Il comandamento antico e nuovo, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (4/8/2015)
Al tempo di Gesù, come oggi, era sentita l’esigenza di una formulazione semplice della fede. Un pagano si presentò a Shammai, uno due dei rabbini più famosi del tempo di Gesù, dicendogli che si sarebbe fatto ebreo se il rabbi gli avesse riassunto la fede ebraica stando su di un piede solo, cioè in un lasso di tempo molto breve quanto un uomo può resistere tenendo sollevata l’altra gamba. Shammai rispose che non era possibile, perché la narrazione della storia del popolo ebraico avrebbe richiesto tempo così come la spiegazione dei precetti che erano prescritti sarebbe stata lunga. Ma l’uomo non si scoraggio e si rivolse all’altro grande maestro, Hillel, che gli rispose: «Non fare al tuo prossimo quel che non ti piacerebbe fosse fatto a te. Questa è tutta la legge. Tutto il resto è spiegazione».
A Gesù fu posta una domanda analoga: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (Mc 12,28).La questione era importante perché non si trattava solo di scoprire quanto Gesù fosse fedele alle diverse prescrizioni veterotestamentarie, quanto, ancor più, di comprendere qual era, secondo lui, il vero cuore della fede, quello che metteva al giusto posto tutti gli altri precetti. Anche oggi ci si pone una domanda simile, perché essa è veramente importante: non si tratta semplicemente di intravedere quali sono i precetti imprescindibili nel cristianesimo come nel Libro sacro di un altra religione, bensì soprattutto di capire dove cada l’accento, dove tutto converga, qual sia il centro che decide poi di ogni altra scelta e determina la giustizia o meno di ogni altro comandamento.
A quella domanda così importante Gesù rispose: «Il primo comandamento è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12, 29-31).
Da questa risposta, così come da ogni risposta di Gesù come da tutti i suoi gesti, appare subito evidente che il Cristo pone al centro di tutto l’amore. È questo che è peculiare del cristianesimo: tutto è sottoposto all’amore.
L’amore, nella vita e nell’insegnamento di Gesù, è talmente decisivo che determina ogni aspetto sia del rapporto con Dio, sia del rapporto con gli uomini. Vale la pena soffermarsi su entrambe le relazioni per comprenderne il legame.
Innanzitutto il secondo precetto che Gesù unisce stabilmente al primo: amerai il tuo prossimo.
Giovanni, l’amico del Signore, scrive: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). Il segno è inequivocabile: chi non ama, chi odia addirittura, è lontano da Dio. Ecco una cartina al tornasole assolutamente certa per verificare se il cuore umano è vicino a Dio. Dovunque ci si allontani dall’amore per l’uomo, dovunque si offenda, si ferisca e si uccida l’uomo, fosse pure per presunti motivi religiosi, ecco che si sta tradendo Dio, ecco che ci si sta costruendo un idolo che non è il vero Dio.
Fabrice Hadjadj, grande pensatore francese contemporaneo, ha mostrato come il problema del fondamentalismo, di qualsiasi fondamentalismo, sia quello di dimenticare l’amore alle creature, di disprezzare nel nome di Dio l’uomo. Addirittura qualcuno giunge a pensare follemente che sia gradito a Dio testimoniare il proprio amore per Lui odiando nel Suo nome la vita del nemico fino ad annientarlo, scegliendo pure il suicidio come segno che si ha un amore per Dio sconfinato, senza limiti, pronto ad immolarsi per lui.
Hadjadj risponde a questo modo di concepire la religione: «Spesso andiamo da Dio a dirgli: "Io ti amo, o Creatore", ma non ci interessa la creatura. E questo è assurdo, o meglio, perverso». Se noi amiamo il Creatore dobbiamo amare pure le creature che Egli ha creato: chi non ama le creature, chi non ama la vita degli altri, chi non ama la propria vita, in realtà disprezza Dio creatore della vita. Hadjadj così descrive l’atteggiamento dei fondamentalisti: essi «assomigliano a quel tipo di ammiratori che rivolgendosi a Dante, per esempio, gli direbbero: “Signor Dante, lei è ammirevole, lei è il grande Dante!”; e Dante domanda loro: “Avete letto La Divina Commedia? Qual è il canto che vi ha colpito di più?” e gli ammiratori rispondono: “Veramente no, non l’abbiamo letta. Noi sappiamo che lei e il grande Dante, abbiamo sentito parlare di lei, del suo genio, della fama che circonda la sua persona, ma della sua poesia, no, non ce ne siamo mai interessati"».
