Ravasi: siamo malati di Apateismo, Un’intervista di Monica Mondo
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Riprendiamo da Avvenire del 27/4/2015 un’intervista di Monica Mondo al cardinale Gianfranco Ravasi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (4/5/2015)
Un umanista del terzo millennio, un intellettuale coltissimo, brillante, ma anche un divulgatore che sa spaziare e cercare il bello e il vero dappertutto. E un predicatore formidabile. È troppo, è poco, per definirsi? Lei chi è? «Una delle frasi più incisive di Pascal è proprio “Le moi haïssable”, cioè “l’io è odioso”. Descriversi è sempre difficile, ma dovrei dire che la mia tendenza fondamentale è quella della ricerca, della domanda, della curiosità ed è per questo che non sono una persona particolarmente competente di un tema, sono un eclettico, mi piacciono coloro che hanno un arcobaleno di colori, di interessi, all’interno del loro orizzonte intellettuale e anche umano».
Ha risposto a una chiamata per decidere la vita religiosa?
«Avevo poco più di quattro anni. Mi ricordo un’immagine irrevocabile, fissata nella coscienza. Ero su una collina in Brianza, là dove sono le mie origini, il paese di mia mamma, che ha un nome di origine germanica molto strano, Santa Maria Hoè, e guardavo il tramonto nella valle e un treno che passava. C’era uno strano fischio che lacerava l’aria e il silenzio e mi ha lasciato un’impressione particolare: era come il segno di una malinconia, e in quell’istante ho avuto la sensazione della fragilità dell’essere, dell’inconsistenza delle cose, in un certo senso della morte. Da lì il desiderio di cercare l’essere permanente, quindi il Divino».
La sua era una famiglia religiosa?
«Non in modo particolarmente intenso. Mio padre non lo era, aveva piuttosto una forte connotazione politica. Era un antifascista, tanto che dopo avermi concepito fu spedito in guerra, con volontà punitiva in prima linea, in Sicilia. Appena possibile disertò e tornò a casa a piedi in un viaggio da Sud a Nord durato sei mesi».
Quali sono i maestri che l’hanno accompagnata?
«Io ho avuto la fortuna di aver incontrato quasi tutte le personalità significative della seconda metà del Novecento e ho ricevuto tantissimo da loro e da tante persone semplici che hanno incrociato la mia strada».
Teologo, biblista, archeologo, ha scritto centinaia di articoli, decine di libri: cos’è lo studio per lei? Cosa fa venir voglia di studiare?
«Dobbiamo prima di tutto distinguere tra intelligenza e sapienza. L’intelligenza può averla anche un criminale e può essere spiccata! La sapienza, come dice il bellissimo termine di origine latina, significa avere gusto, sapore, è una qualità più completa e profonda. L’elemento fondamentale nell’intimo dell’esperienza umana, non solo culturale, è di avere almeno una stilla di sapienza, di sapore. Platone quando deve descrivere l’eredità del suo maestro nell’Apologia di Socrate gli mette in bocca una frase che può essere declinata anche in maniera cristiana: “Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta”. Ovvero è necessaria l’inquietudine della domanda, dell’interrogazione, tenendo presente che poi sono importanti anche le risposte. Ho incontrato una volta Julien Green, questo scrittore cattolico francese che ha attraversato tutto il Novecento e aveva in sé la dimensione profonda del cattolicesimo francese, da Pascal a Mauriac a Bernanos, e quando gli chiesi qual era il nodo d’oro che tiene insieme il messaggio cristiano mi rispose: “È una frase che ho scritto nel mio Journal, finché si è inquieti si può stare tranquilli”. È l’inquietudine agostiniana, che non significa l’essere agitati, frenetici, ma incamminarsi lungo una strada».
Cos’è la Bellezza? La modernità ha insistito molto sul suo riverbero della Verità, ma la Verità è altro: se ci si ferma alla Bellezza si rischia di ridurre tutto a una questione sentimentale.
