Armeni: dal genocidio alla speranza, di Antonia Arslan
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Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione della relazione tenuta dalla prof.ssa Antonia Arslan il 13/4/2015 in un incontro organizzato dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma e dal Centro culturale Gli scritti. La trascrizione è opera di Giulia Balzerani (che ha anche curato l’organizzazione dell’evento per Gli Scritti). Il testo non è stato rivisto dal relatore stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Chiese ortodosse nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (24/4/2015)
Antonia arslan nel corso dell'incontro Armeni:
dal genocidio alla speranza
Andrea Lonardo
Ascolteremo questa sera Antonia Arslan, conosciutissima scrittrice, italiana e armena. La intervisterà per noi il professor Giovanni Ricciardi, scrittore di romanzi gialli, giornalista, professore di liceo, che ha cominciato ad interessarsi degli armeni nel 2000. Angiola Baggi, attrice e doppiatrice nota, che tra i tanti personaggi ha doppiato il personaggio di Armineh nel film dei fratelli Taviani tratto da La Masseria delle allodole, leggerà alcuni brani dell’autrice.
A me spetta, in apertura dell’incontro, spiegare perché l’Ufficio catechistico si occupa di questo argomento qual è l’angolatura particolare, diversa da un’analisi storica, politica, economica, a partire dalla quale affrontiamo la questione questa sera. Vi propongo quattro punti:
-La questione del male. Chi si occupa di educazione e di catechesi, oggi, “deve” parlare del male e della sua provenienza. Gli Armeni chiamano il genocidio “Il grande male” (Metz Yeghern). Noi sappiamo che il male esiste ed è nel cuore degli uomini. In questi giorni sto scrivendo un articolo sulla filosofia dell’Illuminismo che ha avuto fra i suoi pilastri la cancellazione dell’idea di peccato originale, per cui il male è visto dai filosofi dei lumi solo come qualcosa di esterno all’uomo, proveniente dalla società. Se il male dipende dall’economia, dalla politica, non si riesce a capire come ci siano persone benestanti che diventano cattive e persone di grande povertà che sono buone.
Uno dei grandi meriti che molti riconoscono alla professoressa Arslan, e io mi unisco a questo coro, è che lei sa parlare del male parlando di speranza, raccontando non solo il male, ma anche storie di donne che si offrono per salvare bambini, di persone, non solo armene, ma anche greche o turche che hanno dato una mano.
Questo ripropone la domanda: come mai alcune persone sono cattive e altre buone nello stesso contesto? Parlando del genocidio degli armeni siamo davanti al mysterium iniquitatis, a questo male che è inspiegabile. È il male il vero dramma della storia, il male che colpisce gli innocenti - si pensi a quando ci sono milioni di morti, a quando si uccidono i bambini, come sta avvenendo anche ora, mentre noi parliamo. In questo momento in più parti del mondo ci sono persone che stanno uccidendo bambini, stuprando donne. Come si reagisce al male? Qual è l’antidoto al male? Questa è la prima grande questione.
In questi giorni mi viene spesso alla mente la notte di Pasqua quando si dice, nel canto dell’Exultet, che il mistero di quella notte dissipa l’odio. Noi abbiamo bisogno di una parola detta da credenti e non credenti, detta da Dio, per cui l’odio viene dissipato. Noi cristiani diciamo che chi odia non conosce Dio, dovunque c’è l’odio, dovunque c’è un genocidio, lì c’è non la presenza di Dio, ma del diavolo.
Ed ecco allora che noi vogliamo parlare del male, del genocidio, ma per parlare del bene, della speranza. Non c’è solo un punto di partenza statico, ma una storia che porta verso il bene. Molti traggono dal male presente nel mondo la conclusione che la colpa è delle religioni che causerebbero l’odio: l’affermazione è di una sciocchezza assoluta proprio dinanzi ai genocidi del XX secolo, causati da regimi atei, come il regime nazista e quello stalinista. Ma questo è vero anche per il genocidio armeno, voluto dal movimento dei “giovani turchi”: essi si ritenevano, infatti, dei laicizzatori della Turchia, interessati soprattutto al nazionalismo più che alla religione.
-Il secondo motivo che ci ha spinto ad organizzare questo incontro è la necessità di allargare lo sguardo a comprendere la diversità dei riti e delle tradizioni che esiste nella Chiesa. Noi siamo abituati a pensare al Cristianesimo come a qualcosa di occidentale: la cosa è assolutamente falsa, perché il cristianesimo nasce in area mediorientale. Il mistero del Medio Oriente è che lì sono nati il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islam. In un luogo nel quale oggi non è facile vivere, hanno avuto origine queste tre grandi religioni.
Mi viene in mente la storia di una ragazza che è diventata cristiana e poco tempo fa è stata battezzata. Lei, iraniana venuta in Italia, attraverso la frequentazione di gruppi scout ha avvertito questa esigenza e l’ha manifestata a sua madre, persona buona, ma che non voleva che lei si battezzasse. Questa ragazza è venuta da me in lacrime perché sua madre le aveva detto che lei voleva battezzarsi perché voleva diventare occidentale, incolpandola di voler dimenticare le sue origini mediorientali! Le ho spiegato che poteva rispondere alla madre che il cristianesimo era presente in Persia fin dalle origini, ben prima dell’Islam, e che, quindi, diventando cristiana, non diventava occidentale, ma riscopriva aspetti dell’Iran ancora presenti nella Chiesa che vive tuttora come minoranza in quel paese. Poteva essere serena dinanzi alla madre, perché Cristo è venuto per tutti e perché, appunto, il Cristianesimo nel suo Paese c’è da sempre.
