La scuola ed i grandi temi oggi. File audio di una relazione tenuta da Andrea Lonardo per un gruppo di docenti
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Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una relazione tenuta da Andrea Lonardo per un corso di aggiornamento rivolto a docenti scolastici sul tema La scuola ed i grandi temi oggi, il 21/2/2015 presso la scuola Don Baldo. Per ulteriori file audio vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti. cfr. la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/4/2015)
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Premessa
Lo “specchio” di un catecheta che riflette su ciò che i ragazzi comprendono a scuola a partire da ciò che “rivelano” ai catechisti.Anche lo “specchio” di un prof. presso l’Istituto di Scienze religiose che riflette su ciò che i futuri professori comprendono in università della situazione scolastica
Premessa 1/ Un aneddoto come punto di partenza per introdurre alla questione
Una giovane suora: professore, quello che lei dice è interessante, ma la prof. di pedagogia mi ha insegnato che non ha senso puntare sui contenuti, perché fra un po’ di anni i problemi ed i contenuti saranno diversi. Ciò che è necessario è insegnare la metodologia che poi gli studenti potranno applicare a qualsiasi contenuto
Mia risposta: Ecco un contenuto: non ci sono contenuti stabili!
L’assioma insegnami a pescare è falso! Insegnami che pescare ha un senso e quali pesci vale la pena prendere!
La scuola non può essere neutrale! Ci sono o non ci sono contenuti stabili? Non che tutti lo siano, ma le cose più importanti lo sono?
Da F. Hadjadj, citato in L’inevitabile certezza: riflessione sulla modernità. L’intervento di Fabrice Hadjadj al meeting di Rimini 2011. Appunti di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it)
Riducendosi al culto del “recente” la modernità non può che mutilare sé stessa ed essere ricondotta soltanto a “moda”. La moda è sempre una novità caduca, perché la moda va continuamente fuori moda. [...] Per esempio avete nelle vostre mani un I-Phone 4 o 5 ebbene non è nient’altro che un futuro fossile. Invece se avete in mano un crocefisso o una corona del Rosario questo sì che non sarà mai fuori moda, sarà sempre di attualità.
Di qui – lo vedremo – il concetto di “classico”
Premessa 2/ La stessa questione si può presentare in un differente – ma in fondo analogo – modo: dobbiamo avere un insegnamento solo storico e storicistico?
dal sito Il Sussidiario un articolo di Valerio Capasa pubblicato il 24/1/2013
Immaginiamo che a scuola debba iniziare lo studio di un nuovo autore, e poniamo per assurdo che esso sia Vasco Rossi. Come si procede, di solito? Paragrafo 1: la vita. Ossia: Vasco Rossi nacque a Zocca il 7 febbraio 1952; suo padre faceva il camionista, eccetera eccetera. Paragrafo 2: le opere. Il primo album fