La psicopatologia del jihadista? L’ha già scritta Dostoevskij, di Domenico Quirico
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Riprendiamo da La stampa del 27/8/2015 un articolo di Domenico Quirico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2015)
Giovani chiusi, secchi, sordi, vite che non sono altro che un rasentarsi di solitudini. I combattenti del Jihad… Qualcosa, forse la coscienza, sta loro accanto come un altro essere giovane, sereno, ed è innocente. Ma non è più tempo: vedono al di là del tempo, nell’avvenire, come un gran fosso che devono saltare, grigio, fumoso e indistinto. Che cosa aspettiamo? Diventare terroristi, e contemporaneamente santi… oggetto per qualche tempo di quell’odio giubilante che si scatenerà, negli altri, gli infedeli. Ma quelli dimenticano, in fretta. Poi solo la gioia indelebile del martirio… L’attesa che è nell’aria, passi lontani, rombi e sibili della battaglia che salgono e paiono venire da sotterra, le voci ancora allegre, ignare delle vittime… Stanno per entrare davvero in un mondo più sensibile, popolato di voci arcane, di strani trasalimenti, come ne provano forse gli animali e i profeti. Poi è come se la terra si aprisse e scoppiasse da un cratere quel torrente di odio con cui si credeva di buttarsi dietro le spalle ogni cosa e invece ritrovarsi con un fardello più pesante, pazzi e ubriachi di dolore.
Strumenti di dio
In termini assoluti la sanguinaria vicenda del totalitarismo islamico e dei macellai del califfato ripropone molto più che un problema geopolitico o militare; o il rapporto tra religioni e culture. Quello che ci urta e ci turba violentemente in essa è il problema tradizionale dell’uomo: la demonicità, e l’ossessione che paralizzano la personalità e la sua capacità di giudizio, atrofizzano il senso della libertà e contraggono la coscienza. È la domanda eterna, ineludibile: che valore ha la personalità umana? È essa, davvero, comunque qualcosa di sacro e di assoluto che non è lecito adoperare come mezzo e strumento, ma che si deve rispettare come valore in sé?
Siamo nel vero alveo del problema morale: possono degli uomini essere arbitri della vita di altri uomini? Un jhadista mi ha detto beffardo: «Noi siamo strumenti di dio, puri, ma i colpevoli, i peccatori ci interessano enormemente. Che cosa faremmo senza di loro? Chi recluteremmo?». Ecco. Cercare il segreto fino in fondo di quelli che sono divenuti questi personaggi: l’uomo necessario.
Sono le riflessioni a cui obbliga, verrebbe da dire, il libro di Mario Giro uscito per Guerini Noi terroristi, storie vere dal Nord Africa a Charlie Hebdo. Con incalzare tacitiano Giro, che conosce i fanatici dello Stato santo fin dagli Anni Novanta, dal sanguinario esperimento in Algeria, risale la storia di giovinezze perdute in epoche in cui nessuno parlava di «combattenti stranieri» e al Qaeda non esisteva neppure. Giovani che partono dalle periferie d’occidente e vanno a uccidere: «Per rabbia, per noia, per passione, per vuoto, un po’ figli dell’islam e un po’ dell’occidente maturano una insana passione per l’assoluto meglio uccidere e morire che vivere così…».
Come è dunque immemore e cieca la sorpresa con cui ammutoliamo di fronte alle terribili odissee dei terroristi europei arruolati da Abu Bakr l’iracheno! Il protagonista del libro, arruolato da un cattivo maestro radicale in una banlieue francese per fare strage di ebrei in Marocco, turbato dallo sguardo di un gruppo di bambini rinuncia e vuota il caricatore contro il muro. Logorato da errori e furori che una volta preso possesso di un uomo lo marciscono fino alle ossa, cede al rimorso che già avanti lo rodeva e scoppia in tenerezza e carità. Storia vera, non parabola consolatoria.
Obbedire al rito
È allora che ho capito di aver già letto tutto questo: I demoni di Dostoevskij, libro politico di terribile mordacità, non pamphlet sul movimento rivoluzionario del settimo e ottavo decennio dell’Ottocento, il cosiddetto nichilismo terroristico, ma permanente metafora religiosa e metafisica. I miei carcerieri di Siria, nuovi demoni, aguzzano i pensieri fino a renderli acuti e taglienti come strumenti chirurgici, anatomizzano il loro stato, spiegano la loro oppressione in discorsi fanatici, logorano il cervello a forza di riflettere finché divampa in follia, chiudono tutti i loro pensieri in una unica idea fissa che sviscerano fino all’estremo, fino a farsene occupare interamente.
Non vi è in loro un dio spettatore, ma una divinità continuamente implicata nella drammatica e feroce coerenza della creazione, il loro dio è come immerso nella creazione, non staccato da essa. Si incarna quindi anche nel guerriero del jihad che sgozza un altro uomo. Giudica non il bene e il male, ma l’obbedienza al rito. Il macellaio del califfato è fedele, in tutta la sua atrocità fanatica, al mistero creatore.
I demoni è il reportage perfetto sui tempi del califfato assassino: senti i gemiti strappati a tanti petti d’uomo, i sospiri, i singhiozzi, i rantoli: la nostra miserabile umanità sotto il torchio, questo spaventoso mormorio.
La gloria del suicidio
Quello che induce in errore, noi occidentali, è l’aver fissato il terrorista eterno, tra i personaggi de I demoni, in Stavroghin. Un uomo vuoto che non cerca nulla e non crede nulla. Le sue forze intellettuali sono inutilmente sospese su un vuoto metafisico: noia, incredulità, apatia, indifferenza, il terrorista sarebbe dunque un folle capriccio degenere in cerca di sensazioni anomale, il suo fallimento lo conduce al delirio dell’uccidere e il riconoscimento del crollo del suo destino umano trova appagamento solo nel suicidio che trascini anche altri con sé. Stavroghin è un nichilista, e l’idea e l’organizzazione cospirativa sono solo esperienze che stimolano la sua abnorme avidità di sensazioni. È il ritratto di al Qaeda.
Ma il califfato è altro orrore: un pieno e non un vuoto. È Kirillov e non Stavroghin. Kirillov uccide perché è al servizio di una idea fanaticamente professata, totalitaria, in cui gli uomini sono degradati a strumento di verifica dei propri convincimenti. Ne è invaso, soffocato. Kirillov come i miliziani di Isis, vuole compiere un mostruoso omicidio collettivo per far trionfare la volontà di obbedire al pensiero di una divinità unica e totalitaria. E dietro di lui occhieggiano gli innumerevoli e piccoli demoni, i Verchovenskij, bassi e abili cospiratori, idolatri e assassini.