1/ Quel pastore, tu, io e il bambino (I personaggi del presepe e le nostre storie/1), di Alessandro D’Avenia 2/ Il pastore addormentato e quello meravigliato (I personaggi del presepe e le nostre storie/2), di Alessandro D’Avenia 3/ Baldassarre il 'mago' d’Africa, di Franco Cardini 4/ I re magi (dal sito di Palazzo Medici a Firenze)
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1/ Quel pastore, tu, io e il bambino (I personaggi del presepe e le nostre storie/1), di Alessandro D’Avenia
Riprendiamo da Avvenire del 6/12/2015 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2015)
I santi hanno sempre risolto plasticamente un problema: saldare umano e divino. Imitatori di Cristo, perfetto Dio e perfetto uomo, riuscirono nella loro vita a ripresentare quell’equilibrio tra cielo e terra, tra spirito e corpo, tra mani e pensieri, che risolve tutte le crisi umane.
Così Francesco, otto secoli fa, inventava il presepe proprio per unire spirito e corpo e fare memoria viva del mistero dell’incarnazione. Dio era venuto in un recinto, presepe vuol dire ciò che ha dinanzi ( prae-) un recinto, siepe (- sepes): la mangiatoia.
Dio viene nel Recinto del Mondo, confina il suo infinito ed eterno fino a sfinirlo, per concedere allo spazio e al tempo finiti di superarsi e trascendersi, dalle stelle alla stalla e ritorno.
La teologia esistenziale di Francesco rendeva permeabile ai sensi dei suoi contemporanei ciò che dodici secoli prima Dio aveva reso permeabile, una volta per tutte, agli uomini di tutti i tempi, incarnandosi: facendo il presepe Francesco ripeteva l’iniziativa di Dio, facendo risuonare in un piccolo spazio della sua terra quello che Dio aveva fatto venendo nel piccolo spazio della sua Terra.
Il rito del presepe è infatti un rito di ri-creazione: dà gioia e materialmente rifà la storia della salvezza, facendola uscire dalle mani dell’uomo.
Nella mia terra, la Sicilia (Terra di Meraviglie e non solo di altre 'M' come sostenuto recentemente da alcuni) ci furono le mani di un uomo, nel 1600, che si dedicarono all’attività di scultore proprio per questa ri-creazione: Giovanni Antonio Matera, operante fra Trapani e Palermo, soprannominato dai suoi concittadini Mastru Giuvanni lu Pasturaru, scolpì presepi e soprattutto pastori, che in miniature di 20-30 centimetri confinavano nell’arte scultorea del barocco siciliano l’essenza del mondo. Ne rimase impressionato persino il principe Ludovico di Baviera che, nel suo viaggio in Sicilia a inizio ’800, fece incetta di quei pastori, pezzi unici, tanto che il figlio Massimiliano II li collocò nel Museo nazionale di Baviera.
Anche io quando ero bambino sperimentavo questa forza 'ricreativa' nel fare il presepe. Era il rito che scandiva il nostro Avvento (lo spirito ha bisogno della materia), all’inizio del quale i genitori ci portavano in escursione in montagna, alla ricerca del muschio fresco nel bosco di San Martino delle Scale.
Bisognava essere attenti a scovare i tappeti di muschio più ampi, così da averne pochi pezzi compatti, che rendevano il presepe più bello. Dovevamo aver cura di staccarlo, meglio dalle rocce che dagli alberi, senza rovinarlo, scegliendo quello con meno terriccio. Poi veniva il rito della pulitura e dell’essiccazione. Solo allora si poteva stenderlo sulla base di polistirolo coperta di giornali e cominciare la creazione di quel mondo in miniatura, in cui era rappresentato il gioco che Dio fece col Mondo alle origini, sapendo che sarebbe stato il recinto dentro cui avrebbe giocato il Verbo fatto Bambino.
La Creazione non era altro che il Presepe, la camera del Bambino. E qui la storia di quello scultore siciliano del 1600 si intreccia con la mia, perché mentre il muschio si asciugava andavamo a comprare un pastore nuovo. Erano pastori grandi, tra i venti e i trenta centimetri, di legno.
