Il rapporto cresima ed eucarestia e la dimensione ecclesiale dell’iniziazione cristiana. Alla ricerca dell’iniziazione perduta, di Paolo Tomatis
Riprendiamo sul nostro sito la traccia della relazione di don Paolo Tomatis, Direttore dell'Ufficio liturgico diocesano di Torino e Membro della Consulta dell'Ufficio Liturgico Nazionale, che aveva come titolo originario “Alla ricerca dell’iniziazione perduta”, tenuta nel corso del Seminario di studi sul catecumenato “A 10 anni dalla seconda nota sull'Iniziazione Cristiana”, organizzato dall’Ufficio catechistico nazionale in Roma, Villa Aurelia, 7-8 settembre 2009.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/12/2009)
Che dire di nuovo dal punto di vista teologico sull’IC dei fanciulli e dei ragazzi che non sia già stato detto? Da più parti e a più riprese sono stati sottolineate e approfondite le dimensioni teologiche fondamentali dell’IC, quali emergono dall’ordo rituale degli adulti (RICA):
- la globalità di un cammino organico, integrale, graduale ed esperienziale, che inserisce la celebrazione dei sacramenti in una iniziazione complessiva alla vita cristiana;
- l’ecclesialità del cammino e l’importanza della comunità quale soggetto e contesto dell’IC;
- il coinvolgimento personale ed effettivo dei soggetti, nell’attenzione antropologica alla loro storia personale e sociale;
- il primato dell’iniziativa di Dio (che si traduce nel primato della Parola e nella decisività della celebrazione sacramentale);
- l’unitarietà dei tre sacramenti, intorno al principio eucaristico, fons et culmen della vita sacramentale.
L’impressione iniziale è quella di un discorso più bisognoso di una seria ed effettiva declinazione pratica che di un approfondimento teorico. Mai come in questo campo il cammino verso un nuovo modello sacramentale e pastorale passa attraverso la passione e il realismo degli esploratori (coloro che testimoniano che “si può fare”), più che la teoria pur necessaria dei cartografi che tracciano le rotte senza percorrerle (coloro che affermano “si deve fare”).
E tuttavia, là dove a muoversi non è più soltanto la singola comunità, ma l’intera Chiesa locale, come evidenziano le analisi riportate nel presente seminario, abbiamo la possibilità nuova di verificare concretamente – nel rapporto tra la teoria e la prassi – quelli che sono i punti fermi da ritenere acquisiti, i principi eventualmente ancora bisognosi di approfondimento, i nodi da sciogliere e i collegamenti necessari perché un elemento dell’IC non prevalga a scapito dell’insieme.
Rispetto alla griglia di interpretazione proposta per la lettura delle esperienze in corso (1. primo annuncio; 2. coinvolgimento famiglie; 3. unità e ordine dei sacramenti; 4. dimensione celebrativa; 5. inserimento nella comunità; 6. mistagogia), mi pare di poter riflettere in modo particolare su quattro dei sei punti, e precisamente sull’unitarietà dei sacramenti dell’IC, sul rapporto tra IC e modello di Chiesa, sul modello di IC da promuovere, sulla dimensione celebrativa e mistagogica.
1. L’ORDINAMENTO EUCARISTICO DELL’IC
Il primo punto sul quale è utile fare il punto riguarda l’unitarietà dei tre sacramenti dell’IC, intorno al fondamento e al riferimento eucaristico. A distanza di 10 anni come valutare la titubanza con cui il principio dell’unità è da una parte proposto con forza (2,18,19), dall’altra è “spuntato” nella possibilità della forma tradizionale (55)? Pazienza verso la storia recente (solo centenaria, ma intanto quasi secolare, e ancora ben radicata nell’immaginario iniziatico della religione civile), oppure mancanza di coraggio? Flessibilità pastorale o saggezza teologica di chi non intende decidere una volta per tutte e per sempre la natura dei singoli sacramenti, in modo particolare della Confermazione?