Per Gesù non è possibile amare Dio se non si amano gli uomini che Egli ha creato: non si può amare Dio misericordioso se non si amano i suoi figli. Chi perde la magnanimità e la dolcezza dell’amore, perde Dio stesso.
Ma, d’altro canto, Gesù annunzia che non basta l’amore del fratello: è decisivo ed addirittura primario l’amore per Dio stesso. Gesù si ritiene inviato proprio per proclamare la reciprocità dell’amore al prossimo e dell’amore a Dio. È straordinaria l’insistenza delle sue parole: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza» (Mc 12,30).
Amare Dio per se stesso è vero e buono. Più ci si accorge della sua grandezza, della sua misericordia, più ci si accorge che solo Lui è all’origine di tutto. Più si scopre la bontà della vita creata e più nasce imperioso in noi il desiderio di corrispondere a questo amore. Come ha scritto Giovanni: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10). Ci salva non solo il credere in Dio, ma l’amarLo. Perché all’amore non si risponde se non con l’amore: amati, non possiamo non amare.
Proprio chi ama il fratello, scopre la gratitudine per il dono della persona amata e intuisce che quella persona non si è data la vita da sola. Proprio chi ama sente il bisogno che la persona amata viva per sempre e non si rassegna alla scomparsa della morte. Proprio chi ama si volge a Dio. Si pensi al Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi. Il poverello di Assisi esulta per le meraviglie del creato, ma proprio mentre coglie la bellezza di ogni cosa esclama: «Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano et nullo homo ène dignu te mentovare». Egli ama e la sua lode si rivolge a Dio. Anzi, al culmine del Cantico, Francesco loda Dio per l’uomo e per avergli donato di sfuggire alla seconda morte, quella dell’inferno: «Laudato sii per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione, beati quelli ke l’sosterranno in pace ka da te, Altissimo, sirano incoronati. […] Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali. Beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati ka la morte secunda no ‘l farrà male». Ecco che l’amore per la creatura e l’amore per il Creatore non sono in opposizione, ma sono anzi amici.
In un passaggio bellissimo Hans Urs von Balthasar ha scritto: «Cerchi una prova, e sei tu stesso la prova». Cerchi una prova dell’esistenza di Dio e ti accorgi che proprio l’uomo è la creatura che più di ogni altra è segno dell’esistenza di Dio e del suo amore.
Gesù è amante dell’uomo perché è amante di Dio, perché è il Figlio, perché vive nell’adorazione del Padre che tutto dona. Gesù tutto contempla con gli occhi stessi del Padre e per questo ama. Può donare tutto se stesso fino alla croce, perché sa che il Padre lo ama e che per amore degli uomini e per la loro salvezza gli ha chiesto di farsi uomo.
Noi uomini, dal canto nostro, desideriamo amare, poiché siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, ma sperimentiamo sempre di nuovo che siamo solo parzialmente in grado di farlo. Il nostro amore si raffredda, inaridisce, non riesce a perdonare se ferito, a volte diventa possessivo, se non viene l’amore di Cristo a sanarci, a guarirci, a darci la forza di perdonare, a purificare il nostro amore. Solo l’amore di Dio sana il nostro amore e non potremmo amare i fratelli senza ricevere l’amore di Dio stesso. Perché l’amore non è Dio, ma è Dio ad essere l’amore.
Per questo il comandamento che Gesù dona è antico (in effetti, quando risponde a chi lo interroga sul comandamento più grande, il Cristo cita Dt 6,4 per proclamare l’amore verso Dio e Lev 19,18 per proclamare l’amore verso il prossimo), ma d’altro canto è totalmente nuovo, sia perché viene posto al cuore di tutto, ma ancor più perché tale amore è la risposta all’amore con cui siamo stati amati, nonostante fossimo peccatori, fino alla croce. Gesù, infatti, sintetizzerà ulteriormente il duplice comandamento, nel momento in cui preparerà i discepoli alla sua morte: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). Egli ci ha amati - ed è l’amore di Dio che scalda il nostro cuore - ed è per questo che siamo chiamati all’amore.
Una bellissima preghiera del Messale ci invita a pregare Dio perché infonda negli uomini la dolcezza del suo amore perché ognuno possa amarlo «in ogni cosa e sopra ogni cosa» (Colletta della XX domenica del Tempo ordinario). Così la preghiera liturgica educa l’uomo. Amare Dio vuol dire amarLo in ogni cosa, rifuggendo così dal fondamentalismo. Ma vuol dire anche amarLo al di sopra di ogni cosa, così come Egli merita veramente.