I preti e la nascita dell’alpinismo, di Paolo Papone

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 31 /08 /2015 - 13:02 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione di una relazione di Paolo Papone, tenuta a Valtournenche, presso il Centro Congressi, il 19/8/2015. Il testo non è stato rivisto dal relatore stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (31/8/2015)

Didier Berthod

La struttura del corpo umano predispone una gerarchia di valori legata all’altezza, perché la testa è in alto e i piedi in basso, per cui è davvero spontaneo vedere nell’alto ciò che è più nobile, “elevato”, e quindi pensare il cielo come luogo del divino e leggere la montagna come punto di massima elevazione della terra (mons da emineo), asse del mondo, soglia di contatto col divino. Già per questo fondamentale motivo simbolico esiste un’affinità tra montagna e uomini di religione.

Esiste peraltro un’ambivalenza: la montagna può mostrare una sacralità positiva, ma può anche rovesciarsi nella portatrice di morte, mostrando così l’altra faccia, legata alla credenza in dèi e demoni. Si tratta però di un aspetto che, nel contesto delle Alpi, va ridimensionato, soprattutto a partire dal XVI secolo, pensando al capillare lavoro compiuto dal clero cattolico, ma anche dalle chiese riformate, per rimuovere ogni forma di superstizione e ogni residuo di paganesimo.

L’alpinismo è certamente rapporto con la montagna. Ma parlare delle origini dell’alpinismo non significa soltanto parlare delle origini del rapporto con la montagna, perché la storia si fa dai documenti. Ora, non sempre chi vive le cose le descrive pure. In montagna si è sempre andati, per la caccia e per il contrabbando, per preghiera e per diletto; ma solo qualcuno ha raccontato la sua esperienza in montagna. E, se è vero che la letteratura di montagna abbonda a partire dal Settecento, non è affatto vero che si vada in montagna solo da allora. Per raccontare un’esperienza ci vuole la cultura necessaria per esprimersi e ci vuole un pubblico interessato al racconto. Il clero aveva certamente la cultura che serviva a raccontare e a mettere in valore il rapporto con la montagna. Aveva anche un pubblico interessato? La risposta non è ovvia, perché l’interesse c’era di sicuro, ma chissà se si volgeva alla lode o al biasimo...

Per trovare un resoconto “alpinistico” bisogna attendere il secolo XIV e la penna di un poeta, Petrarca, che nell'ambito ecclesiastico tentò dapprima di avere incarichi dalla corte papale ad Avignone, e poi di fare un po' di carriera ecclesiastica ricevendo gli ordini minori. Mentre ancora si trova in Provenza, Petrarca fa la sua esperienza montana-spirituale e la racconta a un amico frate agostiniano. È il 26 aprile 1336 – giorno che viene considerato “la data di nascita dell’alpinismo”, ma è una definizione che lascia il tempo che trova – quando Petrarca insieme con il fratello Gherardo e due servi sale il Mont Ventoux, in Provenza, 1912 m s.l.m.

«Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. [...] Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che«l’ostinata fatica vince ogni cosa». Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglioil desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani».

Sottolineo che in quella rupe scoscesa e inaccessibile c’era comunque un sentiero, anzi, più di uno, come si evince dal testo seguente: un sentiero è un segno ovvio di frequentazione, per cui il merito alpinistico di Petrarca non sta sicuramente nell’aver “aperto una via”, ma nell’essere stato il primo a raccontare l’esperienza del salire, che è un aspetto per nulla trascurabile dell’alpinismo. E questo raccontare trascolora in riflessioni squisitamente spirituali, occasionate dalla tendenza del poeta a evitare la fatica del salire cercando sentieri piani o discendenti. Arrivati in cima, Petrarca estrae il libretto delle Confessioni di sant’Agostino e ne legge una sola frase, che gli basta a stimolare un serio esame di coscienza:

«E gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti e gli enormi flutti del mare, le vaste correnti dei fiumi e il giro dell'Oceano e le rotazioni degli astri, e non si curano di se stessi».

Molto interessanti le parole di Agostino: paiono segnalare prodromi di romanticismo intorno al 400 d.C., o almeno una sensibilità che sa gustare le forme estreme della natura. Vien da pensare che l’alpinismo sette-ottocentesco non sia affatto nato dal nulla ma abbia avuto una ben lunga preparazione.

L’ascensione del Petrarca non è un fatto isolato rispetto alla cultura del tempo. Solo una ventina d’anni più tardi troviamo un importante oggetto d’arte e di spiritualità, il Trittico del Rocciamelone, datato 1° settembre 1358. Si tratta di un raffinato ex-voto di bottega fiamminga, in ottone inciso a soggetto mariano, che l’astigiano Bonifacio Rotario o Roero portò sulla cima del Rocciamelone (m 3538 s.l.m., ben più alto del Mont Ventoux), dove divenne mèta di pellegrinaggio. Di fatto sessant’anni più tardi, nel 1418, il duca di Savoia Amedeo VIII “il pacifico” salì sulla vetta del Rocciamelone per consacrare i propri Stati alla Madonna che lì si venerava, quella del trittico di Bonifacio Roero.

Nel 1492 re Carlo VIII, passando nel massiccio del Vercors, fu colpito dalle pareti verticali del Mont Aiguille, che gli parve una fortezza che espugnare sarebbe stata impresa eroica; per soddisfare il desiderio del re, Antoine de Ville si mosse con una decina di compagni, tra i quali pure degli ecclesiastici, e con tutti gli ausilii di cui disponeva (roba da assedio) e conquistò la cima. Si consideri che, attualmente, la via più facile per salirvi è di III-IV grado. Giunto in vetta, piantò tre croci nei cantoni e fece celebrare la messa, poiché si era fatto accompagnare da ecclesiastici (certamente non impacciati nell'arrampicare), dopodiché mandò una lettera al Parlamento di Grenoble per far venire a constatare la conquista e avvertire il re che il suo desiderio era stato soddisfatto.