Ogni anno, dato il costo, ne compravamo solo uno, da un artigiano che si dedicava soltanto a questo (ora non esiste più). I pastori imitavano quelli della tradizione siciliana, tra i quali quelli inventati da Matera, che scolpiva su legno di tiglio le parti del corpo e lo scheletro, sul quale sovrapponeva, con la tecnica della 'tela e colla', vesti e oggetti caratterizzanti il personaggio.
Per me, bambino dotato di grande fantasia, era un vero e proprio avvento: costruivamo il mondo da capo, perché il Natale accadesse, mescolando gli elementi vivi del creato, come il muschio, a quelli verosimili dell’arte umana, le statue del presepe. Tutto si indirizzava verso una perfetta sintesi. Uno dei pastori inventati da Matera era il 'pastore che si toglie la spina dal piede', nel quale mescolava l’eco colta dello Spinario di età ellenistica e il gesto realistico del pastore che, recandosi di corsa verso la Grotta dell’Annuncio, si ferisce proprio su quel terreno che imitavamo con il muschio ancora fresco e profumato.
Vorrei dedicare questa prima puntata narrativa sul presepe proprio a questo personaggio e al muschio. Il Creato è una delle due strade – l’altra è la Scrittura – che Dio ha battuto per farsi trovare, qualcosa che già il mondo pagano sapeva, come testimonia la risposta di Aristotele a quel tale che gli chiedeva dove avesse imparato le verità che spiegava: «Nelle cose, poiché esse non mentono».
La terra non mente, il muschio non mente (indica sempre il Nord, perché cresce sulla parte più umida e fresca degli alberi). Il pastore che si toglie la spina lo sa: la strada per raggiungere la grotta è il Creato, da contemplare, conoscere, coltivare, custodire. Ma quel Creato sa anche difendersi, irto di spine, resiste alla trasformazione e coltivazione, soprattutto se sconsiderate, o addirittura può irretire con i suoi rovi, ferire fino ad avvelenare.
Per questo, come quel pastore, proprio mettendosi in cammino d’Avvento, si sentirà l’urgere della spina che ferisce la nostra carne, che ci ricorda che la nostra umanità è fragile e che per accostarci dobbiamo prima voler eliminare la spina che ci affligge, mostrare la ferita perché venga curata. Le spine estirpate verranno tutte raccolte e intrecciate per una corona regale, il nostro dono al Re che viene come Bambino, la Corona che ha voluto accettare perché quel pastore, tu e io, diventassimo Re.
2/ Il pastore addormentato e quello meravigliato (I personaggi del presepe e le nostre storie/2), di Alessandro D’Avenia
Riprendiamo da Avvenire del 13/12/2015 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2015)
Il Presepe è il Mondo. Dio fece il Presepe del Mondo perché suo Figlio un giorno vi abitasse. L’uomo, creando il presepe, ricrea se stesso e scopre l’essenza di quel mondo che è chiamato ad abitare, coltivandolo e custodendolo. Lo sapeva bene Giuseppe Antonio Matera, grande scultore di presepi e pastori del barocco siciliano, inventore di personaggi che entrarono nella tradizione del presepe locale. Se domenica scorsa ho parlato del muschio e del pastore che si toglie la spina dal piede, adesso vorrei soffermarmi su altri due pastori del presepe siciliano, posto che nei personaggi del presepe è l’uomo di tutti i tempi che si rivela, con i suoi pregi e i suoi difetti.
Così troviamo adagiato da qualche parte il pastore addormentato, detto Susi Pasturi (susirisi è il verbo siciliano che indica lo svegliarsi e levarsi), e ben dritto da qualche altra il cosiddetto Sbaundatu/Scantatu ra stidda, il pastore a bocca aperta che guarda o indica la Stella, colto da una meraviglia incontenibile (in altre tradizioni è un personaggio femminile di nome Meraviglia).