Intanto il fatto che da qualche parte vi siano teologie della Confermazione non semplicemente funzionali al principio pedagogico della distensione temporale, ma plausibili dal punto di vista teologico [1], è invito ad una certa cautela nell’affermare: “Tutto sbagliato”, a proposito dell’ordine consueto (B-E-C), come se la recente storia della prassi dell’IC - e l’attuale disposizione canonica e catechistica della CEI - fosse il frutto di un malinteso, da dimenticare in fretta. Una certa flessibilità in questo senso è utile per due motivi fondamentali:
- per non attribuire alla celebrazione unitaria un peso decisivo, che non può avere se non nell’insieme di un nuovo modello complessivo; non basta insomma ritrovare l’ordine tradizionale, perché l’IC effettivamente inizi alla vita cristiana e della comunità;
- per “non strappare”, dare effettivamente spazio a differenti percorsi possibili, in linea con l’attuale varietà delle situazioni personali, familiari, e soprattutto sociali, e nella prospettiva di un ascolto attento di coloro che si avvicinano per i sacramenti.
Detto ciò, possiamo contare su alcuni segnali che incoraggiano verso una accoglienza sempre più condivisa e convinta del guadagno proveniente dalla prospettiva unitaria per la comprensione e la celebrazione dei singoli sacramenti. Il modo con cui ad esempio Sacramentum Caritatis 17 rilegge il battesimo e la Confermazione in riferimento al Mistero eucaristico è in questo senso oltremodo significativo:
“Se davvero l’eucaristia è fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa, ne consegue innanzi tutto che il cammino di IC ha come suo punto di riferimento la possibilità di accedere a tale sacramento […] Non bisogna mai dimenticare, infatti, che veniamo battezzati e cresimati in ordine all’eucaristia”.
“Veniamo battezzati e cresimati in ordine all’eucaristia”: la decisione con cui la tradizione occidentale ha da sempre custodito la celebrazione unitaria per gli adulti, insieme alla sicurezza con cui la tradizione ortodossa ha da un certo punto della storia in poi conferito i tre sacramenti dell’IC agli infanti, invitano a concentrare, anziché diluire; a cercare l’optimum (che struttura l’intero cammino attorno al cuore dell’eucaristia domenicale), anziché accontentarsi del bonum; ad essere più coraggiosi e decisi, almeno per quel che riguarda i fanciulli e i ragazzi che ricevono il battesimo (a quando un libro ufficiale dei catecumeni?).
È evidente come tale scelta debba far parte di un tutto coerente, perché non appaia come il vino nuovo versato negli otri vecchi di una pastorale inadeguata. La storia dei sacramenti ci ricorda a questo proposito come le pratiche sacramentali mutino nel riferimento diretto e concreto al mutare dei modelli ecclesiali, prima che dei modelli teologici [2]. Nel nostro caso specifico, la questione dell’ordine dei tre sacramenti dell’IC, e della giusta collocazione del sacramento della penitenza, è risolta nel riferimento essenziale alla civitas christiana, a quel modello ecclesiale che dando per scontata l’appartenenza alla fede e alla Chiesa sottolinea le dimensioni più personali del valore della “prima comunione” nel percorso di crescita del fanciullo. Nell’immaginario civile e religioso, il battesimo è cosa riguardante i bambini, l’Eucaristia nel percorso di IC è confusa (e lo sarà ancora per un po’ di tempo) con la “prima comunione”; quanto all’eucaristia domenicale nel cammino ordinario degli iniziati, conosciamo la fatica di modellare la coscienza e la forma pratica di un’effettiva comunità eucaristica (vale a dire un certo modo di percepire il senso della celebrazione eucaristica, di vivere la domenica e l’anno liturgico…), così che la “coppa della sintesi” mostri il volto di una comunità di iniziati.
Per iniziare alla fede eucaristica, occorre una effettiva comunità eucaristica: la cosa non appare affatto scontata. Un circolo virtuoso incoraggia i nostri sforzi, perché una Chiesa di iniziati sappia iniziare, e perché generando nuovi figli la Chiesa possa realmente rigenerare se stessa [3]. L’invito ad una proposta più coraggiosa relativa all’ordine dei sacramenti deve pertanto accompagnarsi ad una progressiva riscoperta dell’identità eucaristica della comunità cristiana, senza la quale il perfezionamento iniziatico domenicale scade a buona abitudine, la prima comunione rimane irrimediabilmente l’ultima, e la confessione una questione privata.