Se la vetta piana del Mont Aiguille era il più bel luogo mai visto, per Antoine de Ville, anche le montagne svizzere hanno saputo stimolare un’attenzione appassionata nei loro abitanti. Ne abbiamo riscontro in una lettera anteposta a un’opera scientifica del 1545, dell’elvetico Conrad Gesner, teologo e naturalista, che apre così:

«Ho deciso d’ora innanzi, fino a quando per volere del cielo mi sarà concessa vita, di salire ogni anno alcuni monti, o almeno uno, mentre i piedi sono buoni, in parte per la loro conoscenza, in parte per un buon esercizio del corpo, e per il godimento dell’anima. Hai davvero idea di quanto sia il piacere, di quante delizie ci siano per l’anima e, come è naturale, per l’emozione, nell’ammirare le moli immense dei monti, e alla fine innalzare il capo tra le nubi? Non so come accade che la mente per l’ammirevole altitudine resta sgomenta, e viene rapita nella considerazione del suo sommo Architetto. [...] Gli appassionati della sapienza continuano a contemplare gli spettacoli di questo paradiso terrestre con gli occhi corporei e con quelli dell’anima: tra questi non sono certo gli ultimi le elevate e dirupate cime dei monti, i precipizi inaccessibili, l’enormità dei fianchi in tensione verso il cielo, le rupi scoscese, le selve ombrose. [...] Dico dunque che è nemico della natura chiunque non ritiene che i monti altissimi siano molto degni di grande contemplazione. Sì, l’altitudine dei monti più elevati sembra aver già superato la sorte di ciò che sta più in basso, aver scampato le nostre tempeste, come se si trovasse in un altro mondo».

Intorno al 1585-87, il francescano p. Jacques Foderé descrive i ghiacciai di Chamonix e il modo di andarci a quell'epoca:

«Les paysants qui sont contraints passer ces glaciers, soit pour la chasse ou autre occasion, quoyqu’ils portent aux pieds des grappes d’acier bien cramponnées, quelques-uns tombent en ces fentes, d’où a fallu avoir des cordes de six vingts toises [ca. m 40] pour les retirer».

Da segnalare, in questa pagina tardocinquecentesca, la frequentazione dei ghiacciai in epoca antica, con gli antesignani dei ramponi, e le operazioni di soccorso alpino con tanto di corde.

Nel Settecento il clima culturale intorno alle montagne va rapidamente cambiando. Rinnegata l’eredità medievale del principio di autorità, gli uomini di scienza escono dai loro studioli per andare a vedere, misurare, sperimentare sul campo.

Cresce un interesse entusiastico per la natura, e la montagna diventa un eccezionale campo di studi, perché in montagna tutte le forze naturali si trovano esaltate: temperatura, pressione, umidità, elettricità, tutto viene misurato, dalla profondità delle acque dei laghi allo spessore del ghiaccio, fino a roba più originale come l’azzurro del cielo. E tutto viene osservato, dai fiori al modificarsi dei crepacci. Ovviamente le misure e le osservazioni vanno contestualizzate, e di qui nasce l’esigenza di precisare la topografia. Si instaura poi un circolo virtuoso, per cui la migliorata conoscenza dei luoghi permette e induce a frequentarli di più, e così la conoscenza degli stessi aumenta.

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) svolge un’efficace opera di propaganda per l’incipiente turismo nelle montagne svizzere quando, nel suo romanzo La nouvelle Eloïse, del 1761, delinea un suggestivo quadro idealizzato dell’alta montagna e dei suoi benefici effetti :

«Sulle alte montagne dove l’aria è pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo più agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni assumono lassù non so che carattere grande e sublime […]. Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza».

Nel 1741-42 vennero l'inglese Windham e il ginevrino Pierre Martel a visitare la zona di Chamonix; non furono certamente i primi a interessarsi ai ghiacciai; tuttavia i loro resoconti si diffusero prima come manoscritti e relative sintesi, poi a stampa, ed ebbero un notevole influsso nel diffondere un’attenzione appassionata alla montagna. Interessanti sono le prime notazioni sulle superstizioni relative alle montagne:

«Les habitants de ces contrées disent que ces vallées de glace ont été autrefois habitées et qu’il y avoit un très bon nombre de maisons, mais qu’une fée qui présidoit sur le pays, ayant reçu quelque mécontentement des habitants, les maudit et que, depuis, leur pays a toujours été couvert de glace. Ils font un conte à peu près semblable d’un géant. Ils disent que ces montagnes, qu’ils nomment souvent Maudites, sont les habitations des démons, des sorciers et des esprits immondes que les prêtres exorcisent et relèguent dans ces lieux inhabités. [...] Ils sont tous fermement persuadés que la glace des glaciers se produit par une espèce de végétation tant l’été que l’hiver».

Dalle testimonianze di Windham e Martel emerge con buona evidenza quella che oggi chiamiamo “la piccola glaciazione” (1550-1850). Tale mutamento climatico rende inutilizzabili gli alti pascoli e inospitali territori ben antropizzati in epoca più alta. Sicuramente si estremizzano i valori meteorologici e l’estendersi dei ghiacciai accentua l’aspetto orripilante della montagna.  Questo crea evidenti problemi a chi vive in quelle zone difficili: si pensi alle processioni con le reliquie per fermare le inondazioni causate dal lago glaciale del Rutor, o agli esorcismi tuttora praticati contro le valanghe (cfr. Elevaz, 2 gennaio, san Defendente), intese come opera malefica del nemico del genere umano.

Al tempo stesso i problemi costituiscono sfide, ed è probabile che quel territorio che si presenta sempre più come inaccessibile divenga oggetto di curiosità, paradossalmente interessante proprio in quanto respinge. E i preti accettano questa sfida, da sempre, se l’Encyclopédie parigina del 1757 (voce Glaciers, vol. VII) cita la storia di un prete cacciatore avventuratosi su ghiacciaio e caduto in un crepaccio, ritrovato vivo e salvato dopo un giorno di permanenza nel ghiaccio.

Il personaggio più emblematico di questa fase illuministica di approccio alla montagna è certamente lo svizzero Horace-Bénédict de Saussure. Botanico di formazione, si interessa alle Alpi; volendo misurare l’altezza del Monte Bianco, fin dal 1760 promette una ricompensa a chi troverà la strada per arrivarvi in cima. Ce la faranno Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard nel 1786; l’estate successiva De Saussure stesso vi si fa condurre da un’équipe di 17 guide più il suo servitore; montata una tenda in vetta, incomincia le misurazioni.

Resta il fatto che la mentalità illuminista fa certamente fare dei grandi passi avanti alla scienza, ma prende pure delle derive razionalistiche talmente basse che stimoleranno reazioni. Si pensi a Julien Offray de la Mettrie, che nel 1747 pubblica L’homme machine e l’anno successivo L’homme plante, trattati prettamente materialistici, che escludevano dall’uomo la dimensione immateriale, simbolica, spirituale. Gli scienziati illuministi avevano portato la montagna all’onor della cultura, eliminandone le componenti superstiziose popolari; però la montagna non è soltanto “misurabile”, ha un impatto sull’uomo e sulla sua componente immateriale, spirituale: pur passando attraverso i sensi, tocca delle corde profonde e le mette in risonanza.

