Tracce di cristianesimo anonimo nell'età post-secolare. Per una lettura "cristiana" della saga di Harry Potter, di Antonio Sabetta
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Riprendiamo dal blog di Antonio Sabetta Ricerca, pensiero & fede una sua relazione pronunciata presso la Pontifica Università Lateranense il 15/4/2015 e pubblicata sul blog il 15/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi Harry Potter e l’educazione alla vita buona. 6 post di Andrea Lonardo e Harry Potter e la confermazione. Ancora un post su Harry Potter, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (20/9/2015)
N.B. de Gli scritti Ci permettiamo anche di ri-presentare un breve video di Andrea Lonardo con un commento pronunciato a Londra a King's Cross Station Siria
Tracce di cristianesimo anonimo nell'età post-secolare. Per una lettura "cristiana" della saga di Harry Potter, di Antonio Sabetta
Nell'iniziare questo necessariamente breve e di sicuro non esaustivo intervento sulla saga di Harry Potter, è doveroso premettere che quanto dirò costituirà solo un'indicazione di spunti tra i tanti che si possono recepire dalle opere della Rowling e che non posso certo esaurire nell'arco di qualche cartella gli echi numerosi e profondi che provengono da quel fenomeno mondiale che è stata la storia del maghetto occhialuto di cui si attende un seguito. Altri lo hanno fatto e rimando a loro per un'analisi più ampia e approfondita sotto diversi punti di vista (filosofico, pedagogico, antropologico ecc.)[1].
Per quanto mi riguarda, gli spunti di lettura della saga che propongo si collocano in un orizzonte ermeneutico determinato che è indicato sommariamente dal titolo di questo contributo. Intanto dico subito che non è mia intenzione "cristianizzare" la storia di Harry Potter ma piuttosto il mio è un iniziale tentativo di rinvenire elementi cristiani espressi in un contesto secolare o post-secolare in cui di cristiano non è rimasto molto. In un certo senso è l'intenzione pari a quella dei primi cristiani rispetto alla cultura pagana, solo che adesso siamo nel contesto non più cristiano e dunque post-cristiano, piuttosto che pre-cristiano.
Se diversi scrittori ecclesiastici guardavano alla cultura pagana con un certo sospetto non di rado associando il riferimento alla filosofia greca con l'eresia - fino al punto di proclamare oltre la diffidenza un'estraneità di principio tra il pagano e il cristiano, l'otre vecchio e il vino nuovo secondo l'immagine evangelica spesso utilizzata[2] - è pur vero che molti altri invece scorgevano nella tradizione culturale greca (poeti e filosofi) una praeparatio evangelica: in una visione profondamente unitaria del corso e del disegno della storia umana, ciò che precedeva la venuta di Cristo non era estraneo a tale avvento ma in un certo qual modo lo preparava e perciò era possibile rinvenire in esso quei semina verbi, quei frammenti della verità in pienezza che lo Spirito di Dio dissemina permanentemente nella storia (cf Giustino), o addirittura pensare alla filosofia come allo strumento della rivelazione di Dio presso i pagani, per cui come Dio si era manifestato agli Ebrei mediante la legge, si era rivelato ai pagani mediante la filosofia (cf Clemente Alessandrino).
Se è ineccepibile questo tentativo di recuperare gli aspetti genuini, veritieri e componibili con la prospettiva cristiana nel mondo pre-cristiano, non vedo perché non si possa fare altrettanto nel mondo odierno che si configura post-cristiano (oltre che post-secolare) pur essendo figlio (legittimo o illegittimo non importa) della tradizione cristiana, sia che si condivida la tesi di una modernità come secolarizzazione della prospettiva biblico-cristiana (cf Löwith), sia che al contrario si pensi il moderno come l'autoaffermazione dell'uomo contro l'arbitrarismo divino (cf Blumenberg). I semina Verbi, la verità, permane ovunque, perché negare una veridicità di una qualunque prospettiva culturale significa attentare alla provvidenza di Dio rispetto alla creazione.