La Veglia Pasquale, punto di riferimento essenziale per l’IC di ogni età, costituisce in questo senso il luogo simbolico-sacramentale per eccellenza, nel quale emerge l’evidenza dell’identità eucaristica della Chiesa. Proprio la ricchezza e la complessità della Veglia pasquale, che non ammette improvvisazioni, ci ricorda che la questione pastorale dell’IC non è anzitutto una questione di catechesi o di strategie educative, ma di identità ecclesiale.
2. IC DEI FANCIULLI E MODELLO DI CHIESA
In questa prospettiva, possiamo rileggere il documento CEI e le sperimentazioni dell’IC dei ragazzi in relazione all’identità del soggetto ecclesiale all’origine del processo iniziatico e alla dimensione ecclesiale e comunitaria dell’esperienza della fede.
Chi è la Chiesa che concretamente inizia alla fede? Come si percepisce nei confronti di un mondo sempre più estraneo alla fede confessata, celebrata e vissuta? L’intentio della nota 7 non va sovradeterminata (l’esigenza di non dare i sacramenti in modo indiscriminato), ma va considerata attentamente nella misura in cui rischia di metterci dalla parte di chi è a posto e deve mettere un po’ di ordine e di serietà nel campo dei sacramenti (magari facendo un po’ di giustizia: siamo mica una stazione di servizio del sacro!). Così facendo, “la conversione spirituale” è per gli altri: a noi solo spetta al limite la “conversione pastorale”, per una comunicazione della fede più seria ed efficace. In realtà, la prospettiva missionaria dell’IC è kairos, segno del tempo e dello Spirito, che invita la comunità a rigenerarsi, generando “in un certo modo”.
L’impressione generale è che la dimensione ecclesiale dell’IC sia ancora troppo presupposta, data per scontata (26): si parla dell’inserimento nel gruppo (27), delle figure ministeriali implicate (28), del coinvolgimento della famiglia (29) [4], della comunità tutta chiamata ad intervenire e a partecipare al lavoro iniziatico, senza troppo soffermarsi sulla dimensione problematica di tale presenza e di tale partecipazione. La pratica di questi anni ci sta insegnando ad essere meno preoccupati della risposta dei fanciulli e delle famiglie e più del profilo e dello stile realmente comunitario della proposta! Di fronte al compito che spetta alla comunità cristiana, viene da chiedersi: dove è la comunità? E quali caratteristiche deve avere per aprirsi ad una mentalità di tipo catecumenale?
Il valore ecclesiogenetico dei sacramenti dell’IC è tale dove la “comunità” - qui concretamente intesa come il nucleo dei credenti battezzati che partecipano attivamente alla vita della comunità - si lascia continuamente rigenerare dal modello globale, organico dell’iniziazione. La capacità di iniziare alla fede i fanciulli e i ragazzi suppone una comunità parrocchiale in grado di offrire - prima e dentro i necessari cammini - un volto e una personalità, uno stile e un carattere definiti:
- una comunità capace di accogliere le persone all’insegna della gratuità (in un contesto sociale nel quale generalmente le relazioni sono strettamente funzionali) e della libertà (in un contesto pluralistico e tendenzialmente anti-istituzionale);
- una comunità appassionata del Vangelo, che sa “narrare” la propria esperienza di fede con parole al contempo universali (la fede della Chiesa) e singolari (la fede come esperienza viva), in un contesto nel quale il primato dell’esperienza individuale rischia di implodere su se stesso;
- una comunità “mistagogica”, capace di pregare, celebrare e di affascinare al Vangelo come Mistero (in un contesto aperto al versante “mistico” della fede);
- una comunità capace di fare “festa”, di offrire una “casa” e di stare sulla “strada”, cioè di vivere nel mondo, senza rinunciare alla propria identità;
- una comunità “esperta in umanità”, e dunque in grado di accompagnare ed evangelizzare i luoghi effettivi della vita, nelle sue tappe e elle sue situazioni fondamentali.
