Averroè, di Cesare Vasoli
- Tag usati: andalusia, averroe, dante_alighieri
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo dal sito della Treccani la voce Averroè pubblicata nell’Enciclopedia Dantesca (1970). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/9/2015)
Averroè dinanzi al rogo dei suoi libri deciso
dal califfo al-Mansur a Cordoba, nel film egiziano
Il destino diretto dal regista copto Youssef Chahine
Averroè (Averoìs). - Nome usato da D. (v. il latino Averrois) e dagli autori occidentali del suo tempo, per indicare Abū l-Walīd Muhammad ibn Abmad ibn Muhammad ibn Rushd, filosofo arabo nato in Spagna, a Cordova (1126), e morto nel Marocco, a Marràkush, il 10 dicembre 1198. A., che discendeva da un'antica e influente famiglia di giuristi, fu giudice (qādi) prima a Siviglia e quindi a Cordova dove esercitò anche l'arte medica e si dedicò all'insegnamento filosofico in un ristretto cenacolo di amici. Viaggiò poi nel Marocco, continuando le sue osservazioni scientifiche e lo studio dell'astronomia, della medicina, della matematica e della filosofia; qui, nel 1168, Ibn Tufail lo fece conoscere al sovrano almohade Yūsuf che lo accolse nella sua reggia di Marrākush e lo incitò a commentare le opere di Aristotele. Morto Yūsuf, A. fu ancora favorito e protetto dal suo successore Ya' qūb al-Mansūr; e fu proprio grazie alla protezione del potente sovrano che il filosofo, accusato nel 1195 di eresia, poté sfuggire alla pena capitale, commutata nella condanna all'esilio a Lucena, presso Cordova. Nel 1198 A. fu richiamato alla corte di Marrākush dove morì pochi mesi dopo.
Le sue opere più importanti a noi pervenute sono: a) il Kulliyyāṭ at-ṭibb (Principi generali di medicina; il Colliget dei medievali); b) opere filosofiche e trattati separati: 1) Faṣl al-maqāl wataqrīr mā bayna sh-sharī‛ a wa al-ḥikma min al-'ittiṣāl (Sentenza risolutiva dichiarante il modo in cui la filosofia è unita alla religione); 2) al-Kashf ‛an manāhig al-adilla fi‛ aqā'id al-milla wa ta ‛rif mā waqa'a fihā bi-ḥasb at-ta'wil min ash-shubah wa l-bida‛ al-muḍilla (Svelamento del metodo di argomentare sui principi della religione e indicazione sulle ambiguità ed errori eretici dovuti all'interpretazione del testo sacro); 3) Ḍamīmat li mas' alat al'ilm al-qadīm (Aggiunta al problema della conoscenza eterna); 4) Tahāfut al-Tahāfut (L'incoerenza dell'incoerenza, confutazione di al-Ghazzāli); 5) Sulla possibilità della congiunzione fra l'intelletto materiale e l'intelletto separato (conosciuto solo nel testo della traduzione ebraica medievale); 6) Soluzione del problema: eternità o creazione del mondo (conosciuto solo nel testo della traduzione ebraica medievale); c) Commenti aristotelici: 1) Commento Grande (sharh o tafsīr); 2) Commento medio (talkhīs); 3) Compendi o perifrasi (gawāmi‛ o mukhtaṣar).
A. è posto da D. nel castello degli spiriti magni nel Limbo o primo cerchio dell'Inferno (If Iv 144 Averoìs che 'l gran comento feo); è citato in Cv IV XIII 8 (E chi intende lo Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende da lui) a proposito del suo commento al III libro del De Anima di Aristotele (e, appunto, con il nome di Commentatore = Comentator, comunemente usato dagli autori medievali); in Mn I III 9 dove è ricordato ancora il suo commento al De Anima (Et huic sententiae concordat Averrois in comento super hiis quae De Anima ') si allude esplicitamente alla sua dottrina dell'unità dell'intelletto possibile proprio della specie umana; in Pg XXV 63, dove è respinta la tesi averroista dell'intelletto separato ' (quest'è tal punto, / che più savio di te fé già errante, sì che per sua dottrina fé disgiunto / da l'anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto); nella Quaestio 12, a proposito del suo commento al III De Anima, e infine in Quaestio 46 dove, parlando di tutta la potenza della materia come sempre in atto ydealiter nel primo motore, cita un'auctoritas di A. erroneamente (a meno di una glossa marginale) riferita al De Substantia orbis (essa è infatti nel commento alla Metaphysica XII 18). Ma il problema dei possibili rapporti di D. con A. e la tradizione averroistica è molto più complesso e importante di quanto non appaia da queste citazioni o riferimenti; ed è problema di notevole rilievo per un preciso giudizio storico sul carattere della filosofia dantesca e i suoi legami con le maggiori correnti dottrinali del tempo. Il che spiega perché intorno a questo tema (come, d'altra parte, intorno all'influenza esercitata dall'opera di A. nella cultura filosofica e scientifica del XIII e XIV secolo) siano fiorite e continuino a svolgersi discussioni e polemiche di grande interesse.