Insomma, parlando di armeni e della loro persecuzione scopriamo che c’è un popolo cristiano non latino, quello degli armeni appunto, che è divenuto cristiano prima della conversione di Costantino.
Non bisogna dimenticare che il genocidio armeno si rivolse non solo contro le persone, ma cercò di cancellare la cultura armena, distruggendo chiese e monasteri, distruggendo manoscritti, quasi a dire che in oriente non era mai esistita una cultura armena e che l’Anatolia era stata sempre turca. Antonia Arslan ha raccontato in forma romanzata il salvataggio di un antichissimo manoscritto, il Libro di Mush, e noi con lei vogliamo conoscere la bellezza della cultura armena.
-Credo poi che sia importante oggi parlare del genocidio degli armeni per non incentivare il vittimismo di una certa mentalità oggi diffusa presso molti musulmani . Intendiamo parlare del genocidio esattamente perché amiamo i turchi. Sarebbe importante che oggi i Turchi dicessero serenamente che alcuni figli della Turchia, cento anni fa, hanno commesso un genocidio - e non è l’unica azione colpevole compiuta dall’impero ottomano nei secoli. Se si continuano a stigmatizzare solo le crociate ed il colonialismo ecco che un arabo od un turco potrà sentirsi sempre una vittima, perseguitato nei secoli dall’occidente. Se invece comincia ad accorgersi che anche gli arabi ed i turchi sono stati colonialisti e hanno fatto tanto male ad alcune popolazioni, ecco che potrà chiedere scusa, ecco che potrà diventare più umile, ecco che dinanzi ai disastri del nostro tempo potrà domandarsi come dare il proprio contributo, riconoscendo che la violenza che esiste dipende anche dall’insegnamento di alcuni maestri arabi o turchi. Alcuni educatori musulmani hanno cominciato a fare questo mea culpa, smettendo di accusare l’occidente ed affermando che se c’è violenza oggi nell’islam questo dipende da una cattiva educazione che viene impartita nelle moschee.
Per comprender qualcosa del dramma vissuto dai cristiani delle diverse confessioni – siriani, armeni, copti, caldei ed assiri, ecc. – basta ricordare che all’inizio del XX secolo nel Medio Oriente c’era un 26% di cristiani, mentre ora la percentuale è scesa al 3-4%: tantissimi sono dovuti scappare, perseguitati come minoranza. I cristiani sono passati da essere un quarto della popolazione ad essere un ventesimo.
Ammettere che esiste un problema determinato dalla maggioranza musulmana in quegli anni sarebbe segno di maturità e se io non lo dicessi li offenderei. Se io ritengo una persona cretina, non le dico la verità, se invece dico cosa penso del male di cui è responsabile è perché la stimo e la rispetto. Mi ha colpito una frase di un filosofo psicanalista sloveno, Slavoj Žižek che ha scritto su Repubblica recentemente: “Più i progressisti occidentali rovistano nel loro senso di colpa, più vengono accusati dai fondamentalisti islamici di essere ipocriti che cercano di nascondere il loro odio per l'islam”. Se io continuo a giustificarti, in realtà ti sto odiando, mentre dire la verità aiuta ad avere un rapporto vero con qualcuno che si stima capace di chiedere perdono, di vedere le proprie colpe.
La stessa miopia la vediamo nei confronti dell’accusa all’occidente di aver rovinato gli arabi palestinesi. Io ho vissuto e studiato a Gerusalemme e per me è evidente che il dramma del Medio Oriente dipende innanzitutto da cinque secoli di dominazione ottomana, turca, che ha impoverito enormemente quei luoghi. Tutti parlano della dominazione inglese che ha causato anche danni molto gravi, ma questo dominio è durato solo un trentennio, un nulla di fronte ai danni causati in Palestina da cinque secoli di presenza ottomana. Ripeto: non dico queste cose per fomentare un odio anti-turco o anti-arabo, ma per riequilibrare la memoria storica. Certo ci sono state le crociate – e di questo il papa ha chiesto perdono -, certo c’è stato il colonialismo inglese, ma c’è stato anche il genocidio armeno, c’è stato anche un atteggiamento ostile delle popolazioni turche contro l’occidente nei secoli, così come una loro pesante dominazione sugli arabi.
-Infine, voglio sottolineare che il parlare degli armeni in questa sede non ha un fine politico, ma è un riflettere avendo stima di turchi ed arabi. A proposito delle parole pronunciate dal Papa sulla questione armena, mi sembra che accusarlo di avere fini politici sia una cosa priva di senso. Fra persone ci si parla liberamente. Ho visitato varie volte la Turchia che ha dei luoghi bellissimi, lì ci sono tanti giovani che, a differenza che in altri Paesi islamici, studiano letteratura, poesia, sono liberi e vivaci culturalmente.