Da più parti, nelle sperimentazioni diocesane, si avverte il fatto che il vero problema dell’IC dei nostri ragazzi non è tanto quello di “convincere”, “motivare” genitori e ragazzi a fare un percorso nuovo, più affascinante e impegnativo: il vero problema è quello di aver fatto noi per primi questo percorso. Da qui la necessità di reiniziare le nostre comunità ai fondamentali della fede vissuta, celebrata, confessata, testimoniata. Perché questo accada, è necessario che la comunità sia anzitutto costituita da un “cuore pulsante”, vale a dire da un nucleo minimo di “iniziati” ad un senso di identità e appartenenza tanto forte quanto aperto, capace di sostenere la tensione tra la folla (il carattere popolare del cattolicesimo italiano) e i discepoli (il carattere esigente dell’Evangelo) che è tipica del compito missionario che ci attende.
È una tensione che può essere attraversata in modo fecondo solo sullo sfondo di un modello di Chiesa, che dia forma ad uno specifico stile ecclesiale. Il Concilio Vaticano II ci ha consegnato a questo proposito l’immagine di una Chiesa che si definisce come “sacramento” di comunione (“segno e strumento dell’unione intima con Dio e dell’unità con tutto il genere umano”: LG 1), nel riferimento congiunto al Mistero di Dio e alla storia degli uomini (LG), in un atteggiamento di ascolto, di rispetto della dignità dell’altro (DH), incarnazione e dialogo attento con le istanze del mondo dal quale essa si riceve (GS). Da queste direttrici provengono indicazioni preziose per una Chiesa che si pone di fronte alle istanze pluraliste, secolariste e soggettivistiche della società, in modo non “debole” e scoraggiato, né “forte” e settario, ma “umile”, nel custodire “gelosamente” la perla preziosa del Vangelo, e nell’offrirLa al contempo con generosità, gratuità e libertà. Non rappresenta forse l’Eucaristia la figura perfetta, il sacramento dell’umiltà di Dio e della Chiesa, dove coincidono massima disponibilità e massimo impegno (accesso generoso, ma serio, non indiscriminato alla comunione)?
Solo il volto di una Chiesa “umile” impedisce all’itinerario catecumenale di cadere nella trappola del “rigorismo” (di volta in volta morale o dogmatico) di fronte ad un mondo sempre più lontano, così da accogliere realmente l’altro, che si avvicina per mille motivi diversi, nella sua capacità di provocare un modo nuovo di dirsi e di proporsi: «ogni epoca ed ogni cultura costituiscono una occasione perché la Chiesa si “ridica”, in fedeltà a se stessa e a ciò che essa è, in modo nuovo ed inedito, in un modo, cioè, che la porti a riscoprire di se stessa qualcosa che solo quella cultura e quella epoca le consentono di riscoprire» [5]. Il riferimento alla terra (humus) dell’humilitas esprime un tratto fondamentale dell’economia salvifica, che si concentra e si riassume nel Figlio di Dio che si fa uomo e si china su quell’essere impastato di terra che è l’uomo, lasciandosi definire dalla relazione con Lui e definendo lo stile della Chiesa. Al proposito, afferma la costituzione conciliare Lumen gentium:
«E come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo “sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo” (Fil 2,6-7) e per noi “da ricco che egli era si fece povero” (2 Cor 8,9): così anche la chiesa, quantunque per la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per far conoscere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione» (Lumen gentium, n. 8) [6].
Dalla forma umile del Verbo è l’invito per la Chiesa a lasciarsi abitare dal soffio dello Spirito di Cristo (protagonista, secondo la nota, dell’IC: 22-23), che spinge ad un movimento insieme sintetico-comunionale (ad intra: vi ricorderà ogni cosa, vi guiderà alla verità tutta intera; da qui la cura attenta per quei luoghi e quelle esperienze nelle quali tutti possono e devono entrare) ed estatico-missionario (ad extra: lo Spirito è il Signore che dà la vita, la suscita…; da qui la ricerca di quei passi che ciascuno può e deve fare per uscire da sé e far crescere la propria fede), in uno sguardo di “realistica fiducia” verso tutte le epoche e tutte le situazioni in cui la Chiesa si troverà a vivere, proprio perché si ha la certezza che, nello Spirito, Cristo è per tutti. La consapevolezza di un aiuto non solo da offrire al mondo, ma anche da ricevere, ascoltando e imparando (cf. Gaudium et spes, 44), spinge la comunità a mettersi in un vero atteggiamento di ascolto e dialogo con i bambini e con gli adulti che si avvicinano alla fede.