Dunque il mio tentativo si colloca in questo orizzonte che credo si avvicini alla prospettiva e alla categoria di "cristianesimo anonimo"[3] del teologo Karl Rahner, il quale rinveniva la presenza di elementi, prospettive o aspetti cristiani spesso impliciti in culture o scenari apparentemente non cristiani. Da un fronte più recente e soprattutto molto più "laico" penso all'idea di J. Derrida secondo la quale la filosofia ha il compito di pensare dei "doppioni non dogmatici del dogma". In Donare la morte il filosofo sottolinea che i temi cristiani si possono dare senza l'evento della rivelazione, non perché derivabili dalla ragione, ma perché si tratta di pensarli nella possibilità dell'evento, di pensare l'essenza del religioso senza che si costituisca come articolo di fede. La lista di temi è potenzialmente infinita poiché Kant, Hegel, Kierkegaard (ma anche Levinas e Marion) e finanche Heidegger, «appartengono a questa tradizione che consiste nel proporre un doppione non dogmatico del dogma, un doppio filosofico, metafisico e in ogni caso pensante che "ripete" senza religione la possibilità della religione»[4]. Sono consapevole della problematicità di queste parole del filosofo della decostruzione ma credo che alla fine quello che resta ancora una volta è il dato della possibilità di incontrare tematiche cristiane anche in luoghi che cristiani non sono.
In effetti di cristiano nella saga[5] non c'è quasi nulla almeno esplicitamente. Se ci riferiamo per esempio al testo sacro che più configura l'identità cristiana al di là delle differenze confessionali, dobbiamo riconoscere che nei libri si incontrano solo due citazioni della Scrittura, seppur molto significative e suggestive e poste su due tombe: sulla tomba dei genitori di Harry ("l'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte", 1Cor 15,26) e su quella di Ariana, la sorella di Silente ("là dov'è il tuo tesoro là sarà anche il tuo cuore", Mt 6,21); poi non mancano i riferimenti al Natale, le vacanze di Natale, i canti la notte di Natale che Harry sente quando si reca a Godric's Hollow, le parole quasi blasfeme di Sirius che parafrasa il Tu scendi dalle stelle, le uova di Pasqua che la signora Weasley manda ai figli e ai loro amici (cf IV, 647): il quadro riassume quello che accade spesso oggi in cui parole e gesti provenienti della tradizione cristiana sopravvivono sganciati dal loro originario significato e dunque ricategorizzati in una versione il più delle volte secolarizzata.
Eppure, nonostante questa apparente mancanza di riferimenti cristiani, molti temi centrali della saga hanno un'impronta cristiana e possono essere letti finanche in chiave cristologica; non si tratta solo di riconoscere che l'umano trova pienezza nel Cristo (secondo le memorabili parole di Gaudium et spes [6]), Dio fatto carne, ma di rilevare come il cuore del mistero cristologico - ovvero il mistero pasquale anticipato nella dedizione totale e compiuto nella morte e risurrezione - è adombrato potentemente nello svolgersi della saga.
Conosciamo anche le numerose diffidenze verso la storia di Harry Potter e il mondo della magia, spesso accusato di essere nocivo in quanto spingerebbe verso un'evasione dalla realtà e un rifugiarsi in un mondo fantastico dove tutto è facile e dove è possibile sgravarsi della fatica e delle delusioni che la vita comporta. Niente di tutto questo è presente nella saga perché la magia non cancella l'umano; anzi l'essere mago, ben lungi dal costituire un'evasione dalla realtà, non rappresenta ciò che ti semplifica la vita o ti risparmi le sue fatiche, lotte e contraddizioni. È un modo d'essere che ti rende capace di fare alcune cose ma non cancella il tuo essere persona, e dunque l'umano è presente anche nel magico in ciò che lo definisce originariamente e costitutivamente[7]; addirittura quando Harry decide di seppellire Dobby dice esplicitamente di volerlo fare properly, not by magic [8] come ad indicare che non è il potere magico che ti definisce nell'umano fino in fondo. Non a caso ci sono maghi nati da babbani (i muggleborn) che, è interessante, sono i grandi protagonisti della storia: Harry è un mezzosangue, lo stesso Voldemort non è purosangue; e ancora: Hermione, la più intelligente di tutte, è nata babbana come pure Lily la mamma di Harry. E vi sono anche maghi non maghi (i maghinò) come il custode di Hogwarts o miss Figg. Questa tematica della purezza del sangue, molto evocativa e significativa, introduce l'aspetto complementare della diversità. Nel disegno del male i diversi vanno sfruttati, messi a servizio dei più potenti; il mito della purezza della razza ossessione Voldemort, divide le famiglie (il caso più eclatante è la famiglia Black), genera ingiustizie, acceca. A volte invece è vista con sorpresa e stupore, la premessa per accoglierla (il caso dei Weasley). Dunque il fascino e la ragione ultima del successo della saga risiede nella sua capacità di raccontare l'umano presso un mondo - quello dei maghi - che, ripeto, rappresenta un diverso modo di essere uomini[9].
