1/ La barbarie dell’Arabia Saudita e il silenzio dell’Italia, di Roberto Toscano 2/ Le donne al voto vincono comunque in Arabia Saudita, di Camille Eid
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1/ La barbarie dell’Arabia Saudita e il silenzio dell’Italia, di Roberto Toscano
Riprendiamo da La stampa del 3/12/2015 un articolo di Roberto Toscano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/12/2015)
Siamo contro la pena di morte, ovunque. Per l’Europa l’abolizione della pena di morte non è soltanto un requisito per l’adesione all’Unione, ma addirittura un tratto identitario, una componente essenziale dei propri principi. E l’Italia, con una coerenza che ci fa onore, esercita da anni, soprattutto in ambito Nazioni Unite, una forte leadership nella battaglia per la moratoria delle esecuzioni in un’ottica esplicitamente abolizionista.
Si tratta di una lotta di civiltà paragonabile a quella condotta in passato contro la schiavitù, e proprio per questo siamo fiduciosi che la tendenza verso l’abolizione sia inarrestabile. In attesa del giorno in cui la pena di morte possa passare alla storia risulta tuttavia moralmente ineludibile non solo opporsi alla pena capitale per ragioni di principio, ma denunciare anche, con coerenza e coraggio politico, le offese ai diritti umani che derivano sia dalle modalità delle esecuzioni sia dai reati per cui la pena di morte viene decretata. Il caso più clamoroso è quello dell’Arabia Saudita, dove le esecuzioni vengono eseguite nella capitale mediante decapitazione sulla pubblica piazza (sinistramente nota come «chop chop square») in un osceno spettacolo popolare senza umanità, senza dignità, senza rispetto.
Quello che è ancora più osceno è l’elenco dei crimini punibili nel Regno saudita con la pena di morte. Come altri Paesi, l’Arabia Saudita prevede la condanna a morte dei colpevoli di omicidio o per traffico di droga, ma in questo caso l’elenco completo dei reati capitali è a dir poco raccapricciante: si va dall’adulterio all’omosessualità; dall’apostasia alla blasfemia; dall’idolatria alla stregoneria.
Negli ultimi tempi, alcuni casi hanno colpito particolarmente l’opinione pubblica mondiale: quello di un giovane saudita, Ali al-Nimer, condannato ad essere decapitato e successivamente messo in croce, e lì lasciato marcire, per avere partecipato nel 2012, quando aveva 17 anni, a manifestazioni di protesta per l’arresto del padre, un clerico sciita anche lui condannato a morte; la condanna alla lapidazione di una donna per adulterio, commesso con un uomo che invece è stato condannato soltanto a cento frustate; la condanna a morte per apostasia nei confronti di un poeta palestinese, Ashraf Fayadh, per avere, nei suoi versi, «insultato Allah e il Profeta» e avere «diffuso l’ateismo».
Ma ad essere clamorosi non sono solamente questi veri e propri eccessi di barbarie retrograda, ma anche i nostri silenzi. Nostri dell’Europa, nostri dell’Italia, pur di solito così attiva nell’opporsi per principio alla pena di morte.
Certo, l’Arabia Saudita è un Paese importante, un partner economico di grande rilievo, soprattutto in materia energetica. Ma il nostro silenzio minaccia non solo di essere in contrasto con il nostro impegno per l’abolizione della pena di morte, ma di farci perdere credibilità. I grandi Paesi, come aspiriamo ad essere, non hanno solo grandi interessi, ma anche grandi valori, e quanto meno fra interessi e valori dovrebbe esserci una tensione. Rinunciare ai secondi, ce lo dicono il realismo e la storia, non garantisce di certo i primi.
E poi, come è possibile opporsi alla decapitazioni di «infedeli» da parte dello Stato Islamico e passare sotto silenzio le esecuzioni di «apostati» da parte dell’Arabia Saudita? Entrambi citano fra l’altro, come fonte, la stessa interpretazione radicale, wahabita, della Sharia.
