Un’intervista di Rodolfo Casadei a Alain Finkielkraut: «Oggi siamo minacciati dall’indifferenziazione, il vero nemico da combattere». “Immortale” dell’Academie française, Alain Finkielkraut ci mette in guardia dalla deriva egualitaria “prostituzionale” che rende tutto intercambiabile. A partire dall’identità sessuale
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un’intervista di Rodolfo Casadei a Alain Finkielkraut pubblicata il 27/4/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2015)
Questo articolo, tratto dal numero di Tempi in edicola, fa parte della serie “Ragione Verità Amicizia”, il manifesto dei nostri vent’anni e della Fondazione Tempi.
Per la quinta volta il Centro culturale di Milano è riuscito a portare nel capoluogo lombardo Alain Finkielkraut, e noi ne abbiamo approfittato per un’intervista vis-à-vis, che il filosofo, come noi, preferisce a quelle telefoniche. Stava per dare la sua conferenza sul tema “Ogni cosa è avvenimento. Si può vivere così? Ripartiamo da Péguy”. Nel catalogo della mostra per il centenario di Charles Péguy presentata all’ultimo Meeting di Rimini c’era una lunga intervista a Finkielkraut. Colpisce un passaggio che non possiamo rinunciare a rievocare: «Il nostro mondo non è “prostituzionale” per lussuria, la prostituzione è l’intercambiabilità di tutte le cose, vale a dire tutto diventa malleabile, tutto diventa pertanto disponibile. Il pericolo di tutto ciò è che questa “messa a disposizione” ha qualcosa di molto gratificante, procura molto piacere, è voluttuosa, è eccitante e allo stesso tempo soddisfa in noi il desiderio di uguaglianza; non ci sono più differenze e dunque non c’è più gerarchia. Entriamo nel mondo dell’indifferenziato e l’uguaglianza suprema è il regno del simile. Posso citare, come eco di Péguy, questa frase di un filosofo francese contemporaneo, Jean-Claude Milner: “Il nocciolo duro dell’impossibilità a trasformare si sgretola ogni giorno”. Ecco la realtà, e ne abbiamo prove quotidiane».
Secondo Finkielkraut, «quella in corso non è una vittoria della differenza, ma “sulla” differenza; perché la differenza è quello che io non posso essere, ciò che è irriducibile, ciò di cui non posso impadronirmi. Con il venir meno di tutte le resistenze, invece, io posso impadronirmi di ciò che voglio, posso diventare ciò che voglio. Questo mondo Péguy l’aveva preconizzato: la parte “data” tende a sparire a vantaggio dell’artificio umano. E noi continuiamo a ragionare, in virtù di ciò, in termini di progresso. Oggi ci sforziamo di porre dei limiti, ma è possibile e probabile che non ce la faremo, perché questa “messa a disposizione” generalizzata ha la pretesa di riempire l’attesa e colmare aspirazioni molto forti».
Martedì scorso l’“immortale” dell’Academie française ha rilasciato anche un’intervista al quotidiano il Giornale, e anche lì c’è un passaggio di cui ci si può innamorare. Quello dove dice: «Il filosofo Gómez Dávila ha detto che l’anima colta è quella che nel chiasso dei viventi non stronca la musica dei morti. Con le nuove tecnologie il rumore dei viventi raggiunge il suo parossismo. Tutti si connettono in ogni istante. Invece per sentire la musica dei morti bisogna disconnettersi». Ciò premesso, ecco l’interessante scambio di idee con Tempi.
Finkielkraut, lei ha detto che le parole del presidente turco in riferimento al genocidio armeno ci fanno capire che l’islamismo moderato, di cui Erdogan dovrebbe essere il massimo rappresentante, è un bluff. Però anche i governi turchi laici del passato non riconoscevano il genocidio armeno. Cosa significa?
