Giovani, non lasciatevi rubare la vocazione!, di Armando Matteo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /05 /2015 - 13:09 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dalla rivista “Consacrazione e Servizio”, n. 2, marzo-aprile 2015, pp. 70-73 un articolo di Armando Matteo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2015)

Giorgione, Le tre età dell'uomo, Firenze, Gallerie di Palazzo Pitti

Per avviare una breve riflessione sul rapporto dei giovani con la vocazione che loro proprio compete, appare opportuno partire da un dato molto elementare, e cioè dalla considerazione di quando e perché un essere umano possa essere ritenuto "giovane". Cosa, questa, oggi tanto più necessaria in quanto il linguaggio diffuso tradisce una sorta di ecumenismo della giovinezza, dal quale nessuno sarebbe escluso, se è diventato così scontato dire, di persona morta ai 70 anni, che è morta "giovane", e considerare sempre e comunque un "ragazzo" chiunque abbia meno di cinquant'anni. Secondo un parere abbastanza diffuso tra i sociologi, invece, l'arco che comprende la giovinezza si estende unicamente dai 15 ai 34 anni e sono ben facili da capire le ragioni di una tale restrizione (rispetto alla mentalità diffusa prima velocemente evocata); basta, in verità, porsi di fronte al significato della parola "giovane".

Seguendo una traccia etimologica abbastanza affidabile, tale termine deriverebbe dal latino iuven,strettamente legato al verbo iuvare.I giovani - suggerisce il vocabolario latino - sono coloro che "aiutano", coloro che portano un sostegno, un giovamento alla società. E questo perché proprio nell'età tra i quindici e i trentaquattro anni uno/una possiede il meglio della forza fisica, il meglio della forza riproduttiva e il meglio della forza intellettiva e spirituale. Un giovane, una giovane è una straordinaria carica di energia, una vera e propria "cellula staminale", capace di aiutare, di giovare alla società. A tutto questo si accompagna anche un senso di novità, di freschezza, di inedito, ben espresso nella variante greca della parola che dice giovani. Pensando al mondo dei giovani, i greci infatti utilizzano la parola neoi,che indica appunto qualcosa di nuovo, di inedito. Ciò che i loro occhi vedono nessuno l'ha mai visto prima: il giovane è appunto quel famoso nano sulle spalle del gigante, che vede, proprio grazie alla sua posizione, in modo diverso dal gigante stesso. E questa diversità è novità, è freschezza, è un altrimenti possibile rispetto al già dato che arricchisce, allarga, i vissuti della collettività. Una genuinità dello sguardo che è pure parente di genialità.

Essere giovane indica, in sintesi, la forza di una novità e la novità di una forza:una condizione psicofisica e spirituale che si realizza, per ogni essere umano, solo tra i venti e i trent'anni. Come è pertinente al riguardo quella immagine biblica, presente nel Salmo 127, che paragona i giovani alle frecce in mano a un guerriero! Questa è dunque la vocazione propria, autentica, inscritta nella natura delle cose, dei giovani: quella di rinvigorire, ringiovanire, rinnovare e rinfrescare il mondo.

La periferia dei giovani

Ma come stanno i giovani oggi ed in particolare i giovani italiani? A me pare di poter dire che la categoria che papa Francesco ha indicato come orizzonte dello slancio missionario della Chiesa - la categoria di periferia esistenziale - ben si adatti alla condizione media dei nostri giovani. La periferia esistenziale è infatti - si legge nell'Evangelii gaudium - luogo che abbisogna della vita e della luce del Vangelo, una condizione che sperimenta una fatica di affidamento alla vita. Che la condizione dei giovani attuali si possa ben indicare, allora, con la categoria di periferia esistenziale, è quasi di immediata constatazione. Come è noto, da diversi decenni siamo in fase di regressione economica. Fatichiamo a crescere e a produrre sviluppo. L'attuale poi è una fase di recessione, la quale, unita al debito pubblico, che assorbe le tasse dei cittadini, si ripercuote precisamente sulle fasce giovanili; queste ultime in più, essendo anche numericamente ridotte, data la scarsa natalità che da decenni affligge il nostro Paese, non solo non riescono a fare massa critica, ma neppure riescono a far sentire la loro voce e ad invocare una più equa soddisfazione delle loro prerogative. Il tutto ha finito per produrre un sistema "economico-politico" che privilegia chi ha già raggiunto posizioni di lavoro e di prestigio, su un versante, e, sull'altro, alimenta di continuo la disoccupazione giovanile, la triste situazione della generazione Neet (i ragazzi e i giovani che né lavorano né studiano), la precarizzazione del lavoro (e lavoro giovanile precario significa rinvio dell'uscita dall'orbita della famiglia, rinvio della costruzione di una famiglia propria e rinvio della decisione di mettere al mondo figli), la spesso penosa dipendenza dalla famiglia d'origine delle giovani coppie, il mancato raccordo tra studio e lavoro, ed infine il difficilissimo accesso ad una casa di proprietà da parte delle nuove generazioni.