Un tale stile, ovviamente, non si improvvisa ed è frutto di tenace e appassionata dedizione, oltre che di investimento concreto, ben prima e al di là dei percorsi di IC: solo a questa condizione l’opera dell’iniziazione, dell’evangelizzazione, può risultare trasparente, nella sua natura testimoniale, e realmente condivisa nelle diverse figure che intervengono nel cammino di formazione [7].
La domanda che sorge è perciò la seguente: come lavorare per questa opera di iniziazione reciproca ad uno stile di Chiesa e ad una passione evangelica? Come far sì che l’ingresso nell’esperienza cristiana sia “un bagno di vita ecclesiale” (Testo nazionale per l’orientamento della catechesi in Francia)? L’approfondimento della categoria di iniziazione può a questo proposito offrirci alcuni stimoli.
3. IL MODELLO INIZIATICO DELLA FEDE E LA PASTORALE DELLA “GENERAZIONE”
Come è risaputo, la progressiva affermazione della categoria di IC quale figura sintetica del processo attraverso cui si diventa cristiani non è avvenuta senza oscillazioni semantiche, che rinviano a loro volta a differenti modelli interpretativi:
- la nozione patristico-misterica dell’iniziazione attraverso i sacramenti, che pone al centro l’atto rituale costitutivo dell’identità cristiana;
- la nozione pedagogico-formativa dell’iniziazione ai sacramenti, che pone al centro il processo del divenire cristiano, colto nella globalità dei suoi elementi;
- la nozione antropologico-culturale di iniziazione, che invita a cogliere tale processo nel quadro dei riti di passaggio [8].
L’importanza di valorizzare e integrare gli elementi portanti dei tre modelli è fuori discussione: l’iniziazione cristiana è in questo senso essenzialmente “atto sacramentale”, all’interno di un processo globale disteso nel tempo, che intercetta le dinamiche esistenziali più profonde dell’umano. L’impressione è che in questi anni si sia prestata molta attenzione all’integrazione dei due primi profili (quello più liturgico e catechetico), che non all’integrazione del terzo, che ricorda all’IC le condizioni perché la vita sia davvero iniziata. La condizione indispensabile è questa: che la vita sia toccata, illuminata, assunta, purificata ed elevata nel “tocco di Dio”.
Il modello iniziatico della fede e della proposta evangelizzatrice, in questo quadro, non è tanto chiamato a complicare l’itinerario della fede attraverso tappe ancora troppo estrinseche alla vita concreta delle persone (le tabelle riassuntive dei movimenti e degli obiettivi dei progetti pastorali hanno talvolta qualcosa di sospetto…), quanto a semplificare il cammino della fede nella stretta relazione con la vita, con l’umano da assumere ed illuminare, nella varietà delle sue figure. In tal senso, occorre vigilare sul pericolo che la logica catecumenale sia percepita - gioco forza - più come una “gabbia” che rinchiude, che non una “finestra” che si apre su un paesaggio attraente e tutto da esplorare.
L’invito è, a questo proposito, di declinare la categoria complessiva di iniziazione (che rimanda al tema della “generazione”) in chiave pratica, più precisamente estetica e poietica, perché tutta la vita possa entrare nel Mistero della salvezza. A questo proposito, il documento appare più preoccupato di precisare i passi, le tappe e le dimensioni di cui tenere conto per un “vissuto cristiano integrale” (catechesi, vita, preghiera, rito, comunità, Paola…), piuttosto che di declinare quella grammatica della fede, che passa attraverso i luoghi della vita (la lezione di Verona, e il passo in avanti rispetto a Palermo…), perché il vissuto cristiano sia davvero integrale [9].