Il nazionalismo turco ha più volti, ne ha uno religioso e uno laico. Ma è chiaro che il governo attuale vuole far tornare lo spirito ottomano e non intende lasciare alcuno spazio all’autocritica nella sua storia. Prima del genocidio armeno ci sono stati massacri nel 1896 che hanno commosso l’opinione pubblica mondiale del tempo e soprattutto la Francia, in particolare Juarès e Péguy. Di essi l’attuale governo turco non vuole dover rispondere: questa incapacità di prendere la minima distanza dal passato è estremamente inquietante. Ed è un’ulteriore ragione per mettere in dubbio la moderazione ostentata da Erdogan. Costui sostiene gli islamisti più radicali; li ha sostenuti in Siria e in Iraq. Ha rotto l’antica alleanza con Israele e credo che il suo rifiuto di riconoscere il genocidio armeno, dopo timidi segni di apertura in passato, partecipi di una medesima attitudine arrogante e imperialista.
Un anno fa io la intervistai sui temi del suo libro L’identité malheureuse, e lei mi disse che, a proposito della crisi della convivenza sociale, occorre trovare una strada mediana fra il politicamente corretto e il politicamente abietto. Un anno dopo, trovare questa terza via appare sempre più urgente. Che cosa suggerirebbe lei, che abbia un senso etico e politico?
Di fronte all’immenso cambiamento demografico e culturale che la colpisce, l’Europa può essere tentata dalle orribili semplificazioni del razzismo e rischia di far pagare a quegli immigrati che hanno scelto la via dell’integrazione nella civiltà europea le azioni di quelli che hanno scelto la via dello scontro. Il politicamente abietto consiste in questo. Dall’altra parte, si agita continuamente la minaccia di un ritorno dei vecchi demoni, per impedire all’Europa non solo di difendersi, ma di prendere coscienza di ciò che le succede. Ecco perché è così necessario e così faticoso allo stesso tempo battersi incessantemente sui due fronti.
In un’intervista di qualche tempo fa in Francia lei ha detto che «il pensiero è l’avventura dell’involontario». Qualche mese fa Margarethe Von Trotta, la regista tedesca che ha girato anche il film Hannah Arendt, ha parlato al Centro culturale di Milano e ha detto che oggi siamo tutti dei piccoli Eichmann, perché, come diceva Hannah Arendt a proposito di Eichmann, noi non pensiamo, manchiamo di pensiero. Effettivamente, quando ascoltiamo i discorsi opposti dell’estrema destra e della sinistra radical-chic riguardo alla questione degli immigrati, o il discorso dominante attorno alle rivendicazioni dei militanti Lgbt, non sentiamo mai espressioni di pensiero, ma solo demagogia, sentimentalismo, slogan e insulti contro gli anticonformisti. Cosa significa, allora, “l’involontario del pensiero”?
Quando parlavo dell’involontario del pensiero mi riferivo alle riflessioni che faceva Gilles Deleuze a partire da Proust: il pensiero è spesso messo in moto dall’esterno. È il risveglio dell’individuo da questa specie di torpore naturale. Per quanto riguarda quello che lei dice nella domanda, voglio anzitutto dire che non bisogna giocare coi paragoni storici. Lasciamo Eichmann là dov’è. Non sono sicuro che Hannah Arendt avesse ragione di dire che costui era dedito esclusivamente al suo compito con uno zelo scrupoloso senza tenere conto delle sue finalità. Eichmann era un nazista convinto, era un fanatico. La razionalità strumentale si mescolava in lui con la visione del mondo hitleriana. E fortunatamente oggi non ci troviamo nella stessa situazione. La demagogia di cui soffriamo non ha nulla a che vedere col discorso nazista, né con la messa in opera di una qualunque soluzione finale. Penso che ciò che ci minaccia oggi in forme differenti è l’indifferenziazione. C’è il discorso Lgbt, come lei dice, l’idea che in fondo noi possiamo ora modellare la nostra identità a piacere, che nessuna differenza è irriducibile. È un discorso libertario che si appoggia sulla tecnica. E avete la sua versione economicistica, secondo la quale in fondo tutti gli uomini sono intercambiabili, e per compensare la flessione della fecondità in Europa è sufficiente far venire dei lavoratori stranieri. Quel che si tratta oggi di combattere è precisamente questa vertigine dell’indifferenziazione nella quale siamo immersi.