Difatti il compito fondamentale che A. sembra aver sempre perseguito nella sua attività di commentatore e di filosofo è la ricerca di un criterio metodico di distinzione che permetta di accettare i principi delle scienze e della metafisica aristotelica, senza entrare in conflitto con i canoni della tradizione religiosa e teologica musulmana. Convinto che le dispute tra i seguaci ortodossi della ‘verità’ coranica e gl'interpreti ‘filosofici’ del Libro (come i mutakallimūn o loquentes) siano estremamente pericolose tanto per la filosofia che per la teologia e che, pertanto, la confusa mescolanza di argomentazioni filosofiche e di ‘autorità’ sacre debba essere in ogni caso evitata, A. vuole chiaramente delimitare le rispettive sfere di competenza delle due discipline. E poiché ha piena fiducia nelle capacità logiche e dimostrative del pensiero filosofico, A. esige che i diritti della ragione debbano essere riconosciuti e rispettati, così come debbano essere tutelati, nel loro particolare dominio, i valori della tradizione religiosa dell'Islàm.
Ecco perché uno dei tratti caratteristici della filosofia averroistica è la decisa polemica contro tutti coloro che, come al-Ghazzàli, pretendono di condannare la filosofia e vogliono fondare il predominio assoluto e totale della fede sul riconoscimento della radicale incapacità della ragione umana a conoscere l'insondabile verità divina. Per A., invece, la conoscenza scientifica e filosofica non solo non è necessariamente contrastante con la rivelazione coranica, ma, anzi, ci mostra quanto sia falso e pericoloso concepire Dio "come un re tirannico dotato di sovranità assoluta", estraneo a ogni legge razionale, incomprensibile nella sua totale, ma irrazionale potenza. E, certo, proprio i filosofi hanno insegnato agli uomini che Dio è, al contrario, il primo principio, il fondamento di un ordine razionale che assicura all'intero universo la sua immutabile ed eterna stabilità. "Come i principi mondani si giovano dei propri ufficiali e dei loro sottoposti per diffondere i comandi e farli eseguire in tutto il regno", così, per A., il Dio che la filosofia di Aristotele concepisce come l'Atto puro, la causa prima e il fine ultimo di tutta la realtà, sovrasta e, insieme, ‘ compie’ il cosmo definito nella sua struttura gerarchica, anelante, di grado in grado e di perfezione in perfezione, verso quella purezza e pienezza dell'Essere che solo Dio attua nella sua eterna, immutabile natura. Nell'ordine universale è perciò spiegata e celebrata la divina sapienza che non conosce imperfezione o mutamento; ond'è che proprio studiando le leggi eterne che regolano il mondo, la compiuta disposizione di tutti gli enti e la necessità mirabile con cui svolgono tutti i processi e gli eventi naturali, il filosofo e lo scienziato possono elevarsi alla vera concezione di Dio, concepirlo, insomma, al di fuori di ogni mito e di ogni immagine fantastica.
Questa verità puramente filosofica che la mente umana riesce ad attingere con i suoi naturali procedimenti logici può essere però sempre falsata quando di essa si approprino degl'intelletti naturalmente incapaci di apprenderla e, soprattutto, inadatti a valutare la radicale diversità che distingue la comprensione razionale della natura divina o dell'ordine mondano dalle forme tradizionali della rivelazione. Certo la verità razionale e quella rivelata coincidono sempre nella loro sostanza, sono forme diverse della stessa, unica ‘sapienza’; ma per evitare arbitri ed errori occorrerà sempre sottolineare che i testi sacri possono essere intesi e interpretati a ‘livelli’ molto diversi e che, d'altra parte, non tutte le menti umane sono capaci di accedere a quel grado più alto d'intelligenza in cui si rivela il significato razionale e la verità dimostrativa delle dottrine filosofiche.
Appunto per questo A. distingue tre diverse categorie di intelletti, alle quali corrispondono tre differenti gradi di comprensione. Al sommo di questa gerarchia stanno, infatti, gli ‘uomini di dimostrazione’, la cui mente procede soltanto per mezzo di argomentazioni rigorose e vuole comprendere, la verità mediante dei puri metodi scientifici e logici; al secondo grado sono, invece, gli ‘uomini dialettici’ i quali si contentano delle argomentazioni dialettiche di tipo probabile; e, infine, al più basso, gli ‘uomini di persuasione’ per i quali occorre un discorso di forma retorica, rivolto ad accendere o a frenare i sentimenti e le passioni, a governare, insomma, i desideri, i bisogni e gli istinti.
A ognuna di queste grandi categorie (che A. viene delineando sulla scorta di alcuni celebri passi aristotelici) il Corano dovrà quindi essere letto e interpretato secondo la natura propria del loro ingegno e le diverse capacità intellettive. Sicché, se per alcuni uomini sarà lecito interpretare il testo sacro con i mezzi della riflessione razionale e scientifica, sino a giungere al senso razionale della rivelazione e coglierne l'intima concordanza con le ragioni della filosofia, altri invece dovranno limitarsi a comprenderne solo il senso più diretto o immediato, oppure ad argomentare in forma dialettica intorno ai dati della rivelazione. Ma nel caso in cui sembri nascere un aperto conflitto tra l'espressione letterale del testo sacro e le conclusioni dimostrative della ragione, spetterà sempre all'esatta interpretazione di filosofi di eliminare le contraddizioni apparenti e mostrare l'intima convergenza tra la verità razionale e quella rivelata.