Il fine di questo nostro parlare è invece quello di mostrare che può e deve esistere un dialogo fra le religioni e che il presupposto di questo dialogo non è che esista un solo Dio che si presenta sotto fogge diverse interscambiabili fra loro: il presupposto è, invece, che l’uomo ha sempre e comunque una dignità unica e che ogni atto che lo offende e lo umilia è contrario al suo senso religioso, alla sua ricerca di Dio. Su questo dialogo vero tra le religioni, a partire dall’uomo e non da una presunta identità delle religioni che è falsa, mi piace citare non la frase di un grande teologo o esperto di politica, ma della cantante Laura Pausini, che in una sua canzone dice: “Perché il cuore di chi ha un altro Dio, è uguale al mio”. Non è quindi ogni religione ad essere uguale alle altre ed in fondo equivalente - perché anzi le religioni sono diverse e bisogna avere il coraggio di dirlo e di parlare delle loro differenze, lasciando gli uomini liberi di aderire a quella che in coscienza ritengono essere quella vera -, ma è il cuore delle persone che, qualunque sia il loro credo, ha la stessa dignità, la stessa grandezza. Questo dovremmo insegnarlo in modo chiaro: dobbiamo discutere di religione e di politica, ma rispettando il cuore dell’altro e chiedendo all’altro di avere stima e rispetto per noi, perché abbiamo la stessa dignità.
Adesso il professor Giovanni Ricciardi, che ringrazio per essere qui, presenterà la sua amica, Antonia Arslan.
Giovanni Ricciardi
Nel 2000 sono stato incaricato di redigere un dossier sul genocidio armeno, di cui non sapevo nulla. Avevo solo un vago ricordo dai tempi dell’università, quando su un armadio del dipartimento di studi orientali avevo visto una scritta che diceva: Giustizia per il genocidio armeno e mi ero chiesto di cosa parlasse - non so se capita anche a voi. Il Senato della Repubblica discuteva all’epoca il riconoscimento del genocidio degli armeni di cui quest’anno ricorre il centenario e, facendo questo lavoro di ricerca, mi accorsi che non esisteva bibliografia su questo argomento. Ancora non conoscevo una piccola casa editrice di Milano, la Guerini, che molto bene ha fatto in questi ultimi anni per dare alle stampe diversi libri che parlassero degli Armeni. Mi capitò poi di incontrare un collega di università che aveva sposato un’Armena e così ebbi accesso a una serie di testi di cui non conoscevo l’esistenza e di cui nessuno sapeva. La professoressa Arslan può confermarci che nel 2000 di questo argomento non si parlava. Preparai questo dossier e l’ambasciatore mi chiamò per invitarmi a un ricevimento. Mi stavo rendendo conto che esisteva un popolo, quello armeno, che nel 1915 aveva subito un genocidio e che in Italia era come sconosciuto. La professoressa Antonia Arslan è stata docente all’università di Padova e, il suo cognome lo rivela, ha origini armene. Questa dolce signora nel 2004 ha dato alle stampe un romanzo, La masseria delle allodole, che è arrivato alla 30° edizione ed è stato tradotto in più di venti lingue, un piccolo miracolo. Nel 2004 La masseria delle allodole, prima pian piano, poi con sempre maggior forza, ha portato al pubblico italiano una conoscenza cento volte maggiore di quella che poteva esserci fino a quel momento, di questi avvenimenti. Questa sera si verifica la circostanza fortunata di poter parlare con lei proprio all’indomani della messa celebrata dal Papa e durante la quale il Papa ha coraggiosamente e con grande libertà chiamato genocidio quello che è accaduto dall’aprile 1915 fino a tutto il 1916 e anche dopo. Dopo questo libro la professoressa Arslan ha completato una trilogia sull’argomento. Da lei vogliamo ascoltare delle sue origini, della motivazione che l’ha spinta a scrivere questo libro e di quello che è accaduto dopo.
Antonia Arslan
Torno a Roma sempre con gioia, perché i miei nonni materni abitavano qui, in via Nomentana 60, uno dei luoghi del mio immaginario. La masseria delle allodole è un libro che, come tutti i romanzi, non nasce da un atto di volontà, ma è qualcosa che un po’ alla volta è maturato dentro di me e che si è servito di tutto quello che fino ad allora avevo fatto ed ero capace di fare. Avevo studiato la tecnica dei romanzi, avevo fatto corsi, ma a un certo punto dentro di te nasce qualcosa che è una sorta di violenta necessità di raccontare.
Ma di raccontare cosa? Io avevo dentro di me questa storia, che era la storia di mio nonno Yerwant. Yerwant era un ragazzo di tredici anni quando arrivò in Italia, verso la fine dell’Ottocento, per studiare al collegio armeno di Venezia che era un liceo straniero parificato dove si insegnava in armeno. Con il diploma del liceo armeno, che è durato dal 1830 al 1998, il più longevo dei licei stranieri italiani, ci si poteva iscrivere alle università italiane. Mio nonno studiò lì e non tornò mai nella piccola città.