Mi piace pensare a questi due personaggi come a uno solo, colto in due momenti diversi. Il sonno tranquillo del primo, meritato riposo notturno di chi ha lavorato tutto il giorno e che proprio in quel riposo cerca la cura di una vita spesso piena di dolore, noia, ripetitività, quella che il pastore di Leopardi conosceva bene: «Se tu parlar sapessi, io chiederei: / Dimmi: perché giacendo /A bell’agio, ozioso, / S’appaga ogni animale; / Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?». Il pastore dormiente sa che quel riposo non basta mai, gli manca sempre qualcosa capace di riempire di meraviglia la vita, di gioia e di riposo il lavoro stesso, tanto da risolvere il grande enigma dell’esistenza: esiste qualcosa capace di rendere il lavoro riposo, la fatica gioia, le ore del giorno pace?
Quel pastore ci rappresenta quando vorremmo fuggire dall’agone del mondo che si è fatto troppo arduo, quando nel cuore non c’è pace, l’amore degli altri non ci raggiunge, e ci sentiamo soli anche in mezzo alla folla. Gli altri ci toccano, ma la nostra parte più intima non è toccata dalla grazia, dalla bellezza, dalla gioia. Meglio dormire e aspettare il sonno eterno («poi stanco si riposa in su la sera: / Altro mai non ispera», rincara Leopardi), morire o dormire? Entrambe sono esperienze che si fanno in orizzontale, dormire ci prepara alla posizione definitiva. Eppure nella notte oscura del nostro cuore, della nostra vita quotidiana può levarsi una stella, una novità, una notizia che rinnova tutto, che accende una speranza dentro la paura.
Ai primordi della letteratura occidentale Omero ci regala una delle sue più belle similitudini, che sembrano descrivere il nostro pastore 'spaventato', 'meravigliato', dalle stelle: «Come quando le stelle nel cielo, intorno alla luna che splende, / appaiono in pieno fulgore, mentre l’aria è senza vento; / e si profilano tutte le rupi e le cime dei colli e le valli; / e uno spazio immenso si apre sotto la volta del cielo, / e si vedono tutte le stelle, e gioisce il pastore in cuor suo» ( Iliade, VIII, 555-560). Il pastore trova un motivo per essere verticale, attraverso la gioia del cuore, provocata dalla meraviglia del dispiegarsi del firmamento, si sente chiamato a essere verticale, c’è una forza di gravità che spinge al contrario, chiama verso l’alto, riempie di bellezza la fatica quotidiana. Non è forse quello che Dio fa sperimentare ad Abramo, quando lo invita a uscire dalla sua tenda per mettersi in viaggio, gli dice: «Esci fuori, guarda il cielo». La sua discendenza sarà superiore al numero delle stelle. Abramo viene risvegliato dal suo sonno, dal suo ristretto giro di cose e chiamato a una pienezza nuova, a testimonianza della quale Dio gli mostra il cielo stellato, nulla più («E quando miro in cielo arder le stelle; /Dico fra me pensando: /A che tante facelle»?). Allora il pastore Abramo si mette in viaggio, la volta celeste lo invita al volo, non folle e non frutto di semplice immaginazione: «Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi, / E noverar le stelle ad una ad una... / Più felice sarei, dolce mia greggia, / Più felice sarei, candida luna».
Quel 'forse' viene messo da parte e si fa certezza, il pastore si sveglia e veglia, attende qualcosa e diventa attento, attenzione e attesa hanno la stessa radice, si mette in cerca dei segnali che facciano scoprire l’antidoto al tedio, alla noia, alla fatica, che diano senso anche alla fatica, alla noia e al tedio. La vita del pastore è rinnovata da dentro e costantemente, il piccolo diventa immenso. Se il Natale non desta in noi questa meraviglia rimarremo dormienti come Susi Pasturi, non ci renderemo conto di nulla e rimarremo chiusi nel nostro ristretto giro di cose, che poi si rovinano e finiscono con l’annoiarci. Eppure sappiamo quanto si parli di necessità di 'vegliare' nel Vangelo, sembra quasi essere l’invito più pressante, tra vergini stolte, servi addormentati o pigri, discepoli oppressi dal sonno.
L’avvento è l’annuale occasione che ci è data per scoprire il segreto delle stelle, vero fondamento (firmamento vuol dire questo) della gioia stabile del cuore, promessa scritta nelle cose: c’è una Stella in arrivo, per cui vale la pena essere verticali. E riposare è necessario solo per essere più pronti al cammino del giorno dopo. Camminare e riposare saranno un unico gesto festivo, e la ferita della noia, del tedio, della paura, della stanchezza, si rimarginerà poco a poco, grazie alla Stella. E sapere definitivamente che non «è funesto a chi nasce il dì natale».