Le conseguenze di questa posizione - che A. ribadisce più volte nei suoi scritti e nei commenti - sono così evidenti che non occorre spendere troppe parole per illustrarle. A. nega infatti recisamente agli ‘uomini di esortazione’ il diritto di interpretare filosoficamente la verità rivelata, così come lascia al semplice popolo il solo obbligo di apprendere attraverso la lettura del Corano quell'elementare e pratica filosofia che vi è contenuta e compendiata, perché, altrimenti, l'indebita confusione tra la norma logica della scienza e il discorso oratorio e retorico di cui deve servirsi il teologo e il maestro della legge genererebbe soltanto errori ed eresie. Ma, al tempo stesso, egli stabilisce una precisa e rigida gerarchia tra i diversi metodi d'interpretazione e d'insegnamento; e mentre pone al più alto fastigio la filosofia che conferisce agli uomini degni la scienza e la verità assoluta, attribuisce alla teologia soltanto il compito d'interpretare il Corano con metodi dialettici e verosimili, e al discorso esortativo dei sacerdoti la funzione di guida pratica per coloro che non possono né debbono ascendere alla conoscenza scientifica o all'argomentazione probabile. In tal modo, per A., questi tre diversi gradi di esplicazione della stessa verità vengono a corrispondere esattamente alle varie nature umane o, per dir meglio, alle varie capacità e possibilità dell'intelletto della specie nella sua individuazione nell'atto del conoscere.
Non v'è dubbio che una simile conclusione può consentire ad A. di difendere l'assoluta libertà della ricerca filosofica e di costruire, sulla scorta delle dottrine peripatetiche, una concezione della realtà del tutto autonoma dalla tradizione ortodossa della rivelazione islamica. Convinto che "la dottrina di Aristotele coincida con la suprema verità", il filosofo arabo non esita ad affermare che lo Stagirita "è stato creato e ci è stato donato dalla provvidenza divina, perché ci fosse possibile conoscere tutto ciò che è conoscibile". Ed è quindi naturale che A. ricorra costantemente alle idee aristoteliche e che su di esse voglia fondare la sua soluzione dei diversi problemi metafisici, gnoseologici, scientifici ed etici. Naturalmente è questo un atteggiamento non nuovo nella stessa tradizione filosofica araba, sempre dominata dalla massiccia e imponente presenza dei testi peripatetici. Ma in misura molto maggiore degli altri interpreti e filosofi islamici, A. è consapevole che le dottrine di Aristotele sono state spesso piegate ad esigenze squisitamente teologiche e che, pertanto, esse debbono essere reinterpretate con la massima fedeltà alle loro intenzioni originali, liberandole dalle deformazioni e confusioni che vi sono state introdotte da commentatori troppo legati, come Avicenna, a preoccupazioni mistiche, o inclini a leggere i suoi testi con la mente già condizionata da altre esperienze filosofiche troppo lontane e diverse. Certo, anche A. non riuscirà mai a liberarsi dalla potente influenza neoplatonica che opera su tutti i filosofi arabi ed ebraici del Medioevo attraverso l'intermediario dei commenti ellenistici e la diffusa presenza di testi di origine plotiniana e procliana; ed è significativo che egli accetti nel canone aristotelico opere che sono appunto di schietta natura e derivazione neoplatonica. Nondimeno nei Commenti aristotelici e, in special modo, nel Commento grande è evidente lo sforzo di distinguere nella tradizione aristotelica araba gli elementi genuini e originari dalle interpretazioni platonizzanti e dai temi mistici introdotti dalle dottrine di al-Farabi e di Avicenna. E si tratta, indubbiamente, di un atteggiamento che avrà ripercussioni e conseguenze di eccezionale importanza non solo nella cultura filosofica dei paesi islamici ma anche in quella delle scuole occidentali che sentiranno fortemente l'influenza dei metodi e dei propositi del commento averroistico.
La sostanziale adesione di A. ai fondamenti della metafisica e della fisica aristotelica spiega, d'altra parte, perché la sua dottrina diverga in molti punti da quella di Avicenna e degli altri filosofi arabi che l'hanno preceduto, e perché anzi egli rivolga le sue maggiori critiche proprio a talune concezioni rese popolari nella cultura araba dalle opere del filosofo persiano. A. nega infatti decisamente che l'esistenza sia soltanto un ‘accidente’ che si aggiunge all'essenza, così come respinge la visione avicennistica della realtà concepita come una trama di essenze gerarchicamente ordinate, alle quali si aggiunge, a parte, l'esistenza. La sostanza è invece identificata con gli individui esistenti nella loro concreta attualità; e pertanto tutto ciò che esiste è tale nella sua reale unità di ‘sinolo’, irriducibile alla composizione avicennistica dell'essenza e dell'esistenza. Il concetto di sostanza, nella sua accezione più propria, indica appunto la quidditas o essenza reale che determina ogni individuo a essere quello che è; ed è così che alla concezione univoca della realtà delineata da Avicenna, si sostituisce una considerazione analogica dell'essere individuale, attenta piuttosto alla particolarità propria di ciascuno di essi che non alle loro astratte strutture universali. Nondimeno ogni individuo esistente è sempre un certo genere di ‘essere’, giacché la sostanza, l'accidente, la quantità, la qualità e tutte le altre categorie hanno la comune funzione di designare sempre qualcosa che è; e dunque tutte le categorie sono sempre in rapporto con l'essere, anche se questo sempre si determina in individuazioni particolari. Sicché la metafisica, scienza che studia l'‘essere in quanto tale’, dovrà illuminare con un procedimento rigorosamente logico la struttura intrinseca dell'essere e analizzare la sua individuazione nelle esistenze concrete.
