Appunti sparsi sulle beatitudini
Prima di spiegare, di sciogliere il mistero cristiano delle beatitudini è necessario, invece, approfondirlo. Il loro “mistero” consiste nel paradosso, nella tensione della felicità e della debolezza vissute in Dio.
Dalle beatitudini – anche se non solo da esse, ma da tutto il vangelo – è nato il “genio” cristiano, la cura cristiana, per il povero, il piccolo. Da esse hanno preso forma e vita i santi che hanno camminato a fianco di ogni povertà.
Ma – ecco la tensione – dalle beatitudini è sgorgata anche l’allegrezza altrettanto cristiana, il godimento, il rigetto del compiacimento del dolore. Forse anche l’abitudine all’ironia, il non essere a disagio o nello scandalo a motivo dello “scherzare sui santi”! Filippo Neri e la sua gioia, come il buon cibo di conventi e monasteri, hanno qui la loro origine.
Le beatitudini poggiano i piedi in due realtà che l’uomo oppone: gioia e dolore, fatica e serenità. morte e vita, persecuzione e testimonianza. E’ la distanza cristiana dalla coerenza del pensiero buddhista (quello reale, originario, non quello adulterato e imbastardito). Si soffre – direbbe il grande maestro dell’Estremo Oriente – per lo stesso motivo per il quale si gioisce: è l’apparenza, l’illusione dannosa di avere una identità. Via della verità è la comprensione che né la sofferenza, né la gioia hanno vera consistenza. Raggiungere il Nirvana, l’atarassia, lo stemperarsi delle opposizioni è la via del Buddha. Non gioire e non soffrire, per cessare dalla maledizione della reincarnazione, della rinascita.
Che stridore di contrasti, invece, nelle beatitudini del Signore: riso e pianto, povertà e ricchezza, nulla e tutto.
Dinanzi a Dio, al Padre, il dolore e la gioia si approfondiscono, non vengono dichiarate illusorie od eliminate! E’ il sì di Dio alla vita. Il sì di Dio alla serietà del dolore ed alla leggerezza della gioia. Nessuno che pianga o che rida deve più pensare che Dio gli sia estraneo.
Ma si deve andare più in là. A Gesù è piaciuto parlare, infinite volte, così: “Beati quelli che... beati voi... beati se...”. Egli è l’annunciatore del vangelo, egli è il vangelo stesso. Provi un educatore a dire tutto quello che ha da dire in modi analoghi. Non “Devi...”, non “Puoi...”, ma “Beato te quando...”. E’ un esercizio importante, ricco e gravido di conseguenze.
Ma, pure, quanta distanza separa le beatitudini del Signore da un dire che solo apparentemente è loro simile: “La fede è la mia realizzazione. Questa scelta mi fa star bene. Questa decisione mi realizza”. E se un giorno non ti realizzasse più, cosa avverrebbe? Quanto narcisismo – ha avvertito Sequeri – in questi modi di dire.
Già il pensiero pagano aveva intuito che la vera felicità non è semplicemente “sensibile”, del cibo, del benessere, del lusso. Epicuro – da pochi letto e, quindi, compreso – affermava che è incomparabile la felicità di chi è giusto, di chi cerca e conosce la verità. La felicità è un evento dello spirito. “Senza virtù non c’è uomo felice” aveva scritto nella famosa Lettera a Meneceo. E quella felicità dell’uomo virtuoso e filosofo, quante rinunzie comportava! Ma rinunzie per un fine, per una gioia, per un cammino ed una meta.
La fede cristiana, compimento e sovversione del pensiero pagano, prosegue fino ad affermare che la pienezza della gioia può costare la vita stessa. Non lo “star bene”, ma il dono, fino alla fine. E’ la via della croce, la via della beatitudine attraverso la croce. Non della sola croce e non della sola beatitudine. La via di Dio, la via di Gesù Cristo.
Qui si precisa la non opposizione fra Matteo e Luca. Matteo ricorda, dell’annuncio di Gesù, quel “poveri in spirito”. Quell’ “in spirito” è nota non irrilevante, non ammorbidente, quasi stesse ad addolcire un sasso duro da mandare giù. No! E’ che si può essere poveri fisicamente, senza essere uomini di dono. Si può odiare a motivo della povertà. La povertà stessa non è garanzia di salvezza. Quell’ “in spirito” non facilita, anzi complica ancor più le cose.
Ma anche Luca ci sorprende – in realtà è il Signore che ci sorprende sempre. “Beati voi, poveri”... e parla agli apostoli, e parla degli apostoli. Essi che attraverseranno il mondo per il vangelo, essi che hanno lasciato tutto – ma che hanno anche ricevuto il centuplo quaggiù! – sono modello dei poveri delle beatitudini. Essi che saranno i perseguitati, a causa del nome del Figlio dell’Uomo, appartengono alle beatitudini. Gesù, accompagnato dalle donne che lo assistevano con i loro beni, è il primo di questi poveri beati.
Non è un pauperismo, quello dell’evangelo, ma lo stesso è povertà. Si può avere, ma per dare. Si può ricevere e godere, ma per avere la forza di dare ancor più la vita. Siamo tutti invitati a farci più poveri, a dare di più. E non domani, ma oggi stesso. A fare rinunce per accumulare tesori. Ma siamo invitati anche a ringraziare e godere del centuplo che ci è dato per ogni rinuncia.
Ed ognuno nella misura della sua vocazione, nella forma della sua chiamata. Francesco d’Assisi non ha mai chiesto a chi si sposava di lasciare ogni bene ed ogni avere. Quel bene conservato era conservato non per lusso, ma per donarlo ai bambini, ai figli, alla sposa, allo sposo. Per donarlo comunque! Anche oggi, per essere poveri, basta avere tanti bambini, basta avere un figlio in più. Ed ecco che, subito, non hai più tempo per te, ma solo per donarlo. Ed ecco che, subito, scompare lo spreco per serbare per il domani, “per quando dovranno studiare”, “per quando dovranno sposare”... Un recente studio di Todeschini – Ricchezza francescana, Il Mulino – getta una luce sull’influsso benefico del francescanesimo sulla città medioevale, sulla scoperta del “retto uso delle beni”, ben prima del calvinismo secondo l’interpretazione di Weber.
Paolo dirà: “Sono ormai abituato a tutto, a tenere e a perdere, a vivere nella povertà ed a vivere nell’abbondanza”. “Tutto io faccio per essere conquistato da Cristo e per conquistare ad ogni costo qualcuno”.
La prima ai Corinzi ci ricorda, però, che nella considerazione delle beatitudini, bisogna dare spazio all’eternità ed al giudizio. Guai se il giudizio non rimettesse a posto cose e persone. C’è chi sarà saziato, chi avrà giustizia. Guai se non ci fosse un giudizio. Guai se l’ultima parola fosse della storia. Guai se gli sconfitti della storia fossero gli sconfitti dell’eternità. L’ultima Parola non è della storia, ma di Dio. Egli darà la beatitudine ai suoi, ai poveri in spirito, ai perseguitati per il suo nome, agli afflitti, ai piangenti.
Non c’è così opposizione fra comandamenti e beatitudini, come se queste ultime fossero sic et simpliciter la morale nuova e quelli semplicemente la morale vecchia, superata, da dimenticare.
Il comandamento è via della beatitudine. “Onora tuo padre e tua madre per essere felice e vivere...”.
Come non sarebbe pensabile la beatitudine, senza la fatica del comandamento per arrivarvi, così nessun senso avrebbero i comandamenti, se non come luogo della felicità, di una gioia che non si confonde con lo “star bene”.
Dalle beatitudini – anche se non solo da esse, ma da tutto il vangelo – è nato il “genio” cristiano, la cura cristiana, per il povero, il piccolo. Da esse hanno preso forma e vita i santi che hanno camminato a fianco di ogni povertà.
Ma – ecco la tensione – dalle beatitudini è sgorgata anche l’allegrezza altrettanto cristiana, il godimento, il rigetto del compiacimento del dolore. Forse anche l’abitudine all’ironia, il non essere a disagio o nello scandalo a motivo dello “scherzare sui santi”! Filippo Neri e la sua gioia, come il buon cibo di conventi e monasteri, hanno qui la loro origine.
Le beatitudini poggiano i piedi in due realtà che l’uomo oppone: gioia e dolore, fatica e serenità. morte e vita, persecuzione e testimonianza. E’ la distanza cristiana dalla coerenza del pensiero buddhista (quello reale, originario, non quello adulterato e imbastardito). Si soffre – direbbe il grande maestro dell’Estremo Oriente – per lo stesso motivo per il quale si gioisce: è l’apparenza, l’illusione dannosa di avere una identità. Via della verità è la comprensione che né la sofferenza, né la gioia hanno vera consistenza. Raggiungere il Nirvana, l’atarassia, lo stemperarsi delle opposizioni è la via del Buddha. Non gioire e non soffrire, per cessare dalla maledizione della reincarnazione, della rinascita.
Che stridore di contrasti, invece, nelle beatitudini del Signore: riso e pianto, povertà e ricchezza, nulla e tutto.
Dinanzi a Dio, al Padre, il dolore e la gioia si approfondiscono, non vengono dichiarate illusorie od eliminate! E’ il sì di Dio alla vita. Il sì di Dio alla serietà del dolore ed alla leggerezza della gioia. Nessuno che pianga o che rida deve più pensare che Dio gli sia estraneo.
Ma si deve andare più in là. A Gesù è piaciuto parlare, infinite volte, così: “Beati quelli che... beati voi... beati se...”. Egli è l’annunciatore del vangelo, egli è il vangelo stesso. Provi un educatore a dire tutto quello che ha da dire in modi analoghi. Non “Devi...”, non “Puoi...”, ma “Beato te quando...”. E’ un esercizio importante, ricco e gravido di conseguenze.