«Vorrei partire da un’esperienza personale. Quando avevo deciso di portare in Cappella Sistina da Benedetto XVI trecento artisti di varia estrazione – scrittori, architetti, attori, scenografi… –, avevo anche pensato a uno dei maggiori pittori americani, Bill Viola. Parlando con lui dell’arte contemporanea mi disse: “L’arte contemporanea cerca di escludere soprattutto due cose, vedendole con sospetto, la Bellezza e il Messaggio”. E infatti osservando l’arte contemporanea vediamo l’insorgere soprattutto della materia o di immagini non decifrabili o di componenti autoreferenziali non comprensibili al pubblico. Si capisce com’è difficile proporre un concetto di Bellezza che sia in modo tradizionale la scoperta del senso supremo dell’essere, dell’esistere».
Nell’età moderna c’è stato un divorzio tra arte e Sacra Scrittura, arte e Chiesa, che ha impoverito l’uomo.
«Come in un vero divorzio la responsabilità è di entrambe le parti. C’è stata la secolarizzazione che ha portato l’arte dalle chiese, dagli edifici religiosi, nella piazza, nella quotidianità, dove progressivamente si è persa la Bellezza suprema, la trascendenza. E la Chiesa d’altronde si è accontentata: pensiamo solo al Novecento, quando si ricalcava l’antico, il neoromanico, il neogotico, o ci si fermava al pur rispettabile artigianato. Ecco dunque la necessità di ritessere questo dialogo fondamentale».
Per la presenza della Chiesa alla Biennale di Venezia ha proposto a tre artisti di lavorare sull’incipit del Vangelo di Giovanni.
«Si tratta di due donne e un uomo in rappresentanza di tre continenti, l’Europa, l’America Latina e l’Africa, e il tema scelto è “In principio era il Verbo e il Verbo si fece carne”. Laddove carne in senso giovanneo significa fragilità della persona, della creatura umana e per questo ho cercato di spingere l’attenzione sulla parabole del buon samaritano. Per vedere la carne in tutta la sua miseria e quella carica di violenza che essa comporta, perché nella carne c’è anche il male. È il significato ultimo della Bellezza direi, perché nella bellezza c’è anche il brutto. La croce, usata come componente fondamentale della storia dell’arte cristiana con espressioni emozionanti è in realtà orrenda. Lutero arrivava a dire in modo quasi intraducibile che la croce mostra posteriora Dei, senza neppure la bellezza di un volto. Eppure scoprendone il senso ultimo si vede la Bellezza anche lì».
L’esperienza ormai storica del Cortile dei Gentili si propone come luogo di incontro, di dialogo coi non credenti. Non pensa che di maestri del dubbio ne abbiamo abbastanza e che i non credenti siano spesso i cristiani?
«Paradossalmente si può dialogare più facilmente sui grandi temi da prospettive completamente diverse, per esempio sulla vita, la morte, l’oltre vita, il sesso, l’amore, la verità, la giustizia, la stessa trascendenza. E in fondo anche l’ateismo classico, senza nessun cielo, che lasciava l’uomo alle sue scelte solitarie nella storia, era una visione del mondo. Oggi è più difficile avere interlocutori per la malattia del nostro tempo, che io chiamo “apateismo”, ovvero l’apatia dell’ateismo, che però contagia anche i credenti. È la banalità, la superficialità, la volgarità e l’indifferenza nei confronti di Dio. In questa situazione un po’ nebbiosa bisogna riproporre le verità ultime, estreme, provocatorie».
C’è un libro appena uscito, Siamo quel che mangiamo. Lessico e cibo tra Scrittura e cultura. Abbiamo dimenticato che il cibo non è solo un bisogno, e troppa gente ne ha bisogno, o un piacere, ma è anche spiritualità, simbolo. L’Expo, di cui lei è commissario per la Santa Sede, è dedicato al cibo e la Chiesa è presente con un suo padiglione intitolato “Non di solo pane”. Qual è il significato di questa presenza e che idea si vuol proporre alla gente?