Ecco perché, secondo A., l'analisi metafisica deve sempre muovere dall'individuo così come ci si presenta nell'esperienza; ma gli oggetti sensibili non sarebbero conoscibili se non possedessero una natura comune che l'intelletto è capace di astrarre. Con questo A. non intende affermare che esistano idee separate dagl'individui o che gli ‘universali’ abbiano una realtà metafisica distinta da quella delle sostanze particolari esistenti. Anzi, in aperta polemica con le tendenze platonizzanti delle dottrine avicenniste, egli afferma che i termini universali sono soltanto il risultato dell'attività dell'intelletto che, astraendo la natura comune dalle sostanze particolari, permette di conoscere gli individui in modo universale, salvando insieme la concretezza e l'universalità del sapere.
Per quanto concerne la struttura concreta dell'individuo e dei suoi processi di sviluppo, A. si richiama, anche in questo caso, alle nozioni fondamentali della filosofia di Aristotele. Nell'individuo, composto di materia e di forma, è sempre in atto un processo dalla potenza all'atto; e ogni mutamento di carattere quantitativo o qualitativo, come ogni moto di traslazione o di generazione, è sempre una manifestazione o un aspetto di tale processo. Richiamandosi alla concezione peripatetica del movimento, secondo la quale tutto ciò che è in moto è mosso da un ‘motore’, A. ritiene che ogni moto o mutamento debba sempre presupporre, per necessità, l'esistenza in atto di un principio o causa che lo generi. Ma non si potrebbe intendere il moto universale del cosmo se ci limitassimo soltanto a supporre l'esistenza di un numero infinito di cause, ognuna delle quali muovesse altre cause inferiori e fosse mossa, a sua volta, da altre cause superiori. In tal caso ci si limiterebbe soltanto a rinviare all'infinito il fondamento e la ragione del moto, senza mai giungere a una vera spiegazione razionale; sicché è necessario ammettere delle cause prime, le quali muovano senza essere mosse, e siano dunque perfettamente ‘in atto’ e prive di ogni ‘potenza’. Ecco perché A. accetta l'esistenza di sostanze separate e immateriali che presiedono al movimento dei corpi celesti; ed ecco, ancora, perché, allo scopo di assicurare la compiutezza e la perfezione della loro azione, egli presuppone la loro immutabile eternità e, quindi, conclude che la stessa durata dell'universo nel tempo sia eterna.
Su questi principi è appunto costruita la dottrina averroistica dei motori celesti che il filosofo arabo svolge particolarmente nei suoi Commenti al De Coelo, discutendo le dottrine degli astronomi greci e arabi. Per A. questi motori muovono le diverse sfere celesti, sotto l'impulso del desiderio che ognuno di essi prova per quell'atto o intelligenza da cui dipende e che rappresenta il fine della sua attività. Mirando a realizzare quel pensiero che è per esse la perfezione attuata, le singole sfere celesti si muovono; e il loro moto è origine e principio di tutti gli altri moti naturali. Tuttavia le stesse intelligenze che muovono le sfere celesti possiedono un'attualità e perfezione di grado diverso; ed esse pure, conoscendo sé stesse e l'intelligenza immediatamente superiore che è la loro causa, partecipano all'universale desiderio che muove tutto il cosmo. La loro gerarchia culmina infatti nel primo motore immobile, prima intelligenza separata, assoluto principio la cui unità e perfezione determina tutto l'ordine razionale della realtà e l'esistenza in atto di ogni singola sostanza. Da Dio, motore immobile, il movimento si propaga infatti per tutto l'universo, dal cielo delle stelle fisse alle sfere dei singoli pianeti, sino alla sfera della luna il cui motore origina l'intelletto agente, causa attiva della conoscenza per tutta la specie umana. Questi moti, pur nella diversità delle loro cause particolari, hanno però il loro primo e sostanziale fondamento nel desiderio universale dell'essere che domina tutta la realtà, nella comune, eterna aspirazione a quell'atto che è causa e ragione dell'universo. Perciò Dio è, al tempo stesso, causa e fine, principio e termine necessario dell'ordine cosmico; ed è il solo essere che non subisca mutamento o divenire, pur essendo la fonte e l'origine di ogni mutamento e di ogni moto.
Al di là della sfera della luna si stende, poi, il mondo materiale, costituito dai quattro elementi la cui diversa commistione, sempre regolata dagl'influssi delle sfere astrali, causa la nascita delle piante, degli animali e di tutti gli esseri viventi. Le forme proprie di questi individui sono appunto determinate dall'intelletto agente che, ultima delle intelligenze separate, le possiede ab aeterno e determina così la materia, concepita da A. come un puro sostrato del tutto passivo. Ma l'opera dell'intelletto agente non è soltanto limitata a questo atto informatore; al contrario, esso svolge una funzione determinante nell'attuazione della conoscenza umana, la quale non potrebbe mai compiersi se non intervenisse, a realizzarla, un principio separato, già in atto.