Nel romanzo La masseria delle allodole io non dico il nome di questo luogo, dico soltanto la piccola città, perché volevo che questa storia, che era la mia storia, la storia della mia famiglia diventasse la storia di tutti gli armeni. Chiamarla piccola città dava qualcosa di più generale a questa storia individuale, ma non ho problemi, se me lo chiedono, a dire il nome del luogo. Era una città crocevia delle deportazioni, che si trovava al centro dell’Anatolia e si chiamava in realtà Kharpert (la fortezza di Khar), dove erano concentrati i luoghi di studio più importanti per gli Armeni nel territorio ottomano. Grandi licei, grandi collegi, scuole straniere, adempiendo la volontà di tutti gli Armeni di istruire il più possibile i figli. In Anatolia nel 1915 tutte le bambine erano alfabetizzate, non esisteva analfabetismo di nessun tipo. Ogni villaggio aveva la chiesa e, vicino alla chiesa, la scuola. Le bambine come i maschi imparavano e a otto-nove anni, sapevano leggere e scrivere nel meraviglioso, ma difficilissimo, alfabeto armeno - 38 lettere tutte diverse dalle nostre, che il santo monaco Mesrop Mashtots inventò nel V secolo d.C.
Mio nonno rimase in Italia, suo padre si chiamava Hamparzum ed era un uomo molto duro, come lo era anche lui. La mamma di mio nonno che lui chiamava per nome, Iskuhì dalle gote di pesca e dal vestito di fuoco, che si era sposata a sedici anni e che morì a 19, di parto. Suo padre dopo qualche tempo si era risposato e mio nonno non gliel’ha mai perdonata, sicché aveva chiesto e ottenuto di partire dalla piccola città e andare a studiare in Italia senza mai più tornare indietro fino alla morte di suo padre.
Aveva ottimi rapporti con i fratellastri, perché aveva un forte legame con Sempad che era suo fratello anche per parte di madre, ma andava molto d’accordo anche con i fratellastri. Ma non con suo padre. In Italia - lo racconto sempre perché per molti versi lo ritengo estremamente affascinante - questo giovane armeno dagli occhi intensi e dalla volontà di ferro si iscrisse alla facoltà di medicina all’Università di Padova, studiava di notte e lavorava come infermiere di giorno, non volle più soldi da suo padre dopo i 18 anni - e io ho ritrovato in una soffitta alcuni degli attestati di benemerenza che i comuni della provincia di Padova o di Vicenza gli diedero per la sua opera a favore dei colerosi delle ultime epidemie.
Quando finì di studiare voleva specializzarsi, sentiva di poter essere un grande chirurgo, per cui riuscì a ottenere da una famiglia di Padova un prestito sull’onore che gli permise di vivere quattro anni a Parigi, allora centro della cultura universale e tornare in Italia da chirurgo e fare una splendida carriera. Quest’uomo diventa italiano, ma fino al 1915 della sua origine tiene gran conto, vorrebbe tornare nella piccola città, non taglia i legami con i fratelli, anzi vorrebbe aiutare i nipoti per farli studiare in Italia.
Su questo quadro familiare si abbatte la tragedia. Il genocidio comincia in un modo violento, già all’inizio del 1915 con modalità che prefigurano ciò che poi succederà agli ebrei, colpendo tutti i soldati di etnia armena che erano nell’esercito ottomano. Tutti i giovani armeni vengono disarmati, messi in battaglioni di lavoro e fatti lavorare fino all’estenuazione, e quando sono estenuati vengono uccisi.
Però il giorno della memoria ufficiale è il 24 aprile perché è il giorno in cui con una programmata azione improvvisa i capi della comunità armena vengono portati via dalle loro case di notte, avviati verso sud da una stazione della ferrovia di Costantinopoli, attuale Istanbul, che si chiama stazione di Haidar Pascià: queste trecento/quattrocento persone che sono giornalisti, scrittori, uomini politici, medici, avvocati, tutti i componenti l’élite della comunità armena vengono caricati sui vagoni, trattati malissimo e uccisi al ritmo di venti persone al giorno. Questo renderà più facile distruggere le comunità.
Lettura della morte di Hamparzum, da La masseria delle allodole, pp. 29-32.
In questo brano ho provato a immaginare gli incubi che poteva avere avuto il padre di mio nonno, che morì nel suo letto, come premonizioni ,e come contraltare parlo di Nubar, lo zio Nubar che si salvò perché al momento della strage della sua famiglia, era vestito da femmina.
Giovanni Ricciardi
La storia inizia con i giovani che vengono uccisi attraverso l’arruolamento e l’annientamento, l’élite culturale viene distrutta nel modo che la professoressa Arslan ci ha raccontato, ma il libro racconta un viaggio che è il mezzo con il quale è stato portato a termine il genocidio di donne, bambini e vecchi: è questo che racconta La masseria delle allodole, fino all’arrivo in terre oggi purtroppo famose perché se ne parla ogni giorno nelle cronache, Aleppo, il deserto della Siria. Il libro per gran parte racconta questo viaggio verso il nulla, pieno di episodi di terribile violenza, ma anche di episodi di bontà, di amore, e il simbolo di questo aspetto è Nazim, un turco, perché il popolo armeno, come quello ebraico, ha i suoi giusti. Ecco, vorrei che la professoressa Arslan continuasse il suo racconto, sui fatti ai quali ho accennato brevemente.
