«Pepoli mio, di che speranze il core vai sostentando?». Giacomo Leopardi, Al conte Pepoli, commentata da Franco Nembrini. Di qui si può partire per presentare il poeta di Recanati a scuola

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /09 /2015 - 15:47 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da O.V. Milosz, Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, pp. 13-22 un testo di Franco Nembrini . Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/9/2015)

[Voglio leggervi] il testo di una poesia di Leopardi. Si intitola Al conte Carlo Pepoli e solitamente non compare nelle antologie; se uno non prende un'edizione integrale dei canti di Leopardi normalmente non la incontra. Io invece a scuola parto sempre da qui: entro in classe e, prima ancora di dire una parola su Leopardi, la leggo; dopo si comincia a ragionare su chi è e perché scrive queste cose. […]

Nella poesia di Leopardi […] la questione è assolutamente chiara: amico mio, «di che speranze il core vai sostentando?». È scritta in occasione del compleanno di un amico: Leopardi è andato alla festa […] portando con sé in regalo questo carme epistolare, in cui si rivolge all'amico così:

Questo affannoso e travagliato sonno
che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
vai sostentando?

Amico mio, che cosa tien su veramente la vita? Come fai a portare il peso della giornata, il peso del tempo che passa? «Come si fa a vivere?», si potrebbe dire con un'espressione sintetica di don Giussani, che tante volte in questi ultimi tempi don Julián Carrón ha ricordato[1].

In che pensieri, in quanto
o gioconde o moleste opre dispensi
l'ozio che ti lasciàr gli avi remoti
,
grave retaggio e faticoso?

Come te lo giochi il tempo della vita? Questo lascito grave, faticoso, che i tuoi genitori ti hanno lasciato in eredità, con quali opere lo occupi? Che siano «gioconde o moleste», cosa fai tutto il giorno? Perché

È tutta,
in ogni umano stato, ozio la vita,
se quell'oprar, quel procurar che a degno
obbietto non intende, o che all'intento
giunger mai non potria, ben si conviene
ozioso nomar.

Se è giusto chiamare ozioso il tempo, l'azione che facciamo nel tempo, il nostro darci da fare, quando è incapace di raggiungere un obiettivo, quando non ha un obiettivo, un ideale, o ha un ideale a cui   non potrà mai arrivare, se è giusto chiamare "ozio" in questo senso - tempo sprecato, tempo buttato, tempo inutile - il tempo che non abbia un ideale o che questo ideale non possa raggiungere, allora «è tutta, in ogni umano stato, ozio la vita».

Poi Leopardi spiega che

La schiera industre
cui franger glebe o curar piante e greggi
vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
se oziosa dirai, da che sua vita
è per campar la vita, e per sé sola
la vita all'uom non ha pregio nessuno,
dritto e vero dirai.

In questo senso, se chiamerai oziosa la schiera dei contadini che lavora dalla mattina alla sera, dirai giusto, perché la loro vita è per tirare a campare.

Quindi elenca una serie di lavori faticosi, in cui uno getta veramente le sue energie, il tempo, il sudore, la fatica della vita; ma tutto è inutile.

Le notti e i giorni
tragge in ozio il nocchiero
[il marinaio]; ozio il perenne
sudar nelle officine
[l'operaio], ozio le vegghie [veglie]
son de' guerrieri e il perigliar nell'armi [il soldato];
e il mercatante avaro in ozio vive:
che non a sé, non ad altrui, la bella
felicità, cui solo
[questo "solo" è gigantesco] agogna e cerca
la natura mortal, veruno acquista

per cura o per
sudor, vegghia o periglio.

Perché mi permetto di dire che l'umanità in tutte le sue espressioni, in tutte le sue professioni, spreca il proprio tempo? Perché nessuno («veruno»), né con la fatica, né con il sudore, né con le veglie, né coi pericoli acquista né per sé né per gli altri - neanche per la tua donna o per i tuoi figli, neanche per i tuoi amici - «la bella felicità» ottiene: l'unico («solo») nostro vero ideale. Ciò cui tende la natura mortale è solo «la bella felicità».