A., fedele, come sempre, alla dottrina peripatetica, ritiene, infatti, che anche nell'ambito dei processi conoscitivi debba valere il principio metafisico essenziale del passaggio dalla potenza all'atto; e afferma, appunto, che le immagini tratte dai sensi non sono ancora ‘concetti’, bensì soltanto e semplicemente delle ‘possibilità’ o disposizioni a ricevere i concetti. Tale tendenza o possibilità è costituita dall'intelletto ‘passivo’ proprio di ogni individuo, e anzi legato così strettamente alla sua natura corporea che la sua stessa sopravvivenza è impensabile ove perisca quel corpo che individua ogni singola esistenza e fornisce, con i suoi sensi, la materia della conoscenza. Né, certo, l'intelletto passivo potrebbe mai giungere al possesso degl'‘intelligibili’ se non intervenisse sempre a illuminarlo l'intelletto ‘agente’, la cui funzione è spiegata da A. (come del resto dallo stesso Aristotele) con il richiamo analogico all'incidenza determinante della luce nel processo fisiologico della visione. Proprio come l'occhio dell'uomo non può scorgere le figure o i colori senza la presenza della luce, l'intelletto passivo non può ricevere gl'intelligibili se non è illuminato dalla virtù superiore dell'intelletto agente. L'illuminazione che esso opera fa sì che gl'intelligibili contenuti in potenza dall'intelletto passivo passino in atto; e, in tal modo, si costituisce l'intelletto ‘materiale’ che non è affatto un ente corporeo e nemmeno un'altra sostanza separata distinta dall'intelletto agente, ma, al contrario, la particolare individuazione dell'intelletto agente in un'anima singola e determinata. Nel momento in cui l'intelletto materiale ha raggiunto la sua compiuta perfezione e ha realizzato gli universali, esso si trasforma in intelletto ‘acquisito’, cioè nella conoscenza ormai compiuta e definitiva.
Non v'è dubbio che una simile interpretazione delle dottrine gnoseologiche aristoteliche, presentata da A., susciti gravi problemi, specialmente impegnativi per una cultura come quella islamica (ma il discorso non è diverso per la tradizione teologica e filosofica cristiana) legata all'accettazione di alcuni principi dogmatici (immortalità e sopravvivenza dell'anima individuale) ormai ben definiti da una lunga tradizione scritturale. E, certo, il punto più difficile è costituito dalla determinazione filosofica del carattere proprio dei singoli principi che intervengono nel processo conoscitivo e della loro relazione con l'unità concreta e particolare del singolo individuo. Ora è evidente che il filosofo arabo concepisce l'intelletto agente come una sostanza separata, ben diversa dalla natura individuata della mente umana; ma egli non si limita a questa tesi, non molto lontana del resto dalla soluzione di Avicenna, bensì afferma che anche l'intelletto materiale è ugualmente unico per tutti gli uomini e non appartiene ai singoli individui più di quanto non appartenga ai vari corpi la luce che li illumina. L'intelletto, "non generabile e non corruttibile", estraneo a ogni determinazione individuale è, proprio perché tale, capace di ricevere le forme universali che non potrebbero essere mai comprese da un intelletto individuale. Se è vero che la conoscenza avviene sempre in modo singolo, nei diversi individui, e che l'universale si particolarizza nei singoli atti d'intenzione, ciò accade soltanto perché l'intelletto, pur restando sempre identico, si unisce, in ciascun individuo, con quelle immagini o predisposizioni sensibili che sono proprie delle varie nature.
Non occorre sottolineare quali siano le conseguenze della dottrina averroistica dell'intelletto (che, del resto, riprende soluzioni e idee già proposte da Simplicio), soprattutto nell'ambito della problematica dell'anima della dottrina dell'individualità. Per prima cosa, la scienza e, in generale, il sapere umano hanno ormai una loro continuità universale ed eterna alla quale i singoli individui possono soltanto partecipare nella limitata dimensione temporale della loro esistenza, ma che resta, tuttavia, identica e immutabile, al di fuori di ogni particolare e limitata esperienza e conoscenza dei singoli. In secondo luogo, poi, la sola realtà veramente eterna che sia dato di cogliere in ogni individuo umano è costituita soltanto dall'intelletto agente, mentre l'intelletto possibile è proprio dell'intera specie umana e l'intelletto materiale e l'intelletto in atto sono ugualmente diversi e distinti dalle individualità che ne partecipano. Sicché parrebbe inevitabile che la dissoluzione del singolo composto umano non lasci sussistere nessun elemento individuale immortale, ma che anzi l'unica immortalità pensabile sia quella propria di tutta la specie umana che, del resto, come tutte le altre specie naturali, non ha avuto origine e non avrà mai fine, perché necessariamente ‛ integrata ' nell'ordine cosmico la cui eternità è, per A., un postulato indiscutibile. Distaccandosi nettamente dalla dottrina elaborata da Avicenna, con l'evidente proposito di conciliare le idee di Aristotele con la tradizione religiosa islamica, A. sembra così proporre una soluzione del problema dell'intelletto del tutto estranea a qualsiasi preoccupazione di salvaguardare il dogma dell'immortalità individuale. E, invero, l'unico modo in cui il singolo individuo può aspirare all'immortalità è la sua partecipazione, sempre transitoria, all'eterno, divino splendore della scienza universale.