A.A.
Prima di rispondere vorrei spiegare perché ho messo qui sul tavolo questa sciarpa. Ha i colori della bandiera armena: il blu del cielo, il rosso del sangue e l’arancio delle albicocche, il frutto nazionale armeno. Me l’ha fatta e regalata una signora di Los Angeles, dopo un incontro di presentazione del libro in California.
Giustamente mi inviti a parlare di quello che succede nel libro, io ho cercato attraverso la storia della mia famiglia, di raccontare quello che tutte le famiglie armene subirono. Ricordiamo che su due milioni di Armeni residenti in Anatolia, furono uccise circa un milione e mezzo di persone, i tre quarti - è importante vedere le proporzioni, oltre che il numero totale. Altrettanto avvenne per la minoranza siriaca (o assira, secondo le denominazioni). Il racconto mostra come, nel caso degli Armeni, i destini degli uomini e delle donne furono molto diversi. Gli uomini vengono uccisi subito, per loro si spreca una pallottola, o si pugnalano o vengono fatti precipitare da scarpate - esistono resoconti raccapriccianti di testimoni oculari, gente non armena che era lì per caso e ha visto e raccontato. Le donne subirono una sorte diversa.
Ricordiamo che genocidio vuol dire sterminio programmato organizzato dall’alto, non una cosa episodica. A volte la parola genocidio viene usata a sproposito oggi: genocidio significa la volontà di programmare dall’alto, di ottenere la sparizione di un popolo per motivi, dice la famosa dichiarazione delle Nazioni Unite del dicembre 1948, “etnici, politici o religiosi”. Questa è proprio la definizione del termine, inventato da un ebreo polacco, Raphael Lemkin, che inventò questa parola, dobbiamo sempre ricordarlo, nel 1944, e la inventò basandosi su ciò che era successo al suo popolo - la sua famiglia era scomparsa ad Auschwitz - ma tenendo presente la tragedia degli Armeni che studiava da 30 anni. Il collegamento lo stabilì già lui e lo dichiarò in due celebri interviste televisive che rilasciò negli anni ’50 agli albori della televisione.
Ogni tanto mi capita che, alla fine di un incontro, qualcuno mi nomini altri fatti affermando: “Ma anche questo è un genocidio!”. No! Può essere una strage, la volontà di opprimere un popolo, ma genocidio vuol dire sterminare tutti gli appartenenti a una popolazione. I tedeschi volevano sterminare tutti gli Ebrei, anche in modo autolesionistico, perché molti Ebrei erano loro utili. Lo stesso accadde per i Turchi. In alcune città dell’Anatolia, lo sterminio degli Armeni portò a un impoverimento del Paese, perché per esempio, vennero uccisi tutti i contadini della Valle di Mush. L’anno successivo - questo non lo racconto nel libro, l’ho scoperto dopo - l’esercito turco tornò nella Valle di Mush pensando di trovare ancora i fiorenti campi dell’anno precedente, ma non trovò nulla perché nessuno aveva più coltivato la campagna. Ogni tanto faccio una scoperta interessante, continuano a saltare fuori testimonianze, archivi segreti, racconti di missionari, soprattutto protestanti, ma anche cattolici, di medici, di persone che erano lì per costruire ferrovie, c’erano tanti stranieri e hanno raccontato storie incredibili.
Ho appreso da poco che gli orologiai allora erano tutti Armeni e allora, a furia di uccidere Armeni, i Turchi si sono ritrovati senza nessuno in grado di aggiustare i loro orologi, e allora si decise di risparmiare un orologiaio per ogni città - sembra incredibile! Naturalmente questi prescelti cercavano di contrattare per salvare anche le loro famiglie. Mi hanno raccontato che uno di questi orologiai venne salvato e voleva salvare troppi membri della sua famiglia e, alla fine, gli dissero che avrebbero risparmiato cinque persone e non di più.
Con il passare del tempo vengono fuori anche le testimonianze sui Giusti. Una volta ho usato un’espressione per definire i Giusti che ancora oggi mi sembra adatta: i Giusti sono coloro che non guardano altrove, sono quelli che guardano davvero quello che succede. La loro essenza umana è ancora sveglia e capiscono quello che sta avvenendo e cercano di porre rimedio. Sappiamo che i Giusti non sono tanti, per esempio conosciamo storie di Giusti per gli Ebrei, che hanno salvato singole persone o gruppi numerosi dallo sterminio.
Per gli Armeni successe lo stesso, ci fu per esempio un ufficiale tedesco che da solo, silenziosamente, si mise a scattare fotografie dei campi profughi, in realtà dei campi di sterminio. Circa cento di queste foto si sono salvate e costituiscono la più grande testimonianza della tragedia armena. Era un ufficiale tedesco, prussiano, Armin Wegner, e anche se non ha salvato materialmente delle vite, ha documentato in modo importante quello che stava accadendo.