Ora, di primo acchito, chi si accosta alla lettura della saga la prima percezione che ha è che i libri costituiscono una sorta di narrazione epica del tema dei temi: il bene e il male, la morte e la vita che si affrontano ogni giorno, l'amore che si dona totalmente e senza misura e che diventa la "morte della morte", la lotta drammatica nell'agone della storia e del cosmo tra la vita-bene di cui siamo tutti sostenitori, e il male-morte che tallona e non di rado sembra più potente e persuasivo.
Ma prima di venire a capo di questo aspetto centrale, direi che anche in Harry Potter c'è un punto di partenza che è quello di sempre, quello che appartiene agli uomini di qualunque tempo e cultura, proprio perché l'essere maghi non è un'evasione dalla realtà ma un modo diverso di affrontare quelle domande costitutive dell'uomo che non possono mai venire meno finché l'umano permane. Ebbene questo punto di partenza è il desiderio della felicità, la sola cosa che ti salva l'anima, dove la felicità viene declinata come il senso delle cose; si è felici quando si può vivere riconoscendo un senso alle cose. Potremmo rievocare le parole di Sant'Agostino e della sua "apologetica esistenziale": «la felicità è la pienezza di tutte le nostre aspirazioni»[10]. Agostino lo ripete in più luoghi utilizzando in modo quasi interscambiabile parole come felicità, sapienza, verità, Dio, perché la felicità è la sapienza, la quale non può che provenire dalla verità che è Dio, perciò «cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della mia vita»[11]. La felicità è ciò che l'uomo cerca avidamente, che tutta l'umanità desidera, al punto che «se si potesse chiederle con una sola parola se vuol essere felice, non v'è dubbio che risponderebbe di sì»[12]. Citando l'Hortensius di Cicerone, Agostino ripete nel De beata vita «noi vogliamo essere felici»[13], e per essere felici bisogna cercare di ottenere ciò che si desidera.
Nella saga la questione è posta con la stessa radicalità in una cornice particolare. La felicità rimane la cosa che l'uomo più profondamente e disperatamente desidera tanto che lo specchio delle Emarb (che compare nel primo libro), che ci mostra esattamente quello che bramiamo profondamente e disperatamente, se avesse di fronte l'uomo felice lo rifletterebbe così com'è[14]. Harry vi vede riflessi i genitori, Ron si vede caposcuola e capitano della squadra di Quidditch, l'uomo felice vedrebbe nulla di più di se stesso, perché la cosa che più ci sta a cuore è la felicità, no matter how difficile è raggiungerla. Tuttavia la felicità va costruita e realizzata nella realtà, non può essere delegata ai sogni e non a caso lo specchio non dà né conoscenza né verità e i sogni non costruiscono la felicità perché non sono reali [15].
La felicità rimane la cosa più bramata tanto che la fine della vita, quella che proviene dai dissennatori (non la fine naturale della vita) è il toglimento della felicità e del senso. Nel terzo volume della saga si insiste su queste figure sinistre (dementors) la cui pericolosità è il toglimento della felicità; come dice Ron "io mi sentivo strano, come se non potessi mai più essere felice" (III, 88), essi "succhiano via tutta la felicità" (III, 203), è come se svuotassero di pace, speranza e felicità l'aria che li circonda (cf III, 172 e 398). E lo realizzano facendo leva sul ricordo più infelice della memoria che, nel caso di Harry, sono i genitori in punto di morte.