Simili dottrine non potevano non suscitare un'aspra reazione da parte dei teologi musulmani e dei filosofi ortodossi, reazione che fu appunto particolarmente grave durante gli ultimi anni di vita di A., quando - come s'è detto - l'accusa di empietà e di eresia gli costò l'allontanamento dalla corte marocchina e il breve esilio in Spagna. E già allora due temi furono al centro delle polemiche e delle condanne: l'idea che il mondo sia eterno, come vuole Aristotele, e non creato nel tempo come affermano concordemente le religioni ebraica, islamica e cristiana, e la sostanziale negazione dell'immortalità individuale che sembrava emergere dalla dottrina averroistica dell'intelletto. A. si difese richiamandosi naturalmente a quella distinzione metodica fra filosofia, teologia e fede che aveva sempre sostenuto per cautelare l'indipendenza dell'indagine filosofica e l'autonomia del commento razionale alla ‛ verità dimostrativa ' illustrata nei testi di Aristotele. Ma si comprende che tale principio fosse difficilmente sostenibile in una società come quella musulmana nella quale l'unità politica s'identificava perfettamente con l'unità della fede, e anche il filosofo e l'uomo di scienza non poteva sfuggire, come del resto anche i maestri delle scuole occidentali cristiane, all'osservanza di determinate verità di fede, fissate ormai da una rigorosa tradizione dogmatica. Di fronte all'evidente contrasto tra l'indagine filosofica che, interpretando Aristotele e i suoi antichi commentatori, giunge necessariamente a riconoscere l'unità dell'intelletto della specie umana e la dottrina di fede che sostiene l'immortalità dell'anima individuale, A. accentuò però, in modo ancor più netto, la distinzione tra i diversi modi in cui può presentarsi la stessa verità. E se affermò di "concludere per necessità logica" che l'intelletto è uno, dichiarò però di accettare "fermamente, per fede" la dottrina coranica dell'immortalità. Con questo suo atteggiamento il filosofo arabo non intendeva probabilmente contestare la tradizione religiosa della sua gente, o presentare una "scusa volpina" (come sarà detto poi in Occidente) per le sue idee eterodosse, bensì piuttosto rafforzare la sua idea fondamentale che occorresse sempre distinguere le diverse interpretazioni o espressioni della "giusta e vera dottrina" che è sempre una nella sostanza, anche se muta la forma con cui essa dev'essere proposta ai vari tipi di mente umana. Ché, anzi, A. sembra accettare la stessa professione di fede come un omaggio doveroso o necessario a quel nucleo di vera filosofia popolare racchiuso nelle pagine immaginose del Corano, così come riconosce che anche il filosofo, almeno in quanto cittadino, deve professare quelle dottrine e osservare quelle norme religiose che hanno valore di leggi civili e sulla cui utilità e necessità nei confronti del popolo semplice e degl'indotti egli non nutre, del resto, alcun dubbio. Tuttavia il riconoscimento di quest'obbligo, che non è soltanto religioso, ma piuttosto civile e politico, non significa che A. rinunzi ai diritti dell'indagine filosofica che deve sempre perseguire la pura verità dimostrativa, spogliata di ogni espressione mitica e di ogni adornamento retorico. La religione e la filosofia possono, anzi debbono sussistere, l'una insieme all'altra, così come sempre coesistono le leggi logiche della ragione e le leggi etico-politiche indicate dalla tradizione rivelata; ma l'una non deve prevaricare sull'altra, né tanto meno cercare di predominare in quel dominio che è estraneo ai suoi compiti e ai suoi fini.
La diffusione delle dottrine averroistiche in Occidente propose, naturalmente, anche ai filosofi e ai teologi cristiani gli stessi problemi che già avevano affrontato i loro colleghi islamici. E se la fortuna dei Commenti averroistici contribuì in larga misura a presentare ai latini la stessa dottrina aristotelica entro la particolare problematica delineata dal filosofo arabo, con la netta insistenza nella distinzione di fondo tra filosofia e fede, i temi più pericolosi dal punto di vista teologico furono ben presto al centro di dispute e di polemiche che andarono sempre più aggravandosi sino alle condanne parigine del 1277. Con tutto questo, e nonostante le aspre contese che divisero il mondo scolastico soprattutto a Parigi, l'opera di A. esercitò un'influenza eccezionale su tutta la cultura filosofica del XIII secolo e continuò poi ad agire profondamente anche sugli uomini di scuola e, in genere, sugl'intellettuali del Trecento, soprattutto in quegli ambienti, come le università di Padova e Bologna, dove particolarmente intensa fu la presenza e l'influenza dei testi scientifici e filosofici arabi. Gli studi del Grabmann, del Nardi e del Kristeller hanno ben documentato questa influenza in ambienti italiani e su personalità che vissero e operarono tra la fine del Duecento e il maturo Trecento. Ma basta pensare all'opera di un maestro particolarmente noto a D., come Alberto Magno, per riconoscere la profonda incidenza di taluni principi metodologici e di certi criteri tipici del commento averroista anche in un filosofo e teologo di aperta ed evidente ortodossia; incidenza che è, del resto, tanto più vasta e decisiva, quanto la materia trattata è più lontana da dirette implicazioni teologiche e l'analisi dei testi aristotelici si riferisce semplicemente ai ‘naturalia’.
