesto particolarmente difficili per coppie in cui spesso lavorano entrambi i partner e che, diversamente da quelle italiane, difficilmente possono contare su altri familiari per la cura dei figli. Contenere la fecondità rappresenta dunque una "strategia difensiva" anche da parte della popolazione straniera.
È un altro segnale inequivocabile che i dati statistici consegnano alla società e a chi, al suo interno, ha la responsabilità di decidere gli ambiti di intervento e le azioni con cui operare per il bene comune. Il confine di mezzo milione di nascite è dietro l’angolo, cercare di contrastarlo appare doveroso e forse ancora possibile; se lo si vuole veramente.