La vita senza felicità è ciò che ti fa diventare pazzo, non a caso il posto peggiore del mondo, la prigione di Azkaban, è il luogo dove non c'è la felicità. Tolta la felicità ("il bacio del dissennatore") è tolto il senno, si diventa come i dissennatori, malvagi e senz'anima. Ma la vera infelicità è quella di cui Hagrid dice: "dopo un po' non ti ricordi più chi sei e non sai che senso ha vivere" (III, 203), perciò si annega, impotenti, nella disperazione (cf IV, 402): quando non sai che senso ha vivere tutto diventa terribile. Il bacio del dissennatore infatti ti succhia l'anima: esisti e basta, nessuna idea di te stesso, nessun ricordo, come un guscio vuoto, ripete Lupin (III, 226). Non a caso l'antidoto al dissennatore è il patronus, la proiezione del ricordo più forte della speranza, felicità, desiderio di sopravvivere, ciò che - a differenza degli umani - non può provare disperazione e perciò i dissennatori non possono fargli male (III, 217). La possibilità della disperazione, intesa come negazione della speranza ovvero dell'esistenza di un senso delle cose, diventa il punto che permette al dissennatore di agire perché quando è negato il senso e la felicità la vita è invincibilmente vulnerabile e sconfitta.
Dunque il desiderio della felicità è l'inestirpabile punto di inizio in ogni storia che parla di umani seppure maghi, poiché lo spessore, la dignità, l'"area di risparmio" che sempre rimane anche quando tutto è compromesso dell'umano è il desiderio della felicità, non importa quanti errori si compiano o quante volte si abbia un'idea sbagliata circa cosa mi renda felice. Allo stesso tempo, però, la saga è una narrazione epica del tema che attraversa la storia, che mette in questione il senso delle cose, che sfida l'innata tendenza nell'uomo a riconoscere il primato del bene (che pertanto va fatto) e la nocività del male (che va sempre evitato quando lo si riconosce come tale); mi riferisco al conflitto permanente - che per la verità nella saga trova un punto di arrivo, come se la guerra alla fine venisse davvero vinta e ci fosse possibilità di redenzione per tutti, perché nel fare il male tutti sono in fondo vittime - tra il bene e il male che si consuma nello scenario della storia e che appare così a volte intricato e irrisolvibile che non di rado sono spuntate interpretazioni tra lo gnostico e il dualistico che vedono nel bene e nel male due principi ontologici perennemente in lotta tra loro, ora vittoriosi ora sconfitti.
A dire il vero nei testi della Rowling non mi sembra vi sia una visione olistica o dualistica, se non altro perché non ci sono buoni da una parte e cattivi dall'altra, come Sirius ripete a Harry ricordandogli che sono le scelte che facciamo a dirci chi siamo, non la fascinazione del male o meglio ci sono i cattivi e i buoni che lottano per rimanere tali, perché bisogna sempre combattere e combattere per tenere il male a bada [16]; si potrebbe qui evocare la posizione agostiniana secondo la quale l'uomo dopo il peccato delle origini non è più equidistante tra bene e male ma subisce il fascino del male. Certo è che la tentazione nel bene è sempre presente e attraversa tutti; Harry è preoccupato di questa cosa, Sirius gli dirà che le scelte che facciamo ci dicono chi siamo e non l'originaria fascinazione del male. Anche Silente, la figura più ieratica ed elevata della saga, il riferimento di Harry e non solo, ha attraversato la tentazione del potere nel tempo della sua amicizia scellerata con Grindelwald e anche dopo quando ne resterà vittima [17]. E si noti bene che non c'è solo la tentazione ma c'è anche il cedere alla tentazione che non può non avere drammatiche conseguenze e non lascia mai impuniti perché il male che si compie ha sempre un prezzo da pagare; nel caso di Silente è la morte della sorella Ariana. Allo stesso tempo, però, il prezzo che si paga per il male compiuto è anche il punto da cui la vita riparte, da cui si ricomincia. Proprio Silente si "converte" - cioè cambia direzione alla sua vita - dopo quello che accade alla sorella. Pensiamo anche alla redenzione di Piton che rappresenta l'esempio puro di un amore fedele fino alla morte e di una morte per amore [18].
Il male sembra più potente, è più skillfull ("le persone oneste sono così facili da manovrare", IV 602), più scaltro, ma ha le sue debolezze perché alla fine si deve arrendere all'evidenza della morte che il male non può vincere o sovrastare. Da un lato il potere, così ambito dai malvagi, dall'altro la morte, così temuta dai cattivi, sono la provocazione continua, desiderata e avversata per il male. Nel regno di Voldemort magic is might, la magia è potere impiegato non per aiutare ma per schiacciare e distruggere gli altri. E poi il rapporto con la morte a cui si riconducono anche i tre doni della morte. I tre fratelli, in fondo, chiedono doni per poter vincere, addirittura umiliare la morte o mediante il potere assoluto (la bacchetta di sambuco), o mediante uno sfuggire alla morte rendendosi invisibili alla morte stessa, o mediante la pretesa di poter continuare a vedere i morti come se fossero ancora vivi (la resurrection stone). Il male pensa che il potere, la potenza sia l'arma contro la morte [19], per questo Voldemort non si cura del mantello dell'invisibilità e tanto meno della pietra della risurrezione - egli ha paura dei morti - ma cerca solo l'elder wand.