Ma non si tratta, si badi bene, solo di una crisi economica. La vera periferia dei nostri giovani consiste nella fatica cronica del sistema - cioè del mondo degli adulti - di "vederli" per quello che sono: e cioè come la vera risorsa del nostro presente e del nostro futuro. Non solo i giovani non scendono in campo, ma neppure ci si preoccupa del fatto che essi non scendano in campo. Questo è il punto.

La società che siamo diventati ha dimenticato il ruolo dei giovani nella costruzione di una società. Non riesce più a vedere la giovinezza dei giovani, il motivo per cui essi possono a giusto titolo avere il nome di giovani. Lo abbiamo ricordato in apertura: forza e novità, cellule staminali, totipotenzialità, ecc. Non riesce più a ricordare il senso della loro vocazione.

I giovani allora non possono onorare il nome che portano con gravi conseguenze, come ha bene annotato Umberto Galimberti: «Perché i giovani vivono di notte? Perché di giorno nessuno li convoca, nessuno li chiama per nome, nessuno mostra un vero interesse per loro. Questa è anche la ragione per cui si drogano. Che cos'è la droga se non una forma di anestesia, un non voler essere in un mondo che altro non concede loro se non di assaporare sino alla nausea la loro insignificanza sociale? Questo è il nichilismo che attanaglia i giovani, i quali, nella gran parte, non soffrono, come si crede, di problemi esistenziali, ma di un contesto culturale che li fa sentire inessenziali, quando non addirittura un problema».

Riprendersi il loro nome, riprendersi la loro vocazione

I giovani, che sono "la" risorsa migliore che la natura ci dona, diventano oggi paradossalmente un problema! La loro periferia è dunque legata alla negazione di spazi veri per un loro protagonismo possibile: una negazione che tocca il presente ed ancora di più mina il futuro. Del futuro la nostra società mostra molto spesso unicamente un volto opaco e minaccioso, da cui è bene distogliere l'attenzione. Si pensi solo alla questione ambientale, alla fatica di rimettere in moto in modo convincente il sistema economico, all'instabilità politica dei Paesi del Mediterraneo e di quelli del Medio Oriente, alle minacce del terrorismo fondamentalista islamico, al consumo delle risorse energetiche, alla difficile transizione dei sistemi democratici occidentali alle prese con nuovi problemi e con nuove culture. E non dovrebbe la consapevolezza di tutto ciò spingere gli adulti e i vecchi a farsi un po' da parte? Non sono loro - non siamo noi - la causa di tutta questa marea di problemi?

Oggi più che mai il mondo ha bisogno della forza e della novità dei giovani; della loro vocazione a rinvigorire e a rinnovare l'umano che è comune, quel tessuto di valori, certezze, convinzioni, che solo può proteggerci da ulteriori e ben più gravi derive morali e sociali, oltre che politiche, culturali ed economiche.

Parlando dell'opera del maestro, Plutarco diceva che essa non si debba limitare a riempiere la mente del suo studente come si fa con un sacco. Il maestro è in realtà colui che accende una fiaccola. Ecco il punto: abbiamo bisogno che le fiaccole che i giovani sono siano accese. Abbiamo bisogno del loro calore, della loro luce, della loro forza di purificazione. Non è invero troppo lungo, buio e torbido l'inverno che da decenni si è riversato sulle nostre strade e nelle nostre case? Possano i giovani,
davvero, non lasciarsi rubare la loro vocazione: quella di onorare il nome che portano, il nome della vigoria e della genuinità. Il nome del fuoco.