«All’Expo domina l’aspetto simbolico che è fondamentale, ma è la presenza del cibo nella sua materialità che pure è rilevante, perché non bisogna mai dimenticare, oltre alla frase “Non di solo pane”, anche il “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: non dimentichiamo che il mondo è in gran parte affamato. Al centro del padiglione della Santa Sede infatti c’è un grande tavolo, che è il mondo, che Dio ha destinato all’umanità, per il credente. Cos’è accaduto? Il Nord del mondo, che dal punto di vista quantitativo rappresenta la parte minore dell’umanità, si è posizionato tutto quanto da un lato e ha accumulato una marea di beni. Dall’altra parte c’è un numero enorme di persone che hanno soltanto gli scarti o le briciole. Il tema concreto del cibo è prioritario. Poi certamente esistono dei valori simbolici presenti in tutte le culture. Gesù amava molto i banchetti come luogo di comunicazione, d’incontro, andava alle feste nuziali, pranzava anche in cattiva compagnia, alle volte sollecitando qualche “Dagospia” che andasse a guardare e criticare i suoi comportamenti… In questa luce noi vogliamo porre tutti i problemi che sollecita la parola cibo fino alle questioni proprie del dialogo interreligioso, la custodia del creato, l’Eucarestia cioè la comunione suprema con Dio. Come diceva Claudel, “Interroga la vecchia terra, ti risponderà sempre col pane e col vino”. E il pane e il vino e un tavolo sono il cuore del culto cristiano».
Gran parte dei suoi molti viaggi li ha fatti per gli studi, gli scavi archeologici perché lei è anche un archeologo, ha seguito scavi in Siria, in Iraq, in Giordania. Sono terre violentate, martoriate, dove vengono massacrati gli uomini e distrutti i segni della bellezza.
«È la demolizione dell’umanità, perché l’arte autentica, come dicevamo prima, è espressione dell’armonia, della pienezza di senso, e siamo nella piena insensatezza. È amaro ricordare ad esempio Hatra, la grande capitale del regno dei Parti, e immaginare che stanno scalpellando questo immenso campo mirabile di una civiltà, è una specie di suicidio, un paradosso, proprio nella culla in cui è nata la storia dell’umanità».
Davanti ai segni di una violenza così folle e disumana sugli uomini e sulle cose domina la paura e non si sa dove trovare speranza, fiducia.
«Invece continuerei ad avere fiducia nell’umanità, anche per reazione. Per esempio pensiamo solo a che atteggiamento di compassione, di partecipazione, di amore si crea in noi, nelle nostre comunità, nei confronti delle vittime, è come una scossa alla superficialità. Assistere alle tragedie nel mare, questo caro mare che diventa un grande sepolcro d’acqua, è forse stimolo ad una umanità che si risveglia dal sonno della ragione. Bisogna sempre dare fiducia all’uomo, perché, come diceva Pascal, “L’uomo supera infinitamente se stesso”. Guardiamo di quante miserie, quante umiliazioni, quante vergogne è lastricata la storia, da quante strie di sangue è segnata: però rinasce, si ripresenta sempre l’umano. Perché il bene è silenzioso come la foresta che cresce, e dobbiamo sempre avere come ultima la parola dell’Apocalisse, che finisce, dopo venti capitoli di sangue, con la Gerusalemme celeste, nuova, luminosa».
Quali sono le sue consolazioni quotidiane, le cose che la rincuorano di più?
«Il mio divertimento è leggere, devo confessarlo. Ma ciò che mi consola di più è incontrare le persone. Ho avuto la fortuna spesso nei Paesi dove viaggio, o dove vivo ancora talvolta quando risalgo nella provincia del Nord, di scoprire la sapienza in una persona anziana o adesso, nel Cortile dei gentili, nei bambini… quella improvvisa “genialità” a livello culturale e spirituale che tu non hai, pur essendo magari realisticamente più intelligente, o più colto, ma umanamente meno “sapiente”».