È questo che capiranno gli uomini del romanticismo, sensibili, emotivi, immaginatori, anche tremendamente autocentrati, che vanno in montagna e la raccontano con la loro epica dell’esplorazione, dell’eroismo e della conquista della vetta.

Le componenti fondamentali del Romanticismo si riescono a intuire nei quadri di William Turner (1775-1851), che ha preso molta della sua ispirazione proprio nelle montagne della Valle d’Aosta. Il movimento che, verso la fine del Settecento, ha preparato il Romanticismo, aveva nome Sturm und Drang: tempesta e impeto, realtà che in alta montagna si vivono da mozzare il fiato e mettere in pericolo la vita. L’uomo romantico ha un rovello interiore, che è la tensione verso l’infinito; gli orizzonti a perdita d’occhio che si aprono dalle cime, se non saziano quella tensione, quantomeno la soddisfano per un istante. L’esaltazione romantica dell’irrazionale trova una bella concretizzazione proprio nell’impresa alpinistica, quella che è stata definita “la conquista dell’inutile” (Lionel Terray, 1961) a prezzo di fatiche e rischi sempre sproporzionati. L’esotismo trova in montagna il luogo “altro”, dove fuggire dalla realtà. Il soggettivismo riconosce nella materialità travagliata della montagna i travagli interiori dell’uomo che vi si aggira. La religiosità e la spiritualità ritrovate dopo la terra bruciata dell’Illuminismo recuperano l’ancestrale dimensione simbolica del monte come asse del mondo e luogo di incontro con il divino. In alternativa, se in montagna tutto è “eccedente”, fino a rasentare l’assoluto, l’uomo che vi si muove è un titano, che torna vittorioso o muore da eroe. D’altra parte, la montagna genera nel cuore un timore e una percezione di fragilità che si traducono nel senso del sublime, così che diventa bello ciò che suscita orrore e spavento.

Un peso importante nella costruzione dell’immaginario alpino l’ebbe George Byron (peraltro non compreso nella sua valenza dolorosa originaria), cui si deve la metafora dell’alta montagna come “tempio” massimo della natura, metafora riletta da John Ruskin (1819-1900) che definì le Alpi “le cattedrali della terra”, e poi continuamente ripresa tra i preti alpinisti. Tuttavia la letteratura romantica della prima metà dell’Ottocento non spingeva all’esplorazione e alla conquista delle vette, poiché le guardava come luoghi talmente idealizzati di rapporto tra umano, divino e natura da sconsigliarne il degrado causato dalla presenza umana. Ecco la citazione estesa di Ruskin, che fu accolto tra i primi membri dell’Alpin Club britannico (Sesamo e gigli, 1865):

«Voi avete disprezzato la natura, cioè tutte le sensazioni profonde e sacre che i paesaggi risvegliano. I rivoluzionari francesi hanno trasformato in scuderie le cattedrali di Francia, voi avete trasformato in campi di gara le cattedrali della Terra. La vostra sola concezione del piacere è questa: passeggiare in ferrovia lungo le loro navate e fare un picnic sui loro altari... Considerate le Alpi stesse, che i vostri poeti hanno così appassionatamente amato, come alberi da cuccagna, sui quali vi ritenete in dovere di salire per poi discenderne lanciando urla di gioia. Quando non potete neppure più urlare... riempite il silenzio delle valli con il vostro fracasso e tornate a casa, rossi per l'orgoglio, e così felici da singhiozzare convulsamente per la vanità soddisfatta».

Tra le varie componenti romantiche non va dimenticata l’idea di popolo, con la deriva del nazionalismo; pensiamo soprattutto a quello britannico, che pare usare la conquista delle vette alpine come il sostituto simbolico delle colonie nel contesto europeo, per affermare la superiorità dominante del Regno Unito, seppure con lo stile understatement di un enjeu sportivo. In questo senso, e ben prima della travagliata conquista del Cervino, è divertente ricordare la salita del Pelmo, nelle Dolomiti bellunesi, dell’irlandese  John Ball, scienziato, botanico e alpinista, nonché primo presidente del primo club alpino, l’Alpin Club inglese. Il Pelmo (3168 m) fu la prima vetta dolomitica ufficialmente conquistata, nel 1857, e il Coolidge scrive, fiero del suo connazionale: «la première sommité importante des Dolomites sur laquelle l’homme ait posé le pied». Ball era accompagnato da un cacciatore che non volle arrampicare l’ultima cresta, affermando che era «croda morta», chissà se nel senso di “senza selvaggina”, oppure di pericolosa: comunque per il cacciatore la vetta non aveva un significato in sé, mentre l’aveva per lo scienziato che doveva effettuare misurazioni e per l’alpinista che vi vedeva la mèta del suo ardire. Tuttavia è necessario ricordare che, proprio scendendo dal Pelmo, Ball incontrò il parroco di Zoppé, don Alessio Marmolada, il quale commentò l’impresa dell’inglese paragonandola con il versante di Zoldo, dichiarato ben più difficile, dimostrando così di conoscere per esperienza entrambi gli itinerari.

Insomma, in questa situazione culturale che volge lo sguardo e i passi verso le montagne, preti e religiosi sono protagonisti fin da subito. Da sempre i preti sono formati dalle Sacre Scritture, forse più dal loro linguaggio che dal loro effettivo contenuto. Nella Bibbia non esistono montagne sacre, anche se il Dio che si rivela a Israele si presenta come un Dio della montagna. In Es 19 il monte Sinai è sacro, non può essere toccato, ma solo perché e mentre è in corso la manifestazione divina, e comunque anche in quel momento Mosè vi può salire e ricevervi le tavole dell’alleanza. Per il resto, l’unico monte santo della Bibbia è il monte Sion, ovvero la piccola altura (800 m s.l.m.) dove è costruita Gerusalemme, ed è sacro solamente perché è sede del tempio, dove è permanente la presenza divina. I monti sono invece considerati opera delle mani di Dio: «Emergono i monti, scendono le valli, al luogo che hai loro assegnato» (Sal 104,8). E Dio stesso concede a chi confida in lui di calcare le alture: «Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle alture mi fa camminare» (Ab 3,15). Se poi san Paolo afferma che gli ebrei nel deserto «bevevano da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (1 Cor 10,3), ecco che le rocce possono perfino diventare terreno d'elezione per un itinerario che travalica dall'alpinismo alla spiritualità...