3/ Baldassarre il 'mago' d’Africa, di Franco Cardini
Riprendiamo da Avvenire del 6/1/2011 un articolo di Franco Cardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2015)
Una vecchia tradizione, ancora viva in molti paesi tra Mitteleuropa e Balcani ma non ignota nemmeno nel Settentrione italiano, vuole che le tre lettere CMB, dipinte o scolpite sulle porte o sulle pareti domestiche, proteggano gli abitanti della casa e portino loro fortuna.
Si tratta delle iniziali dei nomi dei "tre re magi": Caspare (o Gaspare), Melchiorre, Baldassarre. Oggi tutti sanno che i misteriosi saggi venuti dall’Oriente secondo il vangelo di Matteo erano tre, ch’erano re, che i loro doni al Bambino erano oro, incenso e mirra, che erano di età diversa. Queste cose le sanno anche i bambini: anzi, cerchiamo di fare in modo che non le scordino. Il fatto è tuttavia che l’evangelista Matteo, tutte queste notizie, mica ce le dà.
Egli si limita ad affermare, nel suo testo greco (quello aramaico non ci è pervenuto), che di trattava di màgoi (sacerdoti persiani? O semplicemente indovini, ciarlatani?) venuti ef’anatolè (da oriente) e che portarono i tre tipi di doni che sappiamo. Ma non che fossero re, né quanti fossero, né come si chiamassero, né che età avessero. Tutte queste notizie ci pervengono dai vangeli apocrifi, di dubbia tradizione, taluni anche relativamente recenti.
Ma il tempo e la tradizione hanno consolidato e complicato i dati in nostro possesso, giungendo alla situazione che ormai conosciamo e che viene espressa in migliaia di rappresentazioni pittoriche e scultoree nonché nei nostri presepi. È anche piuttosto difficile attribuire ai magi i loro rispettivi nomi. Secondo il celebre mosaico di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, Baldassarre era il magio di mezza età, Melchiorre il giovane, Caspare il vecchio.
Un dipinto catalano dell’XI secolo chiama invece Caspare quello di mezz’età, Baldassarre il giovane, Melchiorre il vecchio. Nella lunetta del battistero di Parma, Melchiorre è il giovane, Baldassarre quello di mezza età, Caspare il Vecchio (come a Ravenna). Insomma, si tratta di tradizioni incerte. Ma nel paese dove oggi, in senso assoluto, i "tre re" sono più celebri e cari alle consuetudini dell’Epifania, la Spagna – nelle grandi città nelle quali si organizzano ancora splendide feste e cavalcate tra il 5 e il 6 gennaio –, il più popolare è il giovane Baldassarre, ch’è quello che porta i doni ai bambini.
E ha un’altra particolarità: è nero. Lo si definisce, difatti, moro (un aggettivo d’origine etnica, indicante in origine gli abitanti della Mauritania, e passato in castigliano a indicare, in genere, prima gli arabo-saraceni, los moros, appunto, quindi il colore bruno della loro pelle): e dalla fine del Medioevo lo si raffigura dotato dei caratteri etnici degli africani, cioè non solo con la pelle nera, ma anche con i capelli crespi, il naso camuso, le labbra turgide. Quel che insomma da noi, prima dell’avvento del politically correct, si sarebbe detto "un negro".
Da dove proviene quest’usanza? In realtà, essa è venerabilissima, però complessa. Già un testo esegetico altomedievale sostiene che uno dei magi era fuscus, di pelle scura quindi; quando a partire da circa il XII-XIII secolo si volle vedere nei tre magi i sovrani dei tre continenti e delle tre razze umane, al più giovane si affidò il ruolo di re dell’Africa e si attribuì alla sua epidermide il colore nero.
