Piccoli eroi. Giacomo Poretti: volevo essere Mazzola
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Riprendiamo da Avvenire del 6/8/2015 un articolo di Giacomo Poretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti ed altri articoli di Giacomo Poretti, vedi la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (9/8/2015)
Nella mia famiglia erano tutti interisti: il papà, la mamma, la sorellina che ancora doveva nascere, i nonni, compreso quello già morto (mio papà mi raccontò che era juventino ma in punto di morte confessò i suoi peccati, si pentì e si convertì), le nonne, gli zii e le zie, le cugine. Tutti tranne mio cugino cieco Antonio che era milanista. Mio zio pregava che anche suo figlio un giorno avesse potuto vedere.
Quando ho compiuto 5 anni mio papà e mio zio sono tornati da San Siro e mi hanno portato il completo dell’Inter: sono rimasto vestito così per un anno intero fino al giorno che dovetti iniziare la prima elementare e mi fecero indossare un grembiulino solo nero. Ma il giorno che sono diventato Mazzoliano me lo ricordo bene: era il 27 maggio 1964 e io facevo la terza elementare; quella sera mio papà stranamente non mi mandò a letto presto, anzi mi disse che in televisione c’era un programma educativo e istruttivo, la finale della Coppa dei Campioni tra il Real Madrid e l’Inter appunto.
Sandro Mazzola fece due gol e contribuì in maniera determinante a far vincere all’Inter la sua prima Coppa; ma la cosa che mi affascinò di più fu la scoperta del suo movimento, la rapidità di corsa, il dribbling. Al 71’ di quella partita fece gol con l’esterno destro facendo carambolare la palla sul palo per poi insaccarsi in rete: Sandro Mazzola faceva gol di esterno piede! io invece tiravo solo di punta! Dopo quella sera mio padre mi raccontò il dramma di Sandro Mazzola e di suo fratello Ferruccio: erano rimasti senza il papà, Valentino Mazzola, il più grande giocatore di tutti i tempi, perché l’aereo che lo trasportava assieme alla sua squadra, la più forte di tutti i tempi, era precipitato sopra una chiesa. Penso che da quella storia cominciò a formarsi dentro di me il gusto per le storie epiche con qualche venatura romantica.
Nella mia testa di bambino di otto anni, dopo aver assistito alla doppietta al Prater di Vienna e dopo aver saputo che Sandro Mazzola era rimasto senza il papà all’età di sette anni, il numero “8” neroazzurro affiancò Gesù Bambino nella classifica dei miei eroi preferiti.
Quella sera mi addormentai convinto che Sandro Mazzola aveva dedicato i due gol a suo papà che lo guardava dal quinto anello dello stadio del Cielo. Grazie a Sandro Mazzola, a Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarnieri, Picchi, Jair, Peirò, Suarez e Corso, potei trascorrere un’infanzia felice. Inoltre il mio eroe aveva la particolarità di farmi scordare tutte le mie frustrazioni e difficoltà: se prendevo un brutto voto a scuola pensavo al gol di esterno contro il Real Madrid e la delusione scompariva; se i miei genitori mi mettevano in castigo io pensavo a san Mazzola che faceva gol nel derby con un tiro al volo e il tempo passava più velocemente; una volta ero in colonia al mare ed ero così triste che non avevo più fazzoletti per asciugarmi le lacrime: mi è venuto in mente il gol di Sandro Mazzola contro il Vasas di Budapest nel 1966, considerato il gol più bello mai realizzato in Champions League, e l’allegria è ricomparsa, perfino la colonia assumeva tratti umani!
Chiedo scusa pubblicamente ma vi è stato un momento in cui Sandro Mazzola è stato più importante di Gesù Bambino: nel 1970 in una partita amichevole contro la Svizzera, dopo 6 palleggi al volo per superare gli avversari scagliò un destro di collo pieno che si insaccò in rete!
Di Sandro Mazzola ho cercato di imitare tutto: lo scatto fulmineo, il dribling, il tiro, l’intensità di gioco, l’unica cosa che sono riuscito ad aver in comune con lui sono i baffi.
Ogni bimbo al mondo ha un pupazzo o un oggetto che gli tiene compagnia tutte le sere quando va a dormire, per me erano le azioni di Mazzola ed il colore della sua maglia.
Le giostre al mio paese arrivavano insieme al freddo di novembre e alle caldarroste. Una mattina di domenica, dopo essere stato alla messa delle 10, stazionavo sul bordo dell’autoscontro con il desiderio di voler fare qualche giro e, contemporaneamente, con la certezza che non sarebbe stato perché non avevo soldi. La frustrazione per la mia povertà veniva mitigata dal pensiero successivo che arrivava soccorrevole: l’Inter, le sue vittorie, il senso di invincibilità e di conseguente felicità eterna che mi avrebbe lenito tutte le volte che ci avrei pensato e soprattutto tutte le volte che la mia povertà mi avrebbe umiliato.
Poi improvviso e furtivo si affacciò alla mente un pensiero orribile. Sandro Mazzola, Mario Corso, Facchetti e Jair....sarebbero diventati vecchi, quindi avrebbero smesso di giocare e di conseguenza un giorno anche loro sarebbero morti! In quel momento ho compreso che la morte è di tutti, appartiene a tutti e capita a tutti, a Facchetti, a mio papà e mia mamma, ai miei migliori amici, ed anche a me.
Era una tragedia colossale. Non era nemmeno un brutto sogno da cui potersi risvegliare, nella vita prima o poi si muore questa era l’atroce certezza. Allora diventò irrilevante che non potessi salire sull’autoscontro, e da quel momento la morte non mi ha più abbandonato.
Sandro Mazzola mi ha aiutato ad scoprire la felicità, mi ha mostrato quanto si può amare il proprio idolo personale e quanto può essere triste non esserci più.
Sandro Mazzola non è stato solo il mio giocatore di calcio preferito ma anche uno dei più importanti educatori, inconsapevole, che abbia mai avuto. Grazie a Dio da quel triste mattino di novembre, Sandrino, ha solo smesso di giocare a calcio e successivamente ho anche avuto l’opportunità di incontrarlo di persona: mi sembrò di vedere Gesù Bambino. Grazie e lunga vita al Baffo goleador!