Sta di fatto che, già qualche anno prima che Balmat e Paccard trovassero la via per la vetta del Monte Bianco, nel 1779 il canonico del Gran San Bernardo Laurent-Joseph Murith (1742-1816), sale il Mont Velan (m 3734), consapevole di essere alla massima altitudine probabilmente raggiunta fino ad allora. Il canonico Murith aveva già fatto da guida al De Saussure, nel 1767 e nel 1778 al ghiacciaio di Valsorey, e nello stesso 1778 aveva accompagnato il ginevrino Marc-Théodore Bourrit al ghiacciaio d’Otemma.

Nel 1782 un benedettino dei Grigioni, dom Placidus Spescha (1752-1833), inizia una vera carriera d’alpinista, portata avanti fino in tarda età, sempre con la difficoltà di trovare chi lo accompagnasse nelle salite. Anche lui, come De Saussure, aveva principalmente interessi scientifici, che gli costarono molte incomprensioni dai suoi confratelli; la sua passione cartografica gli costò l’accusa di spiare per conto dei Francesi.

Sull’entusiasmo della conquista del Monte Bianco, il vicario generale della diocesi di Gurk (Carinzia), suggerì al vescovo-principe, il conte Franz von Salm (1749-1822), di propugnare e finanziare la salita della più alta montagna d’Austria, il Grossglockner (3798 m). Nel 1799, in seguito al tentativo di due montanari che vi erano giunti molto in alto, il vescovo fece costruire un rifugio in legno sul versante sud-est della montagna, che permise in quell’anno di conquistare il Kleinglockner. L’anno dopo, il vescovo stesso organizzò una nuova spedizione e vi si aggregò, anche se non arrivò in cima. Il 28 luglio 1800 furono cinque persone a effettuare la traversata dal Kleinglockner al Grossglockner, tra le quali vi era il parroco di Ragensdorf, don Mathias Hautzendorfer che, prima di attraversare l’ultima forcella, diede ai quattro gli ultimi sacramenti (appunti di don Franz Joseph Horasch, parroco di Dœllach). Il giorno successivo una grande croce di ferro venne piantata sulla vetta, insieme con un barometro, da altri membri della spedizione, tra i quali il giovane Valentin Stanič. Quel giorno memorabile, eretta la croce sulla vetta del Grossglockner, Stanič si arrampicò sulla pertica che i suoi compagni avevano fissato vicino alla croce dicendo di voler salire più in alto del Glockner e di tutti quelli che vi erano saliti... Stanič poche settimane più tardi farà la prima salita del Monte Watzmann (2713 m, Alpi Settentrionali Salisburghesi), e pure lui giungerà al sacerdozio. Egli vive la montagna con un entusiasmo e un sentimento ben diversi dallo spirito dello scienziato, ma anche da quello del teologo (non accenna mai al Creatore, davanti allo spettacolo sublime delle vette); è piuttosto attento all’uomo, come pastore d’anime e come alpinista, e scrive relazioni realmente alpinistiche, rivolte a chi voglia ripetere la salita senza guida.

Nel 1802 la Marmolada viene salita (si fermano a un'anticima 50 m sotto la vetta) per la prima volta da altri tre preti e la relazione specifica “recreationis et curiositatis causa”, insomma nello spirito dell’alpinismo moderno, più di due secoli fa. In discesa uno dei tre preti si allontana per guardare camosci, e non viene più ritrovato. La tragedia viene commentata così:

«e arrivando ai ghiacciai, decise di proseguire da solo nonostante gli avvertimenti dei suoi compagni di viaggio che si preparavano a tornare indietro. Procedette, senza curarsi dei terribili rischi e, nonostante le intense ricerche dei suoi compagni, non venne più ritrovato vivo. Che riposi in pace! Ma trai un insegnamento e un suggerimento da questa disgrazia: parroci di ogni dove, restate a casa a leggere, studiare e pregare».

Il Monte Rosa, fin dal 1778, vide una sorta di gara tra i gressonari e quelli di Alagna. Incominciarono quelli di Gressoney, andando a esplorare oltre il Colle del Lys, dove si favoleggiava di una valle perduta. Nel 1801 il dott. Pietro Giordani venne da Alagna a conquistare lo sperone che oggi porta il suo nome (4046 m). Significative quanto allo spirito dell'alpinismo dell'epoca, sono le parole della sorella di Giordani, al figlio, il teologo Giuseppe Farinetti, appassionato di montagna:

«È inutile ragionare con voi altri quando siete invasi da questa disgraziata febbre dei monti, tanto non ascoltate nessuno. Anche mio fratello il medico, tuo zio, ci prometteva qualche volta di non andare più e poi, una bella mattina, addio promessa, eccolo via di nuovo».

Il 5 agosto 1819 il gressonaro Johann Niklaus Vincent salì la punta a quota 4215 e le diede il suo nome; cinque giorni dopo vi saliva il parroco di Gressoney, Bernfaller, canonico del Gran San Bernardo. Da Gressoney mossero Joseph Zumstein, il summenzionato Johann Niklaus Vincent e suo fratello minore Joseph, i quali nel 1820 conquistarono la Zumsteinspitze (4563 m). Nel 1822 il barone austriaco Ludwig von Welden salì la punta a quota 4342 m dedicandola al re Luigi IX, da cui “Ludwigshöhe” ("altezza di Luigi").

Alagna riprese l’iniziativa con il suo parroco, don Giovanni Gnifetti (1801-1867), che nel 1842 sale la punta del Monte Rosa che oggi porta il suo nome, previo allenamento mirato e con una spedizione organizzata in modo scientifico. Nelle sue parole si coglie una interessante impostazione mentale:

«Non per motivo di studiare botanica, mineralogia e geologia, né collo scopo di fisiche osservazioni (che di tali scienze mi è forza dichiararmi poco istrutto), io ho sempre prediletto con particolare passione le torreggianti vette dei monti; ma per la sola naturale vaghezza di contemplare più davvicino la magnificenza delle opere del Sommo Creatore; poiché gli effetti e le meraviglie della sua potenza divina non si presentano a mio credere in un modo più distinto e sublime, quanto dalle sommità di quelle rocce scabre e da quelle colossali piramidi della natura, sovra le quali assiso l’uomo favorito da un cielo splendido e sereno, misura coll’occhio un orizzonte senza confine».