Quelli che oggi si battono contro l’ideologia, contro la strumentalizzazione totale del reale senza alcun rispetto per il dato, contro la tecnologizzazione della vita, a partire dalla tecnologizzazione della nascita, si appoggiano sulla categoria di avvenimento. Nella sua intervista apparsa sul catalogo della mostra del Meeting di Rimini su Péguy dell’anno scorso, lei mette in guardia contro il pericolo di vedere nell’avvenimento un valore. L’avvenimento non deve essere concepito come un valore. Qual è allora il vero statuto dell’avvenimento?
Il fatto è che ci sono avvenimenti di tutti i tipi. Ci sono avvenimenti che sono dei miracoli, ed esistono pure avvenimenti mostruosi, funesti, catastrofici. C’è il miracolo e c’è il disastro. Non si può praticare un culto dell’inatteso, senza domandarsi quale sarà il suo contenuto. Ci sono avvenimenti miracolosi come l’apparizione di una grande opera d’arte, e avvenimenti calamitosi come l’apparizione di Adolf Hitler. Anzi, Hitler è un avvenimento in senso stretto. Si poteva prevedere tutto, si poteva prevedere la Seconda Guerra mondiale dopo la Prima. Grandi personalità l’hanno prevista: Keynes, a partire dalle conseguenze economiche della pace, e in Francia Jacques Bainville a partire dalle conseguenze politiche della pace. Scrisse che il trattato di Versailles annunciava la guerra. L’ha mostrato mirabilmente. Ma nessuno aveva previsto Hitler! Era totalmente imprevedibile. Ed è per questo che si torna sempre sull’argomento, che si mostrano continuamente le immagini di quel tempo, chiedendosi come sia stato possibile, come abbia potuto accadere. È stato un puro avvenimento. Ci possono essere avvenimenti orribili.
Lei ha spiegato la frase di Péguy «il padre è il vero avventuriero dei tempi moderni» sottolineando che oggi il padre di famiglia è spinto a mettere mano al cambiamento sia nella vita privata che in quella sociale, a prendersi delle responsabilità nella vita del mondo, perché sa di essere responsabile della vita delle persone della sua famiglia, vuole un mondo migliore per loro. Lei ha detto che «meno padri e meno maestri ci saranno ad esercitare l’autorità, meno persone ci saranno ad assumersi delle responsabilità di fronte al mondo, e più avventurieri nel senso negativo del termine ci saranno». Come si possono riconoscere i veri maestri e i veri padri?
Fondamentalmente, oggi non siamo incoraggiati ad essere veri maestri e veri padri, perché l’idea stessa di una responsabilità per il mondo cade in desuetudine. Il valore che non si cessa di onorare oggi è il cambiamento, e ci si vuole convincere che il vecchio mondo è un mondo di stereotipi, di pregiudizi. Non so in Italia, ma in Francia questo si vede per esempio col successo rapido della teoria del gender, che ora si insegna nelle scuole. Ci viene detto: perché non si dovrebbero studiare le costruzioni culturali che possono esserci state attorno al maschile e al femminile? Ma la teoria del gender fa una cosa completamente diversa: essa parla di stereotipi e invita perciò i bambini, che non sono ancora entrati nel mondo, a decostruire gli stereotipi. Ciò significa insegnare loro, prima di qualunque conoscenza del passato, un rapporto di superiorità al passato. Come ci si può sentire responsabili di un passato che non sarebbe che un intreccio di errori e di sbagli? Il mondo, diceva Hannah Arendt, è necessariamente antecedente a noi. Noi dobbiamo migliorarlo, ma allo stesso tempo dobbiamo abitarlo, e per abitarlo bisogna poter rispondere, e mi sembra che sia proprio questo sentimento di responsabilità che si disfa sotto i nostri occhi. L’idolatria della gioventù è un altro sintomo di questo abbandono.