Pure all'aspro desire onde i mortali
già sempre infin dal dì che il mondo nacque
d'esser beati sospiraro indarno
,

Ripete il concetto, lo ribadisce, perché qui è il punto infiammato della questione: da sempre, da quando esiste, l'uomo ha sospirato la beatitudine, la felicità, ma inutilmente. Poi troveremo altri nessi decisivi; per ora segnalo solo il «beati», che rimanda alla Beatrice di Dante: perché la donna questo dovrebbe essere - così ciintroduciamo al tema -, la possibilità di esser beati. Per questo

Di medicina in loco apparecchiate
nella vita infelice avea natura
necessità diverse, a cui non senza
opra e pensier si provvedesse, e pieno,
poi che lieto non può, corresse il giorno
all'umana famiglia; onde agitato
e confuso il desio, men loco avesse
al travagliarne il cor. […]

Ironicamente dice: per fortuna la natura, come una specie di medicina per questa impossibilità, ha preparato nella vita «necessità diverse» (il vestire, il mangiare, la casa, il dormire, i figli, lo stipendio, le ferie...), a cui dobbiamo provvedere «non senza opra e pensier», con il pensiero, con la preoccupazione, e col lavoro, con la fatica; in modo che la giornata, poiché non può essere lieta, trascorra almeno piena di cose da fare: sostituti, «medicina» per la nostra infelicità. Ma tutte queste attività sono in qualche modo tradimento dell'unico, vero desiderio; così che - questo è meraviglioso - «confuso il desio», non accorgendoci del nostro vero desiderio, persi dietro le necessità diverse cui soggiacciamo per natura, non ritroviamo più la grandezza del solo desiderio vero; e soffriamo un po’ meno.

Quindi Leopardi si rivolge all'amico conte, un signorino che non ha neppure bisogno di lavorare per mangiare:

Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
provveder commettiamo,
una più grave
necessità, cui provveder non puote
altri che noi, già senza tedio e pena
non adempiam
:

Ma noi che affidiamo al lavoro di altri di provvedere alle necessità materiali della vita, noi sappiamo bene di che cosa si tratta:

necessitate, io dico,
di consumar la vita
: improba, invitta
necessità, cui non tesoro accolto,
non di greggi dovizia, o pingui campi,

La necessità «di consumar la vita»: di trovare qualche cosa per riempire il tempo che passa. Necessità «improba, invitta», perché non c'è niente in fondo che riesca a sconfiggere la mancanza di senso che riempie le giornate; «non di greggi dovizia, non pingui campi»: non saranno la ricchezza, il conto in banca, le cose che possiedi, a riempire quel vuoto.

Non aula puote e non purpureo manto
sottrar l'umana prole.

Né la cultura («aula») né il potere («purpureo manto») possono sottrarre ciascuno di noi a questa necessità.

Ed eccoci al cuore dell'argomentazione di Leopardi, ai versi che di schianto ci buttano nel tema […]. Parla dei giovani in modo particolare; e dice così:

Lui delle vesti e delle chiome il culto [il culto dell'immagine, della moda]
e degli atti e dei passi [la danza, la discoteca], e i vani studi
di cocchi e di cavalli [oggi la moto, la macchina...], e le frequenti
sale
[belle compagnie], e le piazze romorose, e gli orti [i giardini, dove si "passeggiava" con le ragazze],
lui giochi e cene e invidiate danze
tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
mai non si parte il riso;

Parla dei giovani di ieri come di quelli di oggi, tutti contenti, sempre sorridenti, sempre di corsa da un divertimento all'altro. Ma non serve a niente:

ahi, ma nel petto,
nell’imo petto, grave, salda, immota
come colonna adamantina, siede
noia immortale
, incontro a cui non puote
vigor di giovanezza,

Non è perché siete giovani e avete vent'anni e siete belli e forti che il problema si sposta di una virgola: anche nel vostro cuore, nel profondo del cuore («nell'imo petto», imo vuol dire intimo, nel cuore del cuore), piantata «come colonna adamantina [come una colonna di diamante, il materiale più duro che c'è], siede/ noia immortale»: sembra di vederla, la noia, che signoreggia seduta in trono nel più profondo del cuore di ciascuno. «Incontro a cui non puote/vigor di giovanezza»: contro di lei tutto l'agitarsi della gioventù, sempre in corsa da un divertimento all'altro, non può niente.

Poi viene l'affermazione grande e terribile […]:

e non la crolla
dolce parola di rosato labbro,
e non lo sguardo tenero, tremante,
di due nere pupille, il caro sguardo,
la più degna del ciel cosa mortale
.