Gnifetti organizzò diverse spedizioni, prima di riuscire a conquistare la Signalkuppe, affinando il metodo: imparò così a valutare e scegliere i membri della spedizione, a organizzare i campi intermedi, a rispettare i tempi dell’acclimatamento e a individuare il regime alimentare migliore. Egli era di chiare simpatie liberali e filomonarchiche (che equivale a dire non schierato a difesa del potere temporale del papa), ed editò nel 1845 le Nozioni topografiche del Monte Rosa, una vera guida turistica ante litteram, che si rivolgeva a un ipotetico visitatore d’élite, che sarebbe realmente comparso sulla scena negli anni a seguire, quando sarebbe nato il fenomeno del turismo alpino.

Un personaggio contemporaneo e analogo a don Gnifetti fu il nostro Georges Carrel (1800-1870), uomo di fede, di scienza, di montagna, di pubbliche relazioni, di lunghe vedute riguardo alle possibilità di sviluppo turistico legate all’alpinismo. Canonico di Sant’Orso, insegnante di scienze naturali e poi di diritto, osservatore meteorologico e astronomico, cofondatore dell’Académie Saint-Anselme e della Société de la Flore Valdȏtaine, socio onorario del Club Alpino di Torino, poi diventato Club Alpino Italiano, fondatore della succursale di Aosta e suo presidente, amico di alpinisti inglesi, promotore del turismo in Valle d’Aosta e delle sue strutture, come la ferrovia Ivrea-Aosta (nel 1855 venne pubblicato Aperçu sur l'utilité d'établir un chemin de fer d'Aoste à Ivrée, ma il canonico non vide l'opera realizzarsi, perché la ferrovia raggiunse Aosta solo nel 1886), un tunnel sotto il Menouve verso la Svizzera (iniziato dalle due parti nel 1856 e presto abbandonato per i costi eccessivi; era comunque la prima idea del genere, in assoluto, un secolo prima del traforo del Gran San Bernardo), la strada consortile Châtillon-Valtournenche (terminata nel 1891),  scrittore di guide turistiche e di libri che hanno fatto conoscere la regione nel mondo.

La poliedrica apertura del Carrel trova conferma nel suo contribuire alla fondazione (1841) e alla redazione del primo giornale valdostano, la Feuille d’annonce d’Aoste, di chiara tendenza liberale. Se non compie vere e proprie imprese alpinistiche, però si adopera perché la gente vada in montagna, facendo costruire rifugi (Comboé, la Cravate del Cervino, l’osservatorio Signal Sismonda) e scrivendo articoli sulla Feuille. Con vera lungimiranza seppe moderare le velleità di chi pensava di fare del Cervino materia di speculazione. Infatti il 10 gennaio 1866, davanti al notaio Martin Luc Lucat di Châtillon, Gabriel Maquignaz, proprietario terriero, allevatore e albergatore (Hotel Jumeaux al Breuil) aveva affittato il Cervino (dal limite dei pascoli fino in cima, con diritto di passare e di far passare, di costruire e di ospitare e così di ottenere guadagno e beneficio) a una società formata dal parroco di Valtournenche Michel Joseph Chasseur, dal muratore valsesiano Agostino Tamone, e dalla guida locale Elie Jean Baptiste Pession (affitto per 9 anni e £ 450). Il canonico Carrel aveva una ben altra concezione della montagna, seppure non disgiunta dallo sviluppo turistico e alpinistico; come seppe del contratto, convocò i contraenti nel suo canonicato ad Aosta e li convinse a cassare il contratto, del quale venne pagata solo la prima annualità (£ 50). Carrel fu uno di quei preti che, cresciuti durante la Restaurazione, seppero trovare nella passione per la montagna il contesto in cui avevano sintesi una fede profonda e solare, l’interesse per la scienza e una grande vitalità personale.

Che preti erano, questi protoalpinisti dei decenni centrali dell’Ottocento? Se si considera il clima sociale, politico, culturale, si possono considerare dei mediatori. Da un lato c’era il pensiero liberale, il sistema capitalistico, il progresso scientifico e tecnologico, lo stato moderno, insomma una società in evoluzione, verso la secolarizzazione; dall’altro lato c’era la Chiesa che cercava di difendere o di ritrovare un ruolo autorevole, e c’erano le popolazioni rurali, tradizionaliste e conservatrici. In mezzo c’erano loro, questi preti liberali aperti al nuovo, che si presentava nella montagna come nella modernità, l’una e l’altra da affrontare tenendo salde nelle mani l’umanità e la fede. La montagna per essi rientrava nella cura d’anime e nella conoscenza del territorio, un territorio che poteva diventare occasione di crescita per la popolazione locale, grazie al turismo e all’alpinismo che stavano aprendo nuove prospettive.

Tuttavia alla metà del XIX secolo qualcosa cambia, complice il momento critico del 1848 e le contrapposizioni sempre più dure che ne seguono. L’argomento montagna/alpinismo esce dalla stampa cattolica (giudicato troppo mondano dalle gerarchie) e prende piede in quella laica e borghese, portando in dote quei valori “elevati” dei quali il laicismo aveva bisogno per legittimarsi come alternativa alla tradizione religiosa. Un’occasione perduta per il mondo cattolico, non fosse che sacerdoti originali, o almeno non del tutto allineati, come Georges Carrel e Amé Gorret poterono autorevolmente inserirsi proprio in quei contesti laici, anzi, laicisti con i loro talenti di alpinisti e di scrittori. Erano certamente degli enfants du pays, ma erano anche fior d’intellettuali, capaci di dialogare alla pari con borghesi e aristocratici, ed ebbero un ruolo di primo piano nelle nascenti istituzioni alpinistiche, che pure erano essenzialmente formate da cittadini. E se andava sempre più aumentando il divario sociale tra classi superiori e ceti popolari, questi preti poterono svolgere ancora un ruolo di mediazione e di legame. Lo fecero davvero “ognuno a modo suo”, e furono modi decisamente peculiari.

Pierre Chanoux (1828-1909) venne nominato rettore dell’Ospizio del Piccolo San Bernardo nel 1859 e ci restò per cinquant’anni, fino alla morte. Era un incarico che si adattava bene al suo temperamento e alla sua passione per la montagna, che lo condusse a compiere ogni anno (dal ’48 all’88) qualche incursione alpinistica in tutta la Valle d’Aosta. Affermò:

«Figlio della montagna, sono stato lieto di essere nominato Rettore di questo Ospizio, mi sono alpinizzato come un camoscio e divenni, per così dire, un alpinista perpetuo, cioè vivente sulla cima delle Alpi a 2200 metri e seppellito nella neve nove mesi all’anno, e libero di salire, arrampicare e raggiungere le cime più o meno elevate delle Alpi occidentali».

