Kenya, uccisi mentre pregavano, di Paolo M. Alfieri
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Riprendiamo da Avvenire del 4/4/2015 la prima parte di un articolo di Paolo M. Alfieri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (4/4/2015)
«Gesù, ti prego salvaci». Eccolo, il drammatico «errore». La preghiera, l’affidarsi a Gesù in quel momento drammatico diventa lo spartiacque tra la vita e la morte. «È stato il loro sbaglio, sono state immediatamente colpite».
Reuben Mwavita ha 21 anni, davanti agli occhi gli scorrono veloci le immagini tragiche di quella che doveva essere una mattina qualunque e che si è trasformata, invece, in ore di sangue e terrore. È giovedì, poco dopo l’alba, e un gruppo di islamisti somali shabaab ha appena fatto irruzione nell’università di Garissa. I terroristi all’inizio sparano indiscriminatamente, poi lasciano andare i musulmani e trattengono centinaia di giovani cristiani. «Le mie tre amiche si sono inginocchiate davanti ai miliziani, pregando Gesù», ricorda Reuben. Pochi istanti dopo, le giovani vengono falciate dai mitra. Un altro studente, Kenneth Luzakula è ancora traumatizzato.
L’Unione Cristiana del college, di cui fa parte, in quel momento sta tenendo una preghiera mattutina. «Hanno ucciso tutti i miei amici. Stavo pregando con loro quando abbiamo sentito colpi di arma da fuoco e due giovani armati e con il cappuccio hanno fatto irruzione. Io sono riuscito a scappare perché ero vicino alla porta posteriore. Ho ascoltato i miei amici pregare ancora e invocare il nome di Gesù Cristo. Altri urlavano. Poi ho udito tanti colpi di arma da fuoco dal bagno in cui mi ero nascosto. Hanno ucciso i miei amici, ma so che sono tutti in paradiso, perché sono morti pregando Dio». Secondo Helen Titus – un’altra studentessa cristiana sopravvissuta – i miliziani avevano ampiamente pianificato l’operazione e sapevano esattamente dove colpire. «Avevano fatto ricerche sulla nostra area, sapevano tutto», osserva la ragazza, secondo la quale i miliziani si sono diretti subito verso l’aula usata dai cristiani per le preghiere del mattino. Per scampare all’attacco, Helen si è vista costretta a cospargersi del sangue dei suoi compagni di classe e fare finta di essere morta durante il più violento attacco degli shabaab in Kenya.
A un certo punto i miliziani hanno esortato i giovani nascosti nelle loro stanze ad uscire, assicurando loro che non sarebbero stati uccisi. Ma così non è stato. «Ci siamo chiesti se uscire o meno», rammenta Helen: molti studenti sono usciti e gli estremisti hanno cominciato a sparare contro di loro. Allo stesso modo, i terroristi hanno detto che non avrebbero ucciso le donne, ma hanno colpito anche loro».
Il bilancio delle vittime è stato aggiornato a 148 morti (alcuni decapitati), tra cui 142 studenti, 3 poliziotti e 3 soldati. Quattro invece i terroristi uccisi, saltati in aria quando le pallottole delle forze speciali hanno colpito i loro corpetti esplosivi.
Intanto in molti hanno accusato il governo keniano di non aver fatto nulla per impedire la strage, nonostante ci fossero stati degli avvertimenti di un attacco imminente contro uno studentato. L’università di Garissa nel frattempo ha temporaneamente sospeso ogni attività per permettere alle agenzie di sicurezza di far luce sull’assalto. «Non metterò più piede nel campus. Alcuni dei miei amici sono stati uccisi, non voglio mettere a rischio la mia vita», racconta terrorizzato Pallete Okombo, un altro degli studenti sopravvissuti. E se davvero questo ragazzo e i suoi amici non torneranno più all’università i terroristi l’avranno avuta vinta.
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