Il punto è che non il potere ma l'amore può vincere la morte, non perché non ti fa morire fisicamente; in tal senso l'amore è più forte della morte (cf Ct 8,6-7). La totale trascuratezza verso questo aspetto e ciò che è connesso - affetti ed amicizia - costituiscono in realtà la vera debolezza di Voldemort [20]. Il signore oscuro non ama (perciò ha paura dei morti) [21], non ha affetti (è una cosa che non riesce a concepire), non ha amici; raccontando del suo incontro con Tom Riddle in orfanotrofio Silente riferisce che egli aveva una chiara inclinazione alla crudeltà, alla segretezza e al dominio; inoltre provava disprezzo per qualunque cosa che lo legasse (affetti) ad altre persone e lo rendesse ordinario, tanto che anche a scuola non provava affetto per la sua compagnia eterogenea affascinata dalla sua straordinaria abilità e intelligenza (cf V, 323), desiderando solo essere unico, diverso, celebre; era infine isolato e privo di amici veri [22]: è il Signore oscuro, non serve ma si fa servire, non dà la vita per gli amici ma la toglie: agli amici (cf Piton), agli altri (per creare horcrux bisogna uccidere), agli unicorni, la cosa più pura e indifesa (per cui se la uccidi sei maledetto per l'eternità [23]). Voldemort non perdona e non dimentica (IV, 579), due caratteristiche del male, e il suo unico obiettivo è "dominare la morte" [24], sfuggire alla morte [25] rendendosi immortale (cf VI, 440) a qualunque costo, anche quello di uccidere, commettere un omicidio, "l'azione malvagia suprema" (VI, 438): perciò cerca la pietra filosofale, costruisce horcrux, vuole uccidere Harry secondo la profezia e non a caso i suoi seguaci si chiamano deatheater cioè "mangia morte". La morte è la cosa più temuta da tutti [26], ce lo esemplifica il dialogo tra Harry e "Nick quasi senza testa" il fantasma che ha scelto di restare cioè ha scelto una meschina imitazione della vita [27].
Dunque per Voldemort l'unica cosa che conta è il potere, lui non sa niente e non capisce di amore, fedeltà, innocenza. Soprattutto la sua grande debolezza è non afferrare l'enorme potere del sacrificio per amore che trova espressione nell'"antica magia" da lui disprezzata (cf V, 817) così da dire a Silente: «niente di quel che ho visto al mondo ha confermato il tuo famoso principio che l'amore è più potente del mio genere di magia, Silente» (VI, 393). Amare è il potere che ha Harry, come ripete Silente, e che Voldemort non ha mai posseduto e paradossalmente la capacità di amare è il solo potere (cf VI, 448), quello che conta perché in grado di prevalere su ciò contro cui si cerca di accumulare quanto più potere possibile a qualunque costo.
Ciò che vince la morte è l'amore, ma non perché ti risparmia la morte "biologica"; e infatti il sacrificio di Lily dà ad Harry una protezione duratura per cui il signore oscuro non può nemmeno toccarlo [28]; anzi se il signore oscuro fosse riuscito a comprendere l'enorme potere di quel sacrificio non avrebbe osato toccare il sangue di Harry (cf VII, 615). La morte è vinta non perché uno fugge ma perché accetta di morire, come fa Harry; il vero master of death non è colui che si nasconde alla morte ma chi l'accetta consapevolmente per amore (il sacrificio di se stesso) e con la morte può salvare dalla morte.