Non v'è quindi da meravigliarsi che anche D. nelle sue opere abbia avuto presenti e adoperati testi e dottrine di A., conosciute sia direttamente sia, soprattutto, pel tramite di Alberto Magno e Sigieri. E le ricerche del Nardi hanno ormai ben chiarito, nei singoli particolari, l'uso dantesco dei commenti averroistici o, più in generale, di dottrine e concezioni che si richiamano alla cultura filosofica e scientifica araba e alle interpretazioni che i testi aristotelici avevano subito in un ambiente pervaso di profonde influenze neoplatoniche e mistiche. Pur senza accettare le fantasiose conclusioni di alcuni autori che hanno forzato questo aspetto della cultura dantesca sino a costruirvi ipotesi e interpretazioni critiche di dubbia consistenza, è dunque ormai assodato che A. è una delle fonti filosofiche e scientifiche di D., così come lo sono altri scienziati e filosofi arabi, ben noti, in quegli anni, a tutti gli uomini di dottrina e agli scolastici occidentali. Più importante, e oggetto ormai da tempo di discussioni e sottili confronti esegetici, è però un altro problema che sembra investire la stessa sostanza della filosofia dantesca, almeno nel periodo in cui cade la stesura della Monarchia. È noto che D., distinguendo il fine ‘naturale’ da quello ‘soprannaturale’ dell'uomo, afferma (Mn III XV 7) che se il primo consiste nella fruizione della visione beatifica di Dio che la mente umana non può raggiungere nisi lumine divino adiuta, il secondo è compiuto con il raggiungimento della felicità mondana e consiste nell'operazione della virtù intellettiva propria dell'uomo. Questa distinzione apre però la via a conclusioni assai interessanti, perché D. altrove dichiara espressamente che per l'attuazione piena dell'intelletto umano non è sufficiente l'opera dei singoli individui, bensì l'intera umanità di cui l'individuo è parte: Et quia potentia ista per unum hominem seu per aliquam particularium comunitatum superius distinctarum tota simul in actum reduci non potest, necesse est multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia haec actuetur; sicut necesse est multitudinem rerum generabilium ut potentia tota materiae primae semper sub actu sit: aliter esse' dare potentiam separatam, quod est inpossibile (Mn I III 8). E aggiunge ancora (§ 9) che con tale opinione concordat Averrois, in comento super hiis quae De anima. Questo passo ha naturalmente fornito occasione ad analisi e interpretazioni molto contrastanti che hanno visto impegnati alcuni dei maggiori studiosi del pensiero dantesco e, in particolare, il Nardi e il Gilson. Se il primo ha avvicinato tale concenzione dantesca alla teoria dell'intelletto possibile unico e ‘separato’ per tutta l'umanità, che è, certo, dottrina ispirata da A. e affermata recisamente anche dagli averroisti latini, il Gilson ha invece voluto distinguere tra il punto di partenza indubbiamente averroistico dell'argomentatazione e la conclusione finale di D., il quale ritiene sì necessaria la humana civilitas perché si attui la potenza dell'intelletto, ma solo per la ragione che il singolo individuo non potrebbe mai bastare da solo a raggiungere quel fine (rinviamo alla voce INTELLETTO POSSIBILE per quanto concerne lo sviluppo della discussione tra i due dantisti e i risultati ai quali essi sono rispettivamente pervenuti). Giova però sottolineare, in ogni caso, l'indubbio valore, in un contesto così delicato, della diretta citazione dantesca di Averroè. Tuttavia, nel testo già citato di Pg XXV 63, D. allude indubbiamente ad A. proprio per giudicare erronea la concezione dell'intelletto possibile separato; il che induce a una più cauta valutazione dei rapporti tra D. e la tradizione averroistica, almeno nel tempo in cui la sua esperienza filosofica si è già fissata nella definitiva intuizione della Commedia.
Bibl. - 1) Edizioni delle opere di A.: per un elenco particolareggiato degli scritti di A., cfr. M. Bouyges, Notes sur les philosophes arabes connus des Latins au Moyen Age. V. Inventaire des textes arabes d'A., in Mélanges de l'Université St. Joseph, Beirut 1922-1923. Per le edizioni delle opere filosofiche: I nn. 1, 2, 3 sono stati pubblicati da M.J. Müller, Monaco 1858 e, in successive edizioni, al Cairo nel 1895-1896 e 1910, I nn. 1-2 a c. di G.F. Hourani, Averroes, On the Harmony of Religion and Philosophy, Londra 1961; I nn. 1, 3 sono stati inoltre pubblicati con traduz. francese a c. di L. Gauthier, A., Traité décisif (Façl elmaqâl) sur l'accord de la religion et de la philosophie, suivi de l'appendice (Dhamima), texte arabe, traduction franfaise remaniée, Algeri 19483; il n. 3 è stato ancora edito con traduz. latina di Raimondo Martin (sec. XIII), a c. di M. Asín Palacios, in Homenaje a Codera, Saragozza 1904. Edizione critica del n. 4 a c. di M. Bouyges, in Bibl. arab. Scholasticorum, s. araba, Beirut 1930. Edizione del n. 5 parziale con traduz. tedesca in L. Hannes, Des A. Abhandlung: " Ueber die Möglichkeit der Conjunktion ", Halle 1892. Edizione del n. 6 in appendice a M. Worms, Die Lehre von der Anfangslosigkeit der Velt bei den mittelalterlichen arabischen Philosophen, in " Beitràge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters " III 4, Münster 1900. Edizioni dei commenti aristotelici (c): 1) Commento grande alla Metaphysica, ediz. critica del testo arabo di M. Bouyges, in Bibl. arab. Scholasticorum, s. araba, m, Beirut 1932; al De Anima, ediz. critica, traduz. latina mediev. Commentarium magnum in De Anima ', a c. di F. Stuart Crawford, in Corpus Commentariorum Averrois in Aristotelem, della Mediaeval Academy of America, versione lat. VI I, Cambridge (Mass.) 1953. 