Altri Giusti erano singoli contadini, come capita di dire più volte nel libro, come quello che seppellisce Nevart in fretta. Era uno qualsiasi che di fronte a un cadavere, invece di dargli un calcio - e ricordiamo che erano centinaia, migliaia i cadaveri insepolti lungo le strade dell’Anatolia del 1915-16, tanto che si racconta di gente che cambiava strada per il cattivo odore, o del treno che passava attraverso due siepi di morti - decide di fare un gesto di pietà e seppellire un cadavere. Io ho inventato il personaggio di Nazim che si basa su tante storie che ho sentito raccontare.
Lettura da La masseria delle allodole, pp. 150-152.
Un sopravvissuto che vive in California mi ha detto che se non ci fossero stati singoli Turchi che hanno salvato un bambino qui e uno là, la stirpe armena sarebbe scomparsa del tutto. Questi bambini presi e accolti nelle case venivano convertiti a forza e veniva loro proibito di parlare la loro lingua. Dopo la guerra molti di questi bambini sono stati riscattati con denaro sonante in una grandissima operazione umanitaria che venne lanciata dall’Ambasciatore americano presso la Corte del sultano. Era un Ebreo, Henry Morgenthau. I destini di parecchi Ebrei si intrecciano con le vicende del genocidio armeno. Questo ambasciatore Morgenthau è stato benedetto dagli Armeni, è il Giusto per eccellenza perché è colui che ha raccolto venti milioni di dollari dell’epoca tra il 1916 e il 1920 e li ha usati per ricomprare bambini armeni, costruire orfanotrofi, costruire luoghi dove le donne superstiti potessero lavorare e alla fine portarli negli USA o in Francia, dove sono le comunità armene più grandi.
In Italia i bambini passavano per due orfanotrofi, uno dei quali era nella tenuta papale di Castel Gandolfo per concessione di Benedetto XV. Il primo Capo di Stato che parlò con chiarezza di quello che succedeva in Armenia fu Benedetto XV che scrisse al sultano una celebre lettera che venne consegnata dal Nunzio apostolico Mons. Angelo Dolci. In questa lettera, in un elegante latino, Benedetto XV scrive: “Miserrima Armeniorum gens prope ad interitum adducitur” (Il popolo miserissimo degli Armeni che è condotto quasi alla sua distruzione totale). Benedetto XV aveva già chiara l’idea che si trattava della distruzione totale. Gli Armeni non erano un popolo maltrattato, ma condotto alla distruzione totale, cioè al genocidio.
Il tema dei Giusti è in pieno sviluppo. Morgenthau e alcuni Ebrei sono i principali Giusti per gli Armeni, ma lo sono anche alcuni Turchi.
Alcuni sindaci si rifiutarono di sterminare i loro cittadini armeni e vennero per questo esautorati dal loro posto, a volte uccisi, o comunque cacciati via.
Celebre il caso di uno che era però Arabo, che venne messo in prigione perché, in qualità di sindaco di una cittadina, si era rifiutato di uccidere i suoi Armeni. Altri scelsero una via di mezzo, come quel sindaco che - si è scoperto da poco - trovandosi nel suo villaggio due sole famiglie armene, le convocò in municipio e, non avendo voglia di accoppare Armeni, li fece entrare dalla porta destra di una sala e disse loro: “Adesso voi uscite dalla porta di fronte, a sinistra, e da questo momento non siete più Armeni, non lo siete mai stati, siete Turchi”. Aggiunge: “Non importa che diciate formule, siete tutti convertiti”. Naturalmente i maschi furono circoncisi.
I ricercatori turchi, che sono quelli che più facilmente hanno accesso ai documenti e alle testimonianze, si sono messi alla ricerca degli islamized armenians, cioè coloro che 100 anni fa sono stati islamizzati a forza, a volte anche senza cattive intenzioni. Queste persone sanno sempre di non essere completamente turche, molti hanno conservato alcuni riti cristiani che praticano solo di notte. Ai figli dicono la verità solo quando sono maggiorenni.
C’è stato un ricercatore che si chiama Kemal Yalçin, un turco che vive in Germania, che ha scritto un bel libro che si chiama Con te sorride il mio cuore, al quale ho fatto la prefazione qualche anno fa, pubblicato a Roma da Edizioni Lavoro, il quale ha percorso tutta l’Anatolia alla ricerca delle famiglie che avessero nel proprio DNA, nella propria coscienza storica, la percezione di un’origine armena.
Il tema dei Giusti è importante, ma non bisogna enfatizzarlo, non è che ce ne fossero tantissimi, ma qualcuno che non guardava altrove c’era, qualcuno in cui non era stata uccisa la scintilla dell’umanità ed è il grande tema del Bene e del Male, di cui parlava Mons. Lonardo, dentro ciascuno di noi.