L’IC è un cammino che tocca la vita e culmina nel tocco di Dio: la via poietica ed estetica dell’IC chiede di essere declinata nelle diverse figure del vivere (e in modo particolare della vita del fanciullo e del ragazzo: il gioco, l’apprendimento, lo sviluppo della coscienza…) che prendono la forma del legame con Cristo, nella misura in cui “imparano” la grammatica e la sintassi della fede nel proprio corpo, attraverso la ginnastica spirituale di quei gesti che danno alla vita la forma della fede.
Nella misura in cui la fede è un lavoro dei cinque sensi (e con essi degli affetti, della memoria..), essa è chiamata a rivisitare, ritrovare e approfondire quei luoghi, quei gesti perduti che sono capaci di configurare la vita, e che rimandano in modo diverso alla figura del rito: ritualità che sospendono e interrompono la sensibilità, nelle diverse figure dell’ascesi ordinaria e straordinaria; riti che integrano la sensibilità in una forma di vita (quella della fede vissuta nella comunità) che dà forma alla fede; riti che trasfigurano la vita, nel contatto con Dio che accende di luce i sensi. Ascesi, rito, festa, sotto l’architesto della Parola, e nel contesto della relazione comunitaria: questa la strada maestra per ridare consistenza e semplificazione al cammino iniziatico. La fede come modo di mangiare, risvegliarsi e andare a dormire, giocare e fare le vacanze, vivere la domenica e il tempo del lavoro…: la fede, come – secondo la bella espressione della nota al numero 15 – una “liturgia della vita”.
In questa via globale, che valorizza il corpo e il nesso con l’antropologico, e che guarda alla dimensione catecumenale all’interno di una più ampia logica mistagogica …) si può applicare in modo più deciso il paradigma della “generazione” alla situazione esistenziale dei fanciulli e dei ragazzi. Cosa vuol dire per un fanciullo e un ragazzo che vive la stagione della crescita essere generati alla nuova vita battesimale? Come fare emergere il teologico della vita nuova nell’antropologico dell’esistenza del fanciullo e del ragazzo? L’attenzione riflessiva ad istruire la corrispondenza tra le due dimensioni ha privilegiato in questi decenni la situazione antropologica del lieto evento della nascita e dell’accoglienza della vita in relazione alla Buona Novella dell’Evangelo: lo stesso lavoro appare promettente e urgente per la situazione – pur variegata – del fanciullo e del ragazzo, così che il riferimento alla soggettualità e al protagonismo dei soggetti sia effettivo (e non solo accennato vagamente, come al numero 37) [10]. Carenza pedagogica, dunque, ma pure e più in profondità, teologica: non si tratta di una semplice strategia (conoscere il “recipiente” per interessarlo), ma dell’effettivo compito di evangelizzare la vita. Il tema dell’educazione, al cuore dell’IC del fanciullo e del ragazzo.
4. IC E IMPORTANZA DELLA DIMENSIONE LITURGICO-SIMBOLICA
L’attenzione portata sull’importanza della dimensione simbolico-rituale ci conduce ad un’ultima sottolineatura, relativa alla dimensione mistagogica e liturgica dell’IC. La categoria mistagogica è qui utilizzata come metodo e come logica complessiva, più che come tappa specifica. La mistagogia è coestensiva all’intero percorso, nella misura in cui il cammino iniziatico è teso a condurre all’interno del mistero della fede:
- “mistagogia della vita”, nel senso in cui Rahner utilizza questa espressione [11], per indicare il coinvolgimento e l’illuminazione dell’umano;
- mistagogia rituale, intesa come la capacità della celebrazione liturgica di offrire a tutti (a chi è dentro, a chi si affaccia, a chi è piccolo, a chi è grande…) un ambiente di vita e di crescita spirituale.