Certo, l'esperienza amorosa è la più degna del cielo, non c'è altro che ci renda così simili a Dio come l'amore. Ma neanche la donna più donna del mondo, la più bella del mondo, è oggetto adeguato al desiderio umano. C'è una nostalgia, c'è un di più, cui la bellezza della donna richiama, di cui l'attrattiva della donna è segno: fa nascere e muove il desiderio, ma non è sufficiente a compierlo. «Quid animo satis?» Che cosa può veramente riempire il cuore? Per questo - prosegue Leopardi in alcuni versi che saltiamo - c'è chi va in giro per il mondo nella speranza che cambiando le circostanze le cose possano cambiare, pensando che questa noia, questa malinconia, questo dolore che la vita porta con sé sia dovuta alle circostanze, e perciò che basterebbe cambiare le circostanze e il problema sarebbe risolto: mi sposto, cambio paese, giro il mondo e il problema è risolto.

Invece quella noia ce l'hai dentro, quel grido ce l'hai dentro e lo porti con te, e la noia si siede sulla prua della nave e ti segue:

Ahi ahi, s'asside
su l’alte prue la negra cura, e sotto
ogni clima, ogni
ciel, si chiama indarno
felicità, vive tristezza e regna
.

Poi parla di quelli che pensano di risolvere il problema con la violenza (anche questi versi li saltiamo), e infine dice, in una strofa strepitosa:

Ben mille volte
fortunato colui che la caduca
virtù del caro immaginar non perde
per volger d'anni; a cui serbare eterna
la gioventù del cor diedero i fati;

Che augurio fa all'amico cui vuol bene? Qual è l'augurio più potente che vien fuori da questa situazione, da questo grido? Leopardi dice al suo amico: detto questo, chi sarà fortunato nella vita? Chi riuscirà a conservare questo grido, a conservare questa speranza, questa «eterna gioventù del cor»! Perché «la giovinezza è un atteggiamento del cuore», come ho imparato tanti anni fa ancora da don Giussani: «Si è giovani quando non ci si accomoda, ma si è tesi verso la realtà con l'avidità di imparare quel che essa suggerisce sul nostro destino, così che la realtà solleciti quelle domande che costituiscono il cuore dell'uomo, quelle domande che sono in noi il riverbero del Destino e aspettano una risposta che riguarda tutta la vita. Se la giovinezza è il graduale accumulo di tutto ciò che è vero che è buono che è bello allora [...] non finisce mai»[2]. Leopardi augura all'amico di non perdere il «caro imaginar»: il sogno, o meglio la speranza, di trovare una risposta a quel desiderio, di non far la fine di tanti che a una certa età diventano cinici, pensano che queste siano illusioni da ragazzi, che da grandi bisogna occuparsi di cose più serie, fare i soldi, far carriera...

Che nella ferma e nella stanca etade,
così come solea nell'età verde,
in suo chiuso pensier natura abbella,
morte, deserto avviva. A te conceda
tanta ventura il ciel;
[...]

Chi riesce a conservare questo grido, chi da adulto, da vecchio, riesce a vivere come era solito fare da giovane all'altezza del suo desiderio, questi può render vivo il deserto della vita, può dire di aver vissuto umanamente. Che senso dell'amicizia ci vuole per arrivare fin qui, per arrivare a formulare questo augurio, partendo dalla domanda così chiara: «amico mio, di che speranze il core vai sostentando?».

Note al testo

[1] «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: "Chi ha ragione?", ma: "Come si fa a vivere?". Il mondo di oggi è riportato a livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema era come fare a vivere e non chi avesse ragione. Questa osservazione cambia anche l'assetto della nostra preoccupazione [...] [perché] ciò che caratterizza l'uomo oggi [è] il dubbio sull'esistenza, la paura dell'esistere, la fragilità del vivere, l'inconsistenza di se stessi, il terrore dell'impossibilità; l'orrore della sproporzione tra sé e l'ideale. Questo è il fondo della questione e da qui si riparte per una cultura nuova, per una criticità nuova». Corresponsabilità. Stralci dalla discussione con Luigi Giussani al Consiglio internazionale di Comunione e Liberazione - agosto 1991, cit. in Julián Carrón, Come si fa a vivere? Esercizi degli universitari di Comunione e Liberazione.Rimini, 13-15 dicembre 2013 allegato a Tracce n. 5, maggio 2014, pagg. 1-2; http.//www.tracce.it/detail.asp?c=1&p=0 &id=3973.

[2] Luigi Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida,SEI, Torino 1995, pag. 5.