Con la sua passione di botanico si mostrò erede della tradizione scientifica settecentesca, e la concretizzò realizzando dapprima un osservatorio meteorologico all’Ospizio e poi creando un giardino botanico poco distante. Amico dell’abbé Henry, altro grande prete alpinista, gli raccontò le sue “prime” nella zona del Rutor: Doravidi, Miravidi, Grisana [?],Vedettes, Grand Assaly, Têtes du Rutor, Becca du Lac. Molte salite, negli anni 1854-55, le condivise con Mons. Duc, futuro vescovo di Aosta. Con la virtù dell’accoglienza sviluppata come rettore dell’Ospizio, fu veramente un uomo di mediazione e di dialogo. Passati gli anni di più forte contrapposizione tra Chiesa e Stato liberale, a un congresso valdostano del 1899 poté dire:

«Non potete essere dei buoni cattolici senza essere dei buoni patrioti».

E ancora:

«L’azione cattolica deve avere come scopo principale riportare alla Chiesa i liberali, gli indifferenti e i miscredenti di ogni colore […]. Per questo bisogna uscire dalla sagrestia e mettersi in contatto con la gente del mondo, specialmente con la borghesia liberale».

Sacerdote di profonda spiritualità, contemplativo ed eremita per missione, seppe comunque vedere le ricadute di sviluppo che potevano venire dall’alpinismo e dal turismo. Si diceva “istintivamente alpinista” e se dell’alpinismo non fu un grande, è solo perché in quegli anni l’andar pei monti fece un decisivo salto di qualità: ormai le vette che rimanevano da conquistare richiedevano una preparazione e una dedizione sostanzialmente professionale.

Joseph-Marie Henry (1870-1947), meglio noto come l'abbé Henry, fu pastore d'anime e uomo di cultura, appassionato d'alpinismo, di botanica e di storia. Collaborò con l'abbé Chanoux per creare il giardino Chanousia al Piccolo San Bernardo, ne realizzò uno nella sua Courmayeur, celebrò per primo la messa sulla vetta del Monte Bianco (1893), salì un enorme numero di vette, dando nome ad alcune, promosse l'alpinismo di massa portando fin quasi in vetta al Gran Paradiso un asino, che chiamò Cagliostro (1931). Fu presidente della Société de la flore valdôtaine (1901-1941), scrisse la più diffusa opera divulgativa di storia valdostana (1929): L'Histoire populaire religieuse et civile de la Vallée d'Aoste.

Dal 1855 le montagne delle Alpi occidentali, e in particolare valdostane, attirano fortemente l’attenzione degli alpinisti, che le conquistano una dopo l’altra. Anche se la conquista alpinistica non comporta proprietà effettiva ma solo ideale, comunque l’idea della conquista porta con sé bandiera e patriottismo, e quel tempo fortemente segnato dal nazionalismo vide gli alpinisti inglesi rubare la scena, i quali univano alle componenti romantiche suaccennate anche un patriottismo d’una qualche intonazione imperialistica. Peraltro, tra gli alpinisti inglesi di quel momento, un ruolo non secondario ebbero i ministri del culto anglicano: con il loro semplice essere quello che erano, diedero un senso religioso profondo e vissuto all’andar pei monti. Menzioniamo almeno i due fratelli Smyth – il rev. Christopher e il rev. Grenville – e il rev. Charles Hudson ai quali si deve (con due altri compagni e quattro guide) la prima salita alla Punta Dufour (13 luglio 1855); i tre reverendi ci presero gusto e, senza guide, quindici giorni dopo si inventarono una nuova via di salita al Monte Bianco, da Saint-Gervais per il Dôme du Goûter. Dieci anni più tardi il rev. Hudson era con Whymper in vetta al Cervino e, qualche istante dopo, scendendo precipitava dalla parete nord; quando il suo corpo venne recuperato, tutti pregarono in loco con il suo breviario.

In una sorta di ecumenismo ante litteram, dall’altra parte del Cervino, a rianimare Carrel e compagni dopo la delusione di vedere l’inglese precederli sulla vetta fu l’abbé Amé Gorret, che si sacrificò quasi in cima per permettere il passaggio decisivo e l’apertura della via italiana. Don Amé Gorret diede man forte al canonico Georges Carrel nel soffiare sul fuoco dell’entusiasmo per la conquista del Cervino, mettendo in evidenza le importanti conseguenze economiche di una tale impresa, che avrebbero coinvolto tutta la Valtournenche, per cui sarebbe stato importante che la prima salita fosse italiana.

Amé Gorret ebbe vita raminga e vagabonda, aiutato da qualche amico prete come il parroco di Cogne Chamonin, anche lui appassionato di montagna, e soprattutto da amici del C.A.I. di rilievo, come Budden che gli procurò una collaborazione pagata settimanale al giornale Touriste di Firenze, offrendogli così l'occasione di fare conoscere la Valle d'Aosta e le sue montagne. Dopo questa esperienza troppo breve,  nacque l'idea di compilare la Guide de la Vallée d'Aoste che, sostenuta dal direttivo del C.A.I., vide la luce nel 1876. Nella sua autobiografia, l'abbé Gorret motiva questa sia fatica compilativa con l'evitare l'ulteriore fatica di dover scrivere ogni volta le medesime informazioni a tutti gli amici e conoscenti alpinisti che gliele chiedevano, però l'impostazione e il linguaggio rivelano chiaramente la finalità divulgativa turistica della "Guida". La medesima sensibilità si riscontra qua e là nelle relazioni d'ascensione, valga per tutte quella del Cervino:

«L'ascension du Mont Cervin sera toujours une grande entreprise; mais, avec quelques préparatifs, quelques travaux, on peut la rendre possible à ceux qui ont l'instinct et l'habitude des montagnes. Dans plusieurs endroits, il faudrait planter des boucles de fer dans le roc et y passer une corde à laquelle on se tiendrait pour sûreté. J'apprends avec plaisir que le Club Alpin de Turin prend au sérieux la proposition de M. le chanoine Carrel, de creuser une caverne dans la roche vive, à l'endroit nommé la Cravate ou le Collier de la Vierge. En présentant un abri sûr et la possibilité de séjourner par le mauvais temps, cette cabane rend l'ascension non plus seulement possible, ma je dirais presque facile».