Più in generale, si tratta di porre in evidenza il carattere simbolico e sintetico dell’atto e del gesto rituale, dal punto di vista semantico (di ciò che esprime) e pragmatico (di ciò che opera, esprimendo). La capacità del rito di permettere l’accesso ad un livello più profondo e al contempo accessibile di esperienza e di comunicazione della fede (pragmatica, affettiva e simbolica…) è chiamata ovviamente a misurarsi con tutti i rischi che la ritualità di ogni tempo corre (una concentrazione liturgica che si fa
riduzione) e che in particolare la ritualità del nostro tempo è chiamata ad attraversare. Tra i principali:
- quello di uno scadimento del rito a linguaggio pedagogico della fede, per cui il rito è continuamente da inventare, da rianimare e da modificare;
- quello di uno scadimento del rito a epifania dell’io (in un’epoca di narcisismo), anziché epifania di Dio: la sfida delle celebrazioni liturgico-sacramentali è quella di poter realmente significare e realizzare il “tocco” del dito di Dio;
- quello di un deficit cerimoniale e mistagogico, per cui non siamo educati al senso delle forme e delle forze che provengono dal rito;
- quello di una forma rituale ancora incerta, a causa della riforma ancora in cammino, che non può contare su una forma rituale sufficientemente condivisa e persuasiva [12].
In questo quadro, che rinvia ancora una volta al problema di fondo di come le nostre comunità celebrano, si può fare qualche osservazione sui riti che più direttamente costellano e accompagnano il cammino dell’IC: in particolare, i riti delle consegne sembrano essere troppi, troppo estrinsechi, costruiti un po’ a tavolino, attorno al fulcro traditio-redditio, che corre il rischio di lasciare in ombra il primato dell’iniziativa divina [13]? Attenti al fatto che tali consegne siano reali e non fittizie: come gli scouts ci insegnano, una tradizione non si improvvisa ed è frutto di sedimentazioni plurime…
Più in generale, l’attenzione a progettare una iniziazione liturgica complessiva alla grammatica della preghiera:
- come corpo,
- come parola,
- come spazio (casa, chiesa),
- come tempo (anno liturgico) [14].
NOTE AL TESTO
[1] L’effusione speciale dello Spirito, nel rapporto tra Pasqua e Pentecoste (Chauvet); la novità della vita cristiana, in rapporto alle situazioni decisive e alle dimensioni fondamentali dell’esistenza antropologica, all’interno di un modello sacramentale che sottolinea con vigore il significato del sacramento come “illuminazione dell’umano” (Lafont, Bourgeois).
[2] È il caso, ad esempio, del profilo individuale o comunitario del sacramento della penitenza, che ha subito un forte mutamento di senso a partire dall’incontro con la forma monastica dell’esperienza cristiana. È il caso dello stesso battesimo dei bambini, che ha spostato considerevolmente l’asse del significato teologico dalla novità di vita nell’orizzonte della conversione, alla garanzia di salvezza nell’orizzonte dell’affiliazione.
[3] Cf. CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 8.
[4] A proposito del riferimento familiare, è interessante il fatto che il CJC non preveda la situazione particolare del fanciullo che necessita del consenso dei genitore, quando non di un accompagnamento concreto, assimilando di fatto troppo in fretta la condizione del bambino giunto all’età di ragione alla condizione dell’adulto. Certo rimane il diritto-dovere di educare alla fede da parte dei genitori (226). Più in generale, da più parti si rileva la situazione inedita nella quale si trova ad essere la famiglia dei fanciulli che percorrono il cammino dell’IC. Da una parte, si può contar sempre meno su famiglie “cristiane”; dall’atra, si tratta di rimotivarne l’impegno, riconoscendo le possibilità-capacità da mettere a disposizione (proporre loro differenti modi di impegno); la proposta di reti di famiglie; renderle soggetti attivi di formazione anche religiosa… coinvolgere, non scaricare (no alla catechesi privatizzata nel santuario familiare: la catechesi è un fatto ecclesiale) né dare per scontato, tenere conto che l’educazione passa da lì.
[5] Cf. R. REPOLE, Umiltà della Chiesa.
[6] Cfr. G. RUGGIERI, Evangelizzazione e stili ecclesiali: Lumen gentium 8,3 in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Annuncio del Vangelo, forma ecclesiae, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005, pp. 225-256.