2) Commento medio alle Categorie, ediz. critica testo arabo, a c. di M. Bouyges, in Bibl. Arab. Scholasticorum, s. araba, III, Beirut 1932; alla Rhetorica, testo arabo a c. di F. Lasinio, Il Commento medio alla Retorica di Aristotele, Firenze 1875-78 (incompiuta); alla Poetica, testo arabo a c. di F. Lasinio, Pisa 1872, e, a C. di Abdurrahman Badawi, Aristoteles, De Poetica, Il Cairo 1953; al De Generatione et corruptione, traduz. dal testo arabo e dal testo ebraico e versioni latine a c. di S. Kurland, in Corpus Comm. Averrois in Aristotelem, trad. inglese, IV 1-2, Cambridge (Mass.) 1958. L'edizione del testo ebraico, sempre a c. del Kurland, in Corpus Comm. Averrois in Aristotelem, trad. ebraica 1-2, ibid. 1958. Il Talhīs mā bía‛ d al-tabi'a è stato edito, a c. di O. Amìn, Il Cairo 1958. 3) Compendi o parafrasi: alla Physica, De Caelo, De Generatione, Meteorologica, De Anima, Metaphysica, nel testo arabo, sotto il titolo: Rasa' il Ibn Rushd, Haiderabad 1947; De Anima, in A. Fuad Ahwani, Talkhīs, kitāb al-nafs, Il Cairo 1950; Metaphysica, in M. Al-Qabbani, Fi'il tiqat al-aqwaīl, Il Cairo 1903-1907; De Sensu, testo arabo a c. di A. Badhawi, Aristutalis fi al-nafs, Il Cairo 1954; Parva naturalia, ediz. critica traduz. latina mediev. di A.L. Shields, in Corpus Comm. Averrois in Aristotelem, trad. latina VII, Cambridge (Mass.) 1949; ediz. critica traduz. ebraica di H. Blumberg, in Corpus Comm. Averrois in Aristotelem, trad. ebraica VII, ibid. 1954; Republica di Platone, ediz. critica traduz. ebraica mediev. di E.T.J. Rosenthal, ibid. 1956. Cfr. inoltre: Die Metaphysik des A., nach den arabischen übersetzt und erläutert von M. Horten (" Abhandlungen zur Philosophie und ihrer Geschichte, hrsg. von B. Erdmann ", 36), Lipsia 1912; Nachdruck, Francoforte sul Meno 1965. Il Kulliyyāt at tibb è stato pubblicato sotto il titolo Quitab al Culliat, Larache 1939. Le versioni latine dei commenti di A. ad Aristotele e di alcuni suoi scritti di filosofia e di scienza furono pubblicate nell'editio princeps delle opere .di Aristotele con i commenti di A. (Padova 1472, 1473, 1474) e riprodotte, in seguito, in varie edizioni cinquecentesche tra le quali le più complete sono quelle di Venezia 1552 e, ancora, 1560, in undici volumi. Si ricordi che nelle edizioni cinquecentesche le traduzioni latine medievali dall'arabo furono progressivamente sostituite da traduzioni condotte sulle versioni ebraiche.
II) Studi: tra la vasta bibliografia su A. segnaliamo le opere di maggiore interesse: E. Renan, A. et l'averroisme, Parigi 18612; L. Gauthier, La théorie d'Ibn Rochd (Averroès) sur les rapports de la religion et de la philosophie, ibid. 1909; P.S. Christ, The psychology of the active intellect of A., Filadelfia 1926; H.A. Wolfson, Plan of a Corpus Commentariorum A. in Aristotelem, in " Speculum " VI (1931) 412-427; L. Gauthier, Ibn Rochd, Parigi 1948; M. Alonso, Teologia de A., Madrid-Granada 1947; B.H. Zedler, A. and the immortality, in " The New Scholasticism " XXVIII (1954) 436-453; T. Allard, Le rationalisme d'A. d'après une étude sur la création, Parigi 1955; R. Angelisanti, Problema Dei existentiae in systemate Ibn Rusd, Gerusalemme 1956; S. Gomez Nogales, El destino del hombre a la luz de la noética de A., in L'homme et son destin d'après les penseurs du moyen âge, Actes du Ier Congrès International de la Philosophie Médiévale, Lovanio-Bruxelles 1958, Parigi 1960, 285-304; M. Cruz Hérnandez, La libertad y naturaleza social del hombre según A., ibid. 277-283; Ph. Merlan, A. über die Unsterblickheit des Menschengeschlechtes, ibid. 305-311; R. Arnaldez, La pensée religieuse de A. La doctrine de la création dans le " Tahāfut ", in " Studia Islamica " VII (1957) 99-114; m., La pensée religieuse de A. L'immortalité de l'âme dans le " Tahàfut ", ibid. IX (1959) 23-44; G.F. Hourani, Ibn-Rushd' defence of philosophy, in The IVorld of Islam, Londra 1960, 145-158; R. Teske, The end of man in the philosophy of A., in " The new Scholasticism " XXXVII (1963) 431-461; A. Tallon, Personal Immortality in A. " Tahāfut al-Tahāfut ", ibid. XXXVIII (1964) 341-357.
Sul problema dei rapporti tra A. e la filosofia dantesca cfr. principalmente: B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, passim; ID., D. e la cultura medievale, Bari 19492, 97-99, 105-106, 111-114, 116-118, 172-173, 187-209, 261-264, 272, 287-288, 302, 312-315, 398-399; ID., Nel mondo di D., Roma 1944, 226-227, 233-236, 253; ID., La filosofia di D., in Grande Antologia Filosofica IV, Milano 1954 (specialm. 1157-1158); ID., Studi di filosofia medievale, Roma 1960, 58-68; ID., Dal " Convivio " alla " Commedia ", ibid. 1960, 9-10, 40-43, 46-48, 59-60, 80-90; 140-141, 195; ID., Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 5-6, 20-25, 28-31, 32-35, 58-59, 76, 239, 243, 248, 279, 298, 364, 379. Cfr. anche É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 19532, 169-172, 210-212, 214, 215, 219, 260, 300, 304, 317.