L'amore non è un "accidente" ma è il final secret, la verità di tutto: l'amore di Lily che vince l'avada kedavra, quell'amore che è accettare, abbracciare la possibilità della morte. Harry è come l'agnello innocente e mansueto portato al macello. Egli accetta e abbraccia il dover morire ("I must die. It must end" [29]) e questa decisione rivela tutto il suo coraggio (ci vuole coraggio per amare!)[30] che lo fa vivere e che si può avere nella misura in cui si viene sostenuti dalla presenza discreta e invisibile (ma non per questo non reale) di chi ci ha amati [31]. La sua è una decisione, non una necessità ("doveva essere una sua decisione" [32]) e Harry sperimenta l'angoscia e il terrore, accettando di essere l'agnello sacrificale[33], come lo definisce implicitamente lo stesso Piton [34]. E si stupisce di poter essere sopravvissuto: «Avrei dovuto morire... non mi sono difeso! Volevo che mi uccidesse [...] ho lasciato che mi uccidesse» (VII, 613); e proprio questo, come dice Silente a Harry, ha fatto la differenza. Ed è sempre una decisione da prendere l'ultimo atto [35], quando Harry decide di tornare nella foresta proibita piuttosto che "prendere un treno a King's Cross" [36].
La potenza della morte, la devastazione del negativo si vince non sfuggendo ma assumendolo su di sé nella dedizione totale e assoluta per amore e questo fa "morire la morte". Hegel ha scritto che la morte disonorante di Cristo in croce ha significato la "morte della morte" e così il sacrificio liberatorio di Harry ci ricorda il senso del morire in croce di Cristo come quell'atto di dedizione e di amore assoluto che ci libera dal male e ci dona una prospettiva di vita nonostante il male e la morte.
Su questo aspetto vorrei spendere qualche parola in più. La morte di Dio è la "morte della morte" che cancella il pensiero più terribile: che tutto ciò che è eterno, che è vero, non sia [37]. Nella morte l'idea divina si è alienata fino all'amaro dolore della morte, alla vergogna del malfattore e proprio grazie a ciò la finitezza dell'uomo si è trasfigurata fino al più alto grado, attraverso l'altissimo amore. Il ritorno nell'infinito dopo l'estrema alienazione è conosciuto nell'evento della risurrezione e nell'ascensione. Nel contenuto dell'intuizione di questo evento è presente questa "morte della morte", la vittoria sulla tomba, il trionfo sul negativo; non si tratta dello spogliarsi della natura umana, di toglierla nuovamente, ma piuttosto la natura umana - scrive Hegel - è «preservata, appunto nella morte, nell'amore supremo; ovvero lo spirito è spirito soltanto come questa negazione della negazione, che contiene quindi in sé il negativo, bensì Dio, come riconciliato, come amore, è questo innalzamento della natura umana al cielo, dove il Figlio dell'uomo siede alla destra del Padre, dove l'identità della natura divina e di quella umana, l'onore di questa appare nella forma suprema dinanzi all'occhio dello spirito» [38]. In quanto Dio si fa uomo (è sé nella negazione come altro da sé) e raggiunge il grado più basso della fragilità, la morte, allora "Dio stesso è morto". Nell'accoglienza in sé della morte e nel suo superamento si manifesta l'identità più vera di Dio come amore. La morte è l'ultima parola solo in quanto "morte della morte", negazione della negazione (superamento dell'astrazione), ritorno di Dio in Dio [39]. Nella morte di Cristo è Dio che ha ucciso la morte fuoriuscendo da essa: nella morte disonorevole si manifesta l'amore infinito di Dio che si è posto identico con ciò che gli è estraneo per ucciderlo e così il finito, il male in quanto tale, è annientato e il mondo conciliato [40]. Perciò nella morte di Cristo è stata "uccisa", nella coscienza dello spirito, la finitezza dell'uomo; il finito, cioè il male in genere, è annullato e il toglimento del male che la morte di Cristo realizza è la riconciliazione.
Che dunque Harry debba alla fine essere considerato un nuovo "redentore"? Non è certo questo il punto di arrivo. Piuttosto ho cercato di mostrare quanto ci sia di "cristiano" in questa saga che è anche una rappresentazione tra il mitico e il fantascientifico del problema dei problemi, cioè la lotta eterna e apparentemente indecidibile fra bene e male, fra la vita e la morte che si affrontano perpetuamente senza che ci siano ragioni certe della vittoria dell'uno o dell'altro. La cosa centrale è che la salvezza, affermazione del bene quale parola riassuntiva dell'essere e qualificante il senso, passa per la vittoria del negativo mediante la sua assunzione, poiché la vita vince solo assumendo la morte, il che può avvenire solo per amore dal momento che l'amore è l'orizzonte ultimo che rende sensato pensare il trionfo del positivo mediante l'assunzione del negativo.