[7] Solo su questa base ha senso l’invito a non settorializzare e delegare troppo la pastorale dell’IC: la logica ministeriale dell’iniziazione chiede di intrecciare l’impegno competente e generoso di alcuni (catechisti, animatori del gruppo catecumenale) con la presenza di molti (tali dovrebbero essere!), che costituiscono la comunità dei discepoli, sotto la presidenza attenta e fiduciosa di uno (il pastore della comunità). L’intreccio di queste figure (alcuni – molti – uno) è essenziale perché chi si avvicina alla Chiesa in occasione del cammino di IC incontri davvero i volti della comunità, riconoscendo in essa una dimora abitabile e desiderabile. Oggi più che mai, la pastorale dell’IC è chiamata ad essere insieme pastorale familiare e giovanile, ma pure caritativa e sociale, là dove si tratta di manifestare che il dono della vita nuova del Vangelo passa attraverso i gesti della cura, dell’accoglienza e dell’educazione di un nuovo figlio e fratello più piccolo.
[8] Cf. P. CASPANI, La pertinenza teologica della nozione di iniziazione cristiana, Glossa, Milano 1999, 11-101.
[9] Da questo punto di vista, occorre fare molta attenzione al linguaggio del primo annuncio (inevitabilmente troppo didascalico?), da precisare bene perché appaia nel suo profilo testimoniale di “primi passi” coerenti con quello “stile” ecclesiale che rimanda allo stile evangelico della “santità ospitale” di Gesù (Theobald).
[10] Il tempo del bambino, assimilato all’adulto, per la sua capacità di trattenere, di comprendere, fa leva sull’appropriazione personale della fede (la libertà, l’intelligenza); il suo essere dipendente fa leva sulla dimensione passiva del dono da ricevere, dell’essere generati ad un’altra vita che non si riceve più dai genitori, ma da Dio Padre e dalla Chiesa Madre, anche se tale generazione passa misteriosamente attraverso i gesti di amore, di perdono, di preghiera, di esempio dei genitori… In tal modo l’essere continuamente generati alla vita per un ragazzo passa attraverso l’essere iniziati progressivamente all’amore che fa vivere… Sul nesso tra l’antropologico e il teologico (l’acqua, il sangue, lo Spirito) nei luoghi teologici del figlio, del bambino (che dice sì, nell’apertura della coscienza e nell’affidamento) e del ragazzo (nel divenire adulto…), cf. GUARDINI, Le età della vita; ANGELINI, Educare si deve ma come?; BALTHASAR, Se non diventerete (il motivo per cui Gesù si attorniava di bambini…); MANZI, Gesù dodicenne… L’età della fanciullezza: la più felice, la più feconda: figura della vita buona, di una vita nel segno della fiducia e di un fondamentale disinteresse di sé (di me si occupano gli altri); il rafforzamento della coscienza morale, la scoperta del mondo oggettivo.
[11] Per “mistagogia della vita” Rahner intende l’arte di condurre dentro il vissuto umano per scoprirne l’apertura al Vangelo, gli appelli alla grazia, la presenza operante dello Spirito. Cf. K. RAHNER, Sulla teologia del culto divino, in Nuovi saggi 8, 282.
[12] Cf. il confronto con la catechesi ortodossa, che può spiegare ai bambini il senso delle icone e degli inni liturgici…
[13] Un occhio alla tradizione ci ricorda che a parte la consegna del Credo e del Pater, si parla di una consegna (porrectio, non traditio, di un libro datur non traditur) dei Vangeli (diversa dalla consegna della Bibbia): non del Credo lungo o del Catechismo e tanto meno della Domenica. Si tratta sempre di qualcosa da imparare a memoria (e senza scrivere), “par coeur”. Quanto alla ritualità, da sottolineare nella chiesa antica il fatto che la redditio avviene alla fine, immediatamente prima dei sacramenti dell’IC, accompagnato dall’effata. Da sottolineare pure il carattere riservato e discreto (soprattutto nella redditio, più che nella traditio), quasi a ricordare che la vera e propria riconsegna si dà nel credo battesimale.
[14] Non solo come occasione, o come tema, ma come contenuto, forma di vita, itinerario dinamico.