Infine il nostro silenzio significa che diamo per scontato che il Paese debba rimanere fermo negli aspetti più retrogradi di antiche tradizioni. In questo modo non rendiamo di certo giustizia a una popolazione, soprattutto giovane, in cui comincia ad affiorare l’aspirazione a una modernità che non si limiti alla sfera dei consumi e della tecnologia ma comprenda un’evoluzione della società basata sul rispetto delle tradizioni ma non dalla loro feroce ed autoritaria imposizione da parte di regimi prima o poi destinati - dovremmo ormai saperlo - ad essere sovvertiti, proprio per il loro rifiuto di cambiare, da violenti sommovimenti.
2/ Le donne al voto vincono comunque in Arabia Saudita, di Camille Eid
Riprendiamo da Avvenire del 13/12/2015 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/12/2015)
LA GRANDE SVOLTA. Donne con il volto coperto depositano
le schede in un seggio della capitale saudita Riad (Epa)
Evento straordinario in Arabia Saudita. Per la prima volta nella storia del regno, le donne hanno potuto partecipare ieri in qualità sia di elettrici che di candidate alle elezioni municipali. Sono 978 le cittadine saudite presenti nelle liste e che concorreranno con 5.938 colleghi uomini. In ballo ci sono 2.106 incarichi, che rappresentano i due terzi dei seggi nei 284 consigli comunali, mentre un altro terzo (altri 1.053 incarichi) verrà nominato direttamente dal governo. Più di 130.000 donne si sono registrate per votare rispetto ai 1,35 milioni di uomini.
Durante la campagna elettorale, alle donne è stato consentito pronunciare discorsi solo dietro paraventi o facendosi rappresentare da un uomo. Anche la consultazione elettorale rappresenta un evento raro per l’Arabia Saudita. Quella di ieri è solo la terza chiamata al voto nella storia del regno. Per 40 anni, dal 1965 al 2005, non ci sono mai state elezioni. La decisione di permettere alle donne di votare era stata presa dal re Abdullah, morto lo scorso gennaio.
Poiché è proibito alle saudite guidare, il servizio di taxi on line Uber ha offerto passaggi gratis alle donne dirette ai seggi, con l’obiettivo di sostenere l’affluenza alle urne al femminile. «Avevamo bisogno di giocare un ruolo, perché abbiamo trovato ciò che veramente emancipa le donne», ha dichiarato Rasha al-Turki, capo esecutivo di al-Nahda (Rinascimento), un gruppo per l’emancipazione delle donne saudite che ha promosso l’iniziativa con Uber.
Una precedente apertura nel lento cambiamento aveva avuto luogo nel 2013, quando 30 donne sono state nominate tra i 150 componenti del Consiglio consultivo (Shura, in arabo). Il decreto di re Abdullah aveva allora parlato di «pieni diritti di partecipazione» ai dibattiti, al pari dei colleghi maschi, ma esigeva dalle donne il rispetto delle regole fissate nella sharia, compreso il velo, e quello di sedersi in «posti riservati» alle donne, ai quali potevano accedere da un’entrata speciale. Se è difficile vedere una donna tra i nuovi eletti – i risultati saranno resi noti oggi – molti vorrebbero vedere rispettata una minima “quota rosa” tra gli oltre mille nominati dalle autorità prima di parlare di un cambiamento.
Infatti, la strada per vedere i diritti della donna pienamente riconosciuti in Arabia Saudita è ancora lunga. Questi diritti sono ancora definiti secondo l’interpretazione dell’istituzione religiosa wahhabita (uno dei due pilastri del regno, accanto alla dinastia saudita) che nega all’universo femminile molte libertà fondamentali. Il regno è ancora l’unico Paese al mondo che vieta alle donne di guidare. Ci sono voluti, inoltre, sforzi enormi da parte del Comitato olimpico internazionale per convincere il governo di Riad a inserire per la prima volta donne saudite nella lista delle atlete dai mandare ai Giochi di Londra 2012. Un decreto, entrato in vigore nel 2012, ha vietato ai titolari dei negozi di articoli femminili, come cosmetici e lingerie, di assumere personale maschile, portando sì all’ingresso di molte donne nel mondo del lavoro, ma anche alla chiusura di centinaia di piccoli esercizi. Tuttavia, un milione e 700mila donne del regno sono disoccupate, a dispetto del fatto che circa la metà di loro abbia un grado di istruzione universitario.
Difficilmente saranno elette al primo turno, perché non sono previste «quote rosa». Ma in molti sperano nelle nomine delle autorità che decidono un terzo dei consigli locali.