Concluderei qui il mio breve intervento, consapevole che ci sono anche diversi altri i temi davvero straordinariamente presenti nella saga. Penso al tema dell'amicizia, la cosa più importante nella vita, il rischio e il coraggio, il saper valorizzare la diversità degli altri; su tutto il dolore, quello che forgia la vita e che ti permette di vedere cose che altri non vedono (come Harry e Luna che vedono i thestral). Tutte cose su cui ci sarebbe ancora molto da dire e da esplicitare; il detto, in fondo, è solo un inizio.
Note al testo
[1] Mi limito qui a citare alcuni testi tra i più significativi: L. BONOMI, Fenomenologia di Harry Potter. Tra desiderio di bene e sacrificio di sé, Berti, Piacenza 2010; P. CIACCIO, Il vangelo secondo Harry Potter. Come affrontare la vita con la Bibbia in una mano e la bacchetta magica nell'altra, Claudiana, Torino 2011; L.A. MACOR, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte, Mimesis, Milano-Udine 2011; S. REGAZZONI, Harry Potter e la filosofia. Fenomenologia di un mito pop, Il Melangolo, Genova 2008; C. NEAL, Il vangelo secondo Harry Potter. La spiritualità nella storia del più famoso "cercatore" del mondo, Gribaudi, Milano 2003 (il volume è del 2002 quando la saga non era ancora completa).
[2] Si vedano come esempio le durissime di parole di Tertulliano nel De praescriptione haereticorum VII, 9-10.
[3] Tra i diversi testi di Rahner mi limito a citare i seguenti: I cristiani anonimi, in K. RAHNER, Nuovi Saggi, I; Paoline, Roma 1968, 759-772; Cristianesimo anonimo e compito missionario della Chiesa, in ID., Nuovi saggi, IV, Paoline, Roma 1973, 619-642.
[4] J. DERRIDA, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002, 86.
[5] La traduzione italiana dei volumi è stata fatta dall'editrice Salani che nel 2013 l'ha rivista dando vita ad una nuova edizione che è quella dalla quale citerò indicando in numeri arabi il volume seguito dalla pagina: I: Harry Potter e la pietra filosofale; II: Harry Potter e la camera dei segreti; III: Harry Patter e il prigioniero di Azkaban; IV: Harry Potter e il calice di fuoco; V: Harry Potter e l'ordine della fenice; VI: Harry Potter e il Principe mezzosangue; VII: Harry Potter e i doni della morte. Per non appesantire il testo darò per scontato i fatti narrati, limitandomi a richiamare episodi, dialoghi, tematiche o parole.
[6] «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo» (Gaudum et spes, 22).
[7] Cf L. BONOMI, Fenomenologia di Harry Potter, 13-22.
[8] Cf inizio di VII; cap. 24.
[9] La saga di Harry Potter «ha a che fare con l'umano, in quanto tale, con le paure e i desideri che lo alimentano. Niente di straordinario può essere prodotto se sconnesso strutturalmente da quello che definisce noi stessi non solo come individui, ma anche, e soprattutto, come esseri umani. Niente di stupefacente può incatenare per più di un attimo la nostra attenzione se non ci rimanda a domande vere, autentiche, radicate in noi» (L.A. MACOR, Filosofando con Harry Potter, 11-12).
[10] De civitate Dei V, praefatio.
[11] Confessioni X, 20,19.
[12] Confessioni X, 20,29.
[13] De beata vita 2,11.
[14] Cf I, 210-211.
[15] «Non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere» (I, 211).
[16] Cf VI, 561.
[17] Silente quando trova nella casa abbandonata dei Gaunt la pietra della risurrezione perde la testa, dimentica che è un horcrux e scioccamente la infila al dito per richiamare indietro coloro che sono in pace «invece che per consentire il sacrificio di me stesso» (VII, 624). Questo cedimento costerà la vita a Silente, vittima della maledizione contenuta nell'horcrux.
[18] Cf L.A. MACOR, Filosofando con Harry Potter, 59-70.
[19] L'unica cosa che esiste non sono bene e male ma il potere e chi è troppo debole per ricercarlo (cf I, 282).
[20] «Ciò che Voldemort non ritiene importante, non si dà la pena di comprenderlo. Di elfi domestici e storie per bambini, di amore, fedeltà e innocenza Voldemort non sa e non capisce niente. Niente» (VII, 614-615).