Il Cervino resta il Cervino. Più turistica è l'attenzione dell'abbé Gorret quando, nella relazione d'ascensione della Punta Garin, parla della valle di Cogne, dove è stato viceparroco in ottima intesa con il parroco-alpinista Chamonin:

«La vallée de Cogne me paraît devoir devenir un endroit favorisé par les touristes, un point central d'excursion sur les Alpes Graies. Sa belle et riante position, qu'on est tout surpris de rencontrer après les affreux défilés qu'il faut traverser pour y parvenire, ses pics nombreux dominés par la Grivola, le Grand Paradis et le Grand St-Pierre; ses importants glaciers, dont les masses énormes semblent à chaque instant vouloir vous écraser; disons encore le costume original et tout particulier des habitants de cette vallée, leurs mœurs et coutumes à part, leur physionomie même; sans compter les riches et nombreuses mines que renferment les montagnes de ce pays et les vingt-deux cols qui échancrent cette grande vallée, tout invite les amateurs d'excursions alpestres à aller passer quelques jours de vacances à Cogne».

Bella ed esplicita è la lettera del 4 giugno 1867 a J.B. Rimini, topografo dello Stato Maggiore e segretario del Club Alpino di Torino:

«La saison des course alpestres va s'ouvrir, nos chères montagnes ne seront certainement pas oubliées; elles sont si belles, elles présentent de si beaux points de vue! Bientôt, fatigués de leurs longs travaux sédentaires de l'hiver, plusieurs se souviendront qu'ils ont un alpenstock, des souliers ferrés et un petit sac de voyage; ils se rappelleront qu'il est de pays où l'air est pur, la chaleur plus que supportable; pays dans lesquels ils retrouveront à la fois la santé, les forces, tout l'attrait de la nature et de l'étude; pays où ils oublieront pour quelques jours les noirs soucis de la politique et des cabinets; pays où ils se retrouveront eux-mêmes et qui leur rendront la force et l'énergie pour le reste de l'année; alors ils soupireront après quelques jours de vacances, et ces jours seront consacrés aux Alpes; nos montagnes seront le but de leurs excursions. [...]

Un voyageur qui part pour la montagne doit s'attendre à y rencontrer la montagne, et je crois qu'il serait assez contrarié d'y rencontrer la ville qu'il vient de quitter.  On voyage ou pour étude, ou par plaisir, ou par luxe; les voyageurs de luxe doivent s'adresser aux grands centres, aux établissements de bains et eaux thermales et médicinales. Les voyageurs pour étude ou par plaisir pourraient souvent désirer mieux, mais ils jouissent même ensuite de leurs privations, et puis ils savent si facilement se contenter pourvu qu'ils atteignent leur but; je n'en veux pour preuve que M. de Saussure.

Les premiers Anglais qui pénétrèrent jusqu'à Chamonix étaient armés jusqu'aux dents et ils logèrent hors du village. M. de Saussure y logea comme il put, et vous voyez pourtant ce que Chamonix est actuellement.

A Valtournenche et à Zermatt il n'y avait pas le moindre hôtel; il y a à peine quinze ans, on logeait à la maison du curé. Il en était de même ailleurs. Il faut donc dire que c'est l'affluence des étrangers qui crée les hôtels, et non les hôtels (en montagne, j'entends) qui créent l'affluence des étrangers».

La presenza di questi rappresentanti del clero non è affatto irrilevante, se si considera il forte radicamento del clero nella società valdostana; anche se stava aprendosi una nuova fase dell’alpinismo, molto più “sportiva” e dedicata non più solo alla conquista della vetta ma alla ricerca della difficoltà, la presenza dei preti legittimava e insieme manteneva un legame, evitando al mondo alpinistico una deriva areligiosa. Tutto questo appare in buona luce guardando alle istituzioni del mondo alpinistico.

Fatta l’Italia (1861), fu la volta del Club Alpino Italiano (1863), nato sulla falsariga di quello britannico (1857-58). I protagonisti erano all’incirca gli stessi, del primo governo nazionale e del neonato club alpino, soprattutto Quintino Sella, per cui si potrebbe sospettare un po’ di anticlericalismo di stampo massonico nel nuovo CAI. Ma pare dimostrato che Quintino Sella non fosse massone; inoltre consigliere nazionale del CAI dal 1869 al 1873 e poi vicepresidente nazionale tra il 1875 e il 1879 (sotto la presidenza di Quintino Sella) fu il teologo Giuseppe Farinetti di Alagna, fondatore e presidente della sezione CAI di Aosta fu il canonico Georges Carrel, e più avanti troviamo don Achille Ratti, futuro papa Pio XI, e il suo compagno di gite don Grasselli iscritti alla sezione milanese del CAI.

Si può considerare che la montagna stava fornendo alla componente borghese e colta della neonata Italia unita, sorta dalla dissoluzione del potere temporale del Papato e quindi con una marcata tonalità oppositiva rispetto alla Chiesa, una dimensione elevata, idealizzata, con una sua mitologia che forniva valori autonomi rispetto al cristianesimo. Andava formandosi un'estetica della montagna che travalicava in una sorta di spiritualità che prescindeva dalla fede cristiana, al punto che morire arrampicando diventava la "bella morte" per eccellenza, e non certo su un retroterra cristiano. Eppure dentro questa medesima realtà in evoluzione c’erano dei preti, preti di tendenze liberali, certo (gli altri non avrebbe potuto compiere una tale operazione culturale e pastorale), che però, con la loro presenza e il loro entusiasmo nelle nuove istituzioni alpinistiche, seppero far sì che la montagna conservasse la sua dimensione spirituale e religiosa connessa con la fede e la tradizione cristiana. Certo, non era più possibile, per i preti, tenersi all'altezza di un alpinismo che andava professionalizzandosi, nella doppia linea delle guide alpine e dei senza-guida, che andavano entrambi sempre più alla ricerca della difficoltà fine a se stessa.

Tuttavia nello stesso tempo incominciava ad allargarsi la base, ad aumentare il numero di coloro che frequentavano la montagna. Se fino a poco prima erano stati preti originali e poco conformisti – come l'abbé Gorret – ad assicurare una continuità di presenza della Chiesa nel mondo alpinistico, viene poi la volta di sacerdoti ben organici alla struttura ecclesiastica. Si pensi ad Achille Ratti (1857-1939), brianzolo, bibliotecario dell’Ambrosiana e futuro papa Pio XI, che andava in montagna tutte le estati in compagnia del professor don Luigi Grasselli di Milano. A mons. Ratti (con don Grasselli, il viceparroco di Pré-St.-Didier Jean Anselme Bonin e le guide di Courmayeur Joseph Gadin e Alexis Proment) dobbiamo l'apertura (in discesa) di quella che oggi è considerata la via normale italiana al Monte Bianco, nel 1890. In quello stesso anno mons. Ratti venne eletto nella direzione del Club Alpino Italiano di Milano assieme a Gaetano Negri, ateo dichiarato, mostrando la diversità delle anime che costituivano il mondo degli appassionati della montagna, ma anche l'equilibrio e il dialogo che vi si poteva vivere. Per il futuro papa l’alpinismo non è «cosa da scavezzacolli, ma al contrario è tutto e solo una questione di prudenza e di un poco di coraggio, di forza, di costanza, di sentimento della natura e delle sue riposte bellezze, talora tremende, allora appunto più sublimi e più feconde per lo spirito che le contempla».