Ma non fu così facile. Fino dalle Passiones dei martiri del II-III secolo, i "neri" (egizi, nubiani, etiopi) erano per il loro aspetto e il loro colore associati al diavolo. Neri erano raffigurati sovente gli infedeli al tempo delle crociate, come si vede in un mosaico di Vercelli e in molte miniature che narrano degli scontri epici tra guerrieri cristiani e saraceni. Anche lì, l’equivalenza nero-infedele-mostruoso-demoniaco era evidente. La Chanson de Roland proclama che i nemici della fede sono «neri e cornuti come diavoli».
Solo nel Basso Medioevo ebbe speciale impulso il culto di un gruppo di martiri-soldati dell’età di Diocleziano, la Legione Tebana, che provenivano dalla città di Tebe nell’Egitto meridionale, oggi Nubia. Si trattava quindi di nubiani, dalla pelle nera. Il nome del loro capo, ignoto, fu quindi Mauritius, cioè "il Mauritano", "il Nero". Inoltre, cominciavano allora a circolare notizie riguardanti il misterioso imperatore degli etiopi, il Negus, con il quale s’identificava la favolosa figura del "Prete Gianni", di cui parla anche Marco Polo, ma che fino ad allora era stato situato in Asia centrale.
Queste nuove tradizioni, che portavano gli uomini dalla pelle nera all’attenzione della cristianità europea, determinarono l’inserimento di uno di loro nel corteo dei re magi: come re d’Africa e della "razza camita", e in genere il più giovane dei tre. Il giovane "mago nero" è figura costante nelle scene d’adorazione medievali e rinascimentali più celebri. Tra esse, due del Mantegna e una nel "Trittico dell’Adorazione" di Hieronymus Bosch oggi conservato al Prado.
Con lo sviluppo del colonialismo e l’avvio della "tratta degli schiavi", anche i "santi-negri" si moltiplicarono, assumendo una funzione di patronato degli sventurati venduti come merce umana. Ma già il mosaico della chiesa dei Trinitari di Roma mostrava il Cristo in trono tra due schiavi, uno cristiano dalla pelle bianca e uno musulmano di color nero. Del resto, le avventure del mago Baldassarre non finiscono qui. La nobilissima famiglia provenzale dei Del Balzo, trapiantata in Italia meridionale, lo assunse a suo capostipite e pose la stella dei magi sulla sua arme araldica.
Tra Quattro e Cinquecento, ai magi si conferirono anche – com’era giusto, trattandosi di re – stemmi e bandiere. Nel Cinque-Settecento, i magi si videro abbigliati da ambasciatore turchi persiani, come ancora si riscontra negli splendidi presepi napoletani. Insomma, una tradizione inesauribile a illustrare un "semplice" testo evangelico che nell’arco dei secoli si è trasformato nella più bella leggenda di tutti i tempi.
4/ I re magi (dal sito di Palazzo Medici a Firenze)
Riprendiamo dal sito di Palazzo Medici a Firenze – http://www.palazzo-medici.it/mediateca/it/Scheda_I_magi; i Magi sono patroni della famiglia de’ Medici - alcune note sui Re magi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2015)
Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei magi (particolare con uno dei tre magi
(forse l'imperatore di Costantinopoli Giovanni Paleologo, venuto in Italia
a chiedere la crociata contro i Turchi che stavano per espugnare
Costantinopoli, offrendo insieme al patriarca l'unità della Chiesa nel
Concilio di Ferrara-Firenze), Palazzo Medici Riccardi, Firenze, 1459
La tradizione cristiana
La vicenda dei magi nel corso dei secoli ha conosciuto una particolare diffusione ricoprendo un posto privilegiato nella tradizione cristiana: nonostante la brevità del racconto nel vangelo canonico, fin dal I-II secolo tali personaggi sono stati investiti da una serie di caratteri e attributi, che ne hanno arricchito la fisionomia e il loro significato rendendoli protagonisti di una affascinante leggenda. La tradizione dei magi si basa da un lato su vari riferimenti ai libri profetici e dall'altro su molti testi apocrifi che amplificano la vicenda. Ad essa hanno poi concorso gli scritti dei Padri della Chiesa e gli agiografi, che hanno attribuito ai magi innumerevoli simboli.
La codificazione dei magi, del loro numero, dei tratti fisionomici, dei nomi, della loro provenienza - è passata attraverso un processo secolare e si è verificata abbastanza tardi.