[21] Così Silente nel dialogo con Harry nel bellissimo e fondamentale cap. 35 dell'ultimo volume: «Lui ha paura dei morti. Lui non ama» (VII; 624).
[22] «Non ha mai avuto un amico e non credo ne abbia mai voluto uno» (VI, 250).
[23] Cf I, 252-253.
[24] «Conoscete il mio obiettivo: dominare la morte» (IV, 582)
[25] «Niente è peggio della morte, Silente!» (V, 797).
[26] «Che cosa è peggio della morte?» esclama Ron (V, 114).
[27] «"Io avevo paura della morte" sussurrò Nick. "Ho scelto di restare. A volte mi chiedo se non avrei dovuto... be', questo non è né qua né là... in effetti io non sono né qua né là" [...]. Io non so nulla dei segreti della morte, Harry, perché ho scelto questa meschina imitazione della vita» (V, 842).
[28] Il sacrificio di Lily è lo scudo più forte (cf V, 818).
[29] Cf VII; 601.
[30] Si veda il commovente breve dialogo con la madre mentre si dirige verso la foresta proibita (cf VII, 605-607).
[31] «Accanto a lui, quasi senza rumore, camminavano James, Sirius, Lupin e Lily, e la loro presenza era il suo coraggio, la ragione per cui riusciva a mettere un piede dopo l'altro» (VII, 607).
[32] Così nel dialogo con i suoi morti resi visibili dalla pietra della risurrezione: «Sapeva che non gli avrebbero detto di andare, che doveva essere una sua decisione» (VII, 606).
[33] «Il suo compito era dirigersi tranquillamente nelle braccia accoglienti della Morte. [...] Quando si fosse offerto a lui, senza nemmeno alzare la bacchetta per difendersi, l'epilogo sarebbe stato netto [...]. Sentì il cuore battere forte nel petto. Strano che, nel terrore della morte, pompasse più forte, tenendolo energicamente in vita. [...] Il terrore gli si rovesciò addosso. [...] La volontà di vivere era sempre stata più forte della paura della morte. Ma ora non gli venne in mente di fuggire, di correre più veloce di Voldemort. Era finita, lo sapeva, e restava solo la cosa in sé: morire» (VII, 599).
[34] «Ho fatto la spia per te, ho mentito per te, ho corso rischi mortali per te. Credevo che servisse a proteggere il figlio di Lily Potter. Adesso mi dici che l'hai allevato come una bestia da macello...» (VII, 596).
[35] «"Devo tornare indietro, vero?" "Dipende da te". "Posso scegliere?" "Ah, certo" [...]. "Ritengo" rispose Silente, "che se tu scegliessi di tornare, ci sarebbe la possibilità che lui venga battuto per sempre. Non posso garantirlo"» (VII, 625).
[36] Cf la parte conclusiva del dialogo con Silente nel cap. 35. Cf VII, 625-626.
[37] «Dio è morto - questo è il pensiero più terribile: che tutto ciò che è eterno, tutto ciò che è vero non sia, che la negazione stessa sia in Dio; a ciò si connette il dolore supremo, il sentimento della mancanza più completa di vie di scampo, il toglimento di tutto ciò che vi è di più alto» (G.W.F. HEGEL, La religione compiuta secondo il corso di lezioni del 1827, in ID., Lezioni di filosofia della religione, III, a cura di R. GARAVENTA e S. ACHELLA, III, Guida, Napoli 2011, 256).
[38] G.W.F. HEGEL, La religione determinata secondo il manoscritto, in ibid., 89.
[39] G.W.F. HEGEL, La religione compiuta secondo il corso di lezioni del 1824, in ibid., 165.
[40] «Per la vera coscienza dello spirito la finitezza dell'uomo è stata uccisa nella morte di Cristo. Questa morte dell'elemento naturale ha in questo modo un significato universale; il finito, il male in quanto tale è annientato. Il mondo è quindi stato riconciliato, tramite questa morte il male in sé del mondo è tolto. Nella vera comprensione della morte compare a questo punto la relazione del soggetto in quanto tale. Qui finisce la mera considerazione della storia; il soggetto stesso viene coinvolto nel percorso in questione; sente il dolore del male e della sua propria estraneazione, che Cristo ha preso su di sé vestendo i panni dell'umanità, ma che ha anche annientato tramite la sua morte» (G.W.F. HEGEL, La religione compiuta secondo il corso di lezioni del 1827, 257).