Ma, pure, quanta distanza separa le beatitudini del Signore da un dire che solo apparentemente è loro simile: “La fede è la mia realizzazione. Questa scelta mi fa star bene. Questa decisione mi realizza”. E se un giorno non ti realizzasse più, cosa avverrebbe? Quanto narcisismo – ha avvertito Sequeri – in questi modi di dire.
Già il pensiero pagano aveva intuito che la vera felicità non è semplicemente “sensibile”, del cibo, del benessere, del lusso. Epicuro – da pochi letto e, quindi, compreso – affermava che è incomparabile la felicità di chi è giusto, di chi cerca e conosce la verità. La felicità è un evento dello spirito. “Senza virtù non c’è uomo felice” aveva scritto nella famosa Lettera a Meneceo. E quella felicità dell’uomo virtuoso e filosofo, quante rinunzie comportava! Ma rinunzie per un fine, per una gioia, per un cammino ed una meta.
La fede cristiana, compimento e sovversione del pensiero pagano, prosegue fino ad affermare che la pienezza della gioia può costare la vita stessa. Non lo “star bene”, ma il dono, fino alla fine. E’ la via della croce, la via della beatitudine attraverso la croce. Non della sola croce e non della sola beatitudine. La via di Dio, la via di Gesù Cristo.
Qui si precisa la non opposizione fra Matteo e Luca. Matteo ricorda, dell’annuncio di Gesù, quel “poveri in spirito”. Quell’ “in spirito” è nota non irrilevante, non ammorbidente, quasi stesse ad addolcire un sasso duro da mandare giù. No! E’ che si può essere poveri fisicamente, senza essere uomini di dono. Si può odiare a motivo della povertà. La povertà stessa non è garanzia di salvezza. Quell’ “in spirito” non facilita, anzi complica ancor più le cose.
Ma anche Luca ci sorprende – in realtà è il Signore che ci sorprende sempre. “Beati voi, poveri”... e parla agli apostoli, e parla degli apostoli. Essi che attraverseranno il mondo per il vangelo, essi che hanno lasciato tutto – ma che hanno anche ricevuto il centuplo quaggiù! – sono modello dei poveri delle beatitudini. Essi che saranno i perseguitati, a causa del nome del Figlio dell’Uomo, appartengono alle beatitudini. Gesù, accompagnato dalle donne che lo assistevano con i loro beni, è il primo di questi poveri beati.
Non è un pauperismo, quello dell’evangelo, ma lo stesso è povertà. Si può avere, ma per dare. Si può ricevere e godere, ma per avere la forza di dare ancor più la vita. Siamo tutti invitati a farci più poveri, a dare di più. E non domani, ma oggi stesso. A fare rinunce per accumulare tesori. Ma siamo invitati anche a ringraziare e godere del centuplo che ci è dato per ogni rinuncia.
Ed ognuno nella misura della sua vocazione, nella forma della sua chiamata. Francesco d’Assisi non ha mai chiesto a chi si sposava di lasciare ogni bene ed ogni avere. Quel bene conservato era conservato non per lusso, ma per donarlo ai bambini, ai figli, alla sposa, allo sposo. Per donarlo comunque! Anche oggi, per essere poveri, basta avere tanti bambini, basta avere un figlio in più. Ed ecco che, subito, non hai più tempo per te, ma solo per donarlo. Ed ecco che, subito, scompare lo spreco per serbare per il domani, “per quando dovranno studiare”, “per quando dovranno sposare”... Un recente studio di Todeschini – Ricchezza francescana, Il Mulino – getta una luce sull’influsso benefico del francescanesimo sulla città medioevale, sulla scoperta del “retto uso delle beni”, ben prima del calvinismo secondo l’interpretazione di Weber.
Paolo dirà: “Sono ormai abituato a tutto, a tenere e a perdere, a vivere nella povertà ed a vivere nell’abbondanza”. “Tutto io faccio per essere conquistato da Cristo e per conquistare ad ogni costo qualcuno”.
La prima ai Corinzi ci ricorda, però, che nella considerazione delle beatitudini, bisogna dare spazio all’eternità ed al giudizio. Guai se il giudizio non rimettesse a posto cose e persone. C’è chi sarà saziato, chi avrà giustizia. Guai se non ci fosse un giudizio. Guai se l’ultima parola fosse della storia. Guai se gli sconfitti della storia fossero gli sconfitti dell’eternità. L’ultima Parola non è della storia, ma di Dio. Egli darà la beatitudine ai suoi, ai poveri in spirito, ai perseguitati per il suo nome, agli afflitti, ai piangenti.
Non c’è così opposizione fra comandamenti e beatitudini, come se queste ultime fossero sic et simpliciter la morale nuova e quelli semplicemente la morale vecchia, superata, da dimenticare.
Il comandamento è via della beatitudine. “Onora tuo padre e tua madre per essere felice e vivere...”.
Come non sarebbe pensabile la beatitudine, senza la fatica del comandamento per arrivarvi, così nessun senso avrebbero i comandamenti, se non come luogo della felicità, di una gioia che non si confonde con lo “star bene”.