Raffigurati già nelle catacombe (quelle di Priscilla, II-II sec.) con i costumi d'origine persiana propri degli adoratori di Mitra con una corte tunica, pantaloni aderenti e berretto frigio - in atto di portare doni, in epoca bizantina i magi hanno assunto i connotati di "re". Tale interpretazione - già invalsa nel VI secolo in Oriente e almeno dall'XI in Occidente - forse si rifaceva alle profezie che annunciavano l'adorazione del Messia da parte di alcuni re (Is 60, 3; Salmi 72, 10 e 68, 29). Non fu mai messa in discussione fino alla riforma protestante (XVI sec.).
Altra questione che ha interessato gli esegeti è il numero dei magi. Secondo una cronaca orientale del 774-775 i magi sarebbero stati dodici, mentre in alcune catacombe sono raffigurati anche in numero maggiore o minore.
Ma la tradizione cristiana ha codificato l'immagine dei tre re, chiamati in occidente Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Nell'VIII secolo il venerabile Beda descriveva Melchiorre come un vecchio dai capelli bianchi con una folta barba e lunghe chiome ricciute, Gaspare come un giovane imberbe e Baldassarre di carnagione olivastra e con una barba considerevole. Nel Milione, intorno al 1270, Marco Polo racconta di aver visitato la tomba dei tre re magi nella città di Saba, a sud di Teheran in Persia e riporta i loro nomi: Beltasar, Gaspar e Melquior.
La teoria di una comune provenienza dei magi (fossero stati essi caldei, arabi o persiani, o ancora tartari, indiani o etiopi) venne col tempo soppiantata dalla tradizione delle tre diverse terre di appartenenza. Già secondo la tradizione armena i magi erano rispettivamente re di Persia, India e Arabia, rappresentanti di tre diverse razze discendenti dai tre figli di Noè. A seguito delle prime scoperte geografiche e in relazione al contatto con culture lontane, gli esegeti occidentali hanno considerato i tre re provenienti dai tre continenti allora conosciuti: Europa, Asia, Africa. Per questo i magi sono spesso raffigurati con tratti somatici e abbigliamenti, che qualificano tali origini.
La tradizione cristiana dei magi così formulatasi in Occidente è stata definitivamente codificata fra Due e Trecento dai testi agiografici di Jacopo da Varazze (Legenda Aurea) e di Giovanni da Hildesheim (Historia Trium Regum).
Simboli dei magi
Fin dal IV secolo, con un inno del poeta iberico Prudenzio, si attribuirono significati precisi ai doni dei magi: l'oro ricordava la regalità di Gesù, l'incenso usato nel rituale religioso la sua divinità e la mirra - unguento con cui si cospargevano i corpi prima della sepoltura - la sua natura umana e la sua futura morte in croce.
Del resto la triade dei re magi col tempo ha assunto innumerevoli significati, spesso evidenziati nella rappresentazioni pittoriche della Adorazione o del Viaggio dei Magi, soprattutto dal XIV secolo: i tre personaggi diventano così simboli, non solo dei tre continenti conosciuti, ma anche delle età dell'uomo (giovinezza, maturità, vecchiaia), delle parti del giorno (alba, mezzogiorno, sera), del tempo cosmico (passato, presente, futuro) e altro ancora.
Morte, sepoltura, celebrazione dei magi
Secondo la tradizione, i magi morirono in Oriente e i loro corpi furono rinvenuti da Elena, madre dell'imperatore Costantino. Elena ordinò di trasferire i resti a Costantinopoli nella chiesa di Santa Sofia.
Eustorgio, vescovo di Milano (IV o VI secolo), ottenne dall'imperatore di Oriente di traslare le reliquie nella sua città. Queste sarebbero giunte chiuse nel sarcofago di età romana ancora presente nella cappella dei Magi nella chiesa milanese.
Nel 1164 Federico Barbarossa, che sconfisse i milanesi, pretese di trasferire i resti dei Magi a Colonia (23 luglio). Tuttora le reliquie sono conservate in reliquiario del XIII sec. sull'altare maggiore della cattedrale di Colonia. Nel 1904, l'arcivescovo di Colonia cedette alcuni frammenti delle spoglie dei magi a Sant'Eustorgio a Milano.