L'ultimo decennio del XIX secolo fu caratterizzato dall'elevazione di croci e statue sulle vette delle montagne. Questo fenomeno può essere letto come una sorta di colonizzazione ecclesiastica del territorio alpino. Tuttavia, più che rispondere a una strategia, potrebbe rivelare una nuova percezione della montagna nell'ambiente ecclesiastico e in quello dei semplici fedeli. Se gli alpinisti guardano le montagne come a mete ambite e danno loro nomi precisi, questa attenzione nuova si comunica alla società tutta, pure alla Chiesa, che incomincia a vivere la montagna a modo suo, in una dimensione simbolica religiosa. Le cime si popolano di statue e di croci non per segnare un'appartenenza, ma perché credenti ed ecclesiastici vedono nelle montagne "di casa" dei punti di riferimento della vita, e con naturalezza li "battezzano", ponendovi segni religiosi durante eventi di comunità, e andandovi a celebrare l'eucaristia. Senza dimenticare che talora le croci di vetta sono state anche testimonianza euforica di una riuscita che si voleva far vedere a tutti, come nei casi sopra riportati del Mont Aiguille e del Grossglokner.

Un vero progetto unitario ci fu forse solo per i monumenti a Cristo redentore eretti su 19 monti d'Italia (quanti i secoli della redenzione) per il giubileo del 1900, un evento particolarmente sentito, dal momento che i problemi politici avevano impedito la celebrazione dei giubilei del 1850 e del 1875. Data all'8 luglio 1899 la circolare del comitato organizzatore che riporta i criteri:

1-alla scelta della vetta più visibile ed insieme di possibile accesso',
2-alla raccolta delle piccole offerte occorrenti per V acquisto del ricordo;
3-al collocamento del ricordo stesso sulla vetta della montagna;
4-a promuovere un devoto pellegrinaggio che possibilmente sia presente alla cerimonia;
5-a far celebrare, prima del collocamento del ricordo, una messa sul luogo stesso.

Pur se non rientrava nei canoni del progetto citato, la croce del Cervino aveva il suo contesto pure lei nel Giubileo del 1900. La croce era pronta nell'estate del 1901, che peraltro non fu propizia, e così la croce salì in vetta solo nel 1902, portando il disco crociato dell'indulgenza concessa dal papa Leone XIII nel 1901 in ricordo del giubileo.

Nella prima metà del XX secolo la propaganda nazionalistica spinge a considerare la montagna "palestra d'ardimento" e terreno dove esercitare l'eroismo patriottico, roba da uomini superiori, capaci di giocare con la morte. Alla Chiesa ovviamente questa impostazione non interessa. Ciò che le sta a cuore è piuttosto l'educazione religiosa delle masse, e per questo scopo porta in montagna gruppi sempre più numerosi, vedendo nell'alpinismo "il più completo e organico degli sport", "strumento fondamentale nella formazione del carattere e della volontà". Così da un lato nascerà la "Giovane Montagna", un parallelo del CAI, capace di moderare la dimensione del rischio e di contemperare la passione per la montagna con i doveri religiosi. Dall'altro lato, tanti, tantissimi alpinisti possono riconoscere che la scintilla della loro passione è scoccata andando in montagna da giovani e giovanissimi con preti, a loro volta appassionati e sovente più dotati di fede nella divina provvidenza che di capacità tecniche.

Ma non tutti questi preti erano alpinisti alla "spera-in-Dio". Abbiamo anche avuto qualche prete-guida, soprattutto tra i canonici di San Bernardo. Gratien Volluz (1929-1966), vallesano, diventa canonico del Gran San Bernardo, viene ordinato prete nel 1956 nella sua Orsières e l’anno successivo riceve il diploma di guida a Zermatt; nel 1959 diventa priore dell’Ospizio del Sempione, dove lancia i pellegrinaggi alpini e le settimane tecniche; nel 1965 partecipa a un convegno di guide e alpinisti a Trento sul tema “Perché l’alpinismo” e la sua relazione, che eleva il dibattito sul piano spirituale, viene considerata dai partecipanti il momento più alto di quel simposio. Muore arrampicando nelle gole di Gondo, il 12 agosto 1866. Di lui vogliamo riportare la Preghiera della Guida Alpina, che compose per il 1965, Anno delle Alpi:

«Padre, Signore dell’Universo,
insegnami a contemplare il creato
con occhio nuovo e con cuore giovane,
ad attingere dai tuoi ricchi doni
la generosità di servirti nel lavoro di guida alpina.
Signore Gesù, vertice dell’universo e centro dei cuori,
insegnami a leggere la tua presenza
nella trasparenza cristallina degli esseri
e ad aiutare ognuno di loro a salire a te.
Per il tuo Spirito io ti sia testimone alla testa della cordata:
sicuro e intrepido per guidarla all’attacco,
capace di strapparla a una vita facile che sfigura
per trascinarla verso le cime,
affascinata dalla tua bellezza che è in esse
e sorretta dalla tua forza
e dalla tua pazienza che è in me.
Glorioso san Bernardo delle Alpi, modello e protettore,
implora per me dal Signore la forza di ascendere come te al Padre
con tutta la mia vita, con tutti i miei fratelli, con tutto il creato
nell’audacia e nell’adorazione.
Amen!»

E per fare un salto nel nostro XXI secolo, accenniamo a Didier Berthod, svizzero pure lui, fortissimo arrampicatore, specializzato in fessure: ha salito per primo Greenspit (8b+) in Valle dell’Orco, una terribile fessura in tetto da proteggere con friends. Poi un ginocchio dolente lo ha bloccato mentre tornava a tentare la Cobracrack in Canada, e ha riscoperto la sua fede, dopo di che ha deciso di viverla a tempo pieno nella comunità Eucharistein, che ha riconosciuto in lui la vocazione sacerdotale. E Frate Didier prega e studia, si prepara a ricevere l’ordinazione sacerdotale. D’altra parte la sua mamma testimonia che si aspettava una scelta di questo tipo, perché è sempre stato uno che pregava...