È la cosa che dico sempre quando vado nelle scuole. I liceali pensano che io arrivi a celebrare l’ennesimo Giorno della Memoria, uno di quei riti a volte stanchi. Devono capire invece che dentro di loro c’è il massimo del bene e il massimo del male e ognuno di noi fa una scelta o più scelte. Non sempre uno che segue e asseconda pulsioni genocidarie è un uomo crudele, può essere semplicemente un uomo avido, al quale viene detto che la casa del suo vicino, più bella della sua, che lui ha sempre invidiato, o la moglie del vicino, più bella della sua e che lui ha sempre desiderato, possono essere sue, perché quelle persone sono inferiori, sono animali: e se è l’autorità dello Stato a dirti questo tu puoi crederci e l’avidità fa il resto. Quando si parla della Shoah, ci si chiede se i tedeschi sapessero o meno ciò che stava avvenendo. Ma certo che lo sapevano, solo che si può anche chiudere un occhio e affidarsi allo Stato e credere a quello che dice.
Il personaggio di Nazim è un mendicante e quindi i tre che aiutano il piccolo popolo di Shushanig (piccola Susanna) saranno questi personaggi umili che agiscono perché il loro cuore non regge l’orrore. Sono una lamentatrice, un mendicante turco che prima ha tradito la famiglia - e quindi ho cercato di far vedere l’evoluzione in lui del male che ha creato - e infine il prete Isacco, che è un greco. Ismene, Nazim e Isacco sono i tre personaggi che poi salvano i bambini. In tutto quello che scrivo ci sono dei greci perché per me sono un popolo straordinario.
G.R.
Volevo dire che La masseria delle allodole, il romanzo più famoso e celebrato ha avuto poi una bellissima versione cinematografica ad opera dei fratelli Taviani e poi ha avuto un seguito perché Antonia ha scritto altri due libri a completare una trilogia, una saga familiare che inizia con La masseria delle allodole, continua con un altro libro bellissimo, La strada di Smirne, che racconta della diaspora degli Armeni e dei Greci e l’ultimo che è appena uscito, Il rumore delle perle di legno, che arriva fino al 1968 e continua a raccontare questa storia attraverso la discendenza, questo piccolo gregge che poi si disperde nei Paesi nei quali oggi gli Armeni vivono. Antonia Arslan ha poi scritto Il libro di Mush, il libro prima citato da Mons. Lonardo, un prezioso codice che contiene simbolicamente tutta la storia, la fede, il Cristianesimo del popolo armeno, che viene salvato da due donne che riescono a non farlo distruggere dalla furia genocidaria che vuole cancellare, oltre alle persone, la memoria storica di un popolo. Vorrei fare un’ultima domanda ad Antonia: Non è facile raccontare l’orrore, lei ci riesce in modo particolare. Una volta mi ha parlato di una poesia di Dylan Thomas, attraverso la quale mi ha spiegato come riesce a raccontare cose tanto terrificanti, in un tono che è possibile leggere a chiunque.
A.A.
La poesia era “Rifiuto di piangere la morte, in un incendio, di una bambina a Londra”
Mai finché il genere umano che fa
Uccello bestia e fiore
Che genera figli e tutta l’oscurità umiliante
Dirà col silenzio l’ultima luce che irrompe
E finché l’ora immobile
È giunta dal mare in tumulto imbrigliato
E mi tocca ancora entrare nella rotonda
Sion della spuma dell’acqua
E nella sinagoga della pannocchia di granturco
Devo permettere che si preghi l’ombra di un suono
O che si semini il mio granello di sale
Nella più piccola delle valli in tela di sacco per piangere
La maestà e l’ardere della morte della bambina?
Non ucciderò
L’umanità della sua dipartita con una verità mortalmente seria
Né bestemmierò per le stazioni del respiro
Con l’ennesima
Elegia di innocenza e gioventù.
Profonda giace con i primi morti la figlia di Londra,
avvolta negli amici di lunga data,
con i chicchi di grano oltre tempo, le vene scure di sua madre,
mistero dell’acqua non in lutto
del Tamigi scalpitante.
Dopo la prima morte non ce n’è un’altra.
La ritengo una poesia bellissima, già il titolo la spiega. Muore una bambina a Londra durante un bombardamento e quello che mi ha segnato e ho molte volte citato è l’ultima frase: Dopo la prima morte non ne esiste un’altra. Questo per me chiarisce in un solo verso qualche cosa che tu devi tener presente se vuoi raccontare storie terribili: per quanto sia dura la morte di questi bambini, la loro strada continua, la loro anima è immortale. Questo non possiamo darlo per scontato, la nostra percezione si rifiuta, ma Dylan Thomas, lo aveva ben presente. Io schematizzo dicendo che noi nasciamo e ad un certo punto sulla nostra strada troviamo un cancello, per qualcuno si trova prima, per alcuni dopo, ma non è la fine di tutto, perché al di là la strada continua. Se tieni presente questo puoi raccontare storie come quelle che ho raccontato io senza indulgere al morboso, senza però risparmiare dettagli, perché non ritengo sia giusto autocensurarsi. Bisogna raccontare le cose come sono, senza vittimismo, senza indugiare.
A.L.
Voglio, al termine di questo incontro, aggiungere anche io una domanda: che senso ha per lei oggi parlare del genocidio armeno?
A.A.
Io credo che abbia un senso. I pigri di cuore dicono: ma perché parlarne? Ma allora perché parlare della Shoah, perché parlare del Ruanda, perché parlare della Cambogia. Io non credo che la ragione sia quella che si ripete sempre: perché non succeda più. Credo che serva per stimolare una conoscenza, una coscienza, una percezione di qual è il livello di orrore al quale l’essere umano può arrivare, passo dopo passo, senza accorgersene.
Io credo che tra i Turchi che hanno ucciso gli Armeni c’erano sì quelli che erano i programmatori dello sterminio, ma c’erano anche tanti seguaci che a un certo punto venivano travolti da questo mysterium iniquitatis, da questo orrore che in qualche modo li pervadeva. È quasi un’onda che dura per un certo periodo e di cui poi o si vergognano o cercando di dimenticarlo o addirittura lo rinnegano.
Il professor Halil Berktay, della Sabancı University di Istanbul, è venuto in Italia due volte in questo mese, per partecipare a due convegni sul genocidio armeno ed ha raccontato un episodio interessante. Lui è un uomo molto intelligente che però ti fa vedere dei punti di vista che vengono dall’interno della Turchia. Lui diceva che non è vero che i Turchi non sanno che cosa è successo, è lo Stato che lo nega e che un po’ alla volta convince le persone che non è successo nulla.
Io non ci avevo mai pensato prima, lui ha raccontato con tantissimi esempi che i Turchi sanno benissimo che nel 1915 gli Armeni sono stati soppressi, eliminati. Tanto è vero che fino al 1945-50 si parlava normalmente dell’anno della fine degli Armeni, l’anno in cui gli Armeni sono stati eliminati. Si poteva dire con minore o maggiore dispiacere, ma si diceva come un dato di fatto. Poi ha raccontato che lui ha iniziato a parlare della necessità di ammettere il genocidio, di lasciare la menzogna e i giornali hanno ripreso le sue parole. Qualche tempo dopo lui si trovò all’annuale cena con i suoi ex compagni di liceo e in questa occasione, lui che è una persona importante, si è ritrovato a essere bersagliato di domande dagli altri che fanno lavori diversi dal suo, di docente di storia, sul perché delle sue dichiarazioni. Tutti gli chiedevano: “Ma perché tiri fuori queste vecchie storie?”.
Lui disse: “Voi lo sapete tutti in realtà! Provate ad andare indietro con la memoria, i vostri nonni, i vostri padri, non vi hanno mai detto niente?” Solo allora, uno dietro l’altro, come in una seduta psicanalitica, tutti gli altri hanno cominciato a raccontare di quando i nonni gli avevano detto cose incredibili. Il più aggressivo dei suoi ex compagni si è ricordato che suo nonno, macellaio nell’est dell’Anatolia, gli aveva detto che un giorno i Turchi gli avevano detto di affilare i suoi coltelli e poi gli avevano portato Armeni da uccidere, talmente tanti che alla fine della giornata lui nuotava nel sangue. Se ne era dimenticato - è l’effetto del negazionismo di Stato, a furia di negare la storia, alla fine allo Stato credi. Questo negazionismo non c’è in Italia, l’Italia è un caso a parte in quanto a fiducia nello Stato. E via via sono usciti racconti fatti dai nonni di Armeni trucidati in quantità di cui tutti sapevano benissimo. Il professor Halil Berktay, in una serata, ha indotto diciotto-venti persone a questo.
Lo stesso succede in questo momento in Turchia perché tante nonne raccontano oggi di essere armene ai loro discendenti - tutti i discendenti delle bambine che non sono state riscattate perché nel frattempo erano state fatte sposare a Turchi, quando queste avevano dodici-tredici anni, e a quindici anni erano già madri, magari a sedici avevano già due figli e non li abbandonavano per cui sono rimaste nelle famiglie turche. E queste nonne si rivelano adesso ai nipoti.
Alcuni fogli del Libro di Mush
Siccome per via femminile si trasmette cultura, come racconta Il libro di Mush, in Turchia è successo un caso incredibile. Come in Italia si diceva che il libro di Silvio Pellico, Le mie prigioni, aveva fatto più danni all’Austria di una battaglia perduta, il libro di Fethiye Çetin, Heranush, mia nonna, è un caso simile, incredibile. Esce nel 2006 e ha subito un successo enorme, la censura non si era accorta perché il titolo Mia nonna, non aveva fatto capire l’argomento. In realtà l’autrice racconta in questo libro di come sua nonna, a ottant’anni, le aveva raccontato: “Io non sono turca, io sono armena, non mi chiamo Seher, ma Heranush, sono stata portata via, strappata a mia madre durante la deportazione da un sergente turco, che mi ha messo nella sua famiglia, mi ha proibito di parlare in armeno, di scrivere nella mia lingua, per cui per i Turchi sono analfabeta, mentre conosco benissimo l’armeno. Ho fatto la mia vita in questa famiglia, mi hanno proibito di cercare di sapere se qualche mio parente è ancora in vita”.
Quando Fethiye Çetin, donna stupenda, con un carattere simpaticissimo, è arrivata alla settima edizione, ormai la frittata era fatta, ma dopo aver letto il suo libro, in tutta la Turchia, migliaia di persone hanno cominciato a rivelare che le loro nonne erano armene e a questo punto c’è un sovvertimento dell’opinione pubblica per cui avere una nonna armena è diventato un punto d’onore. Ecco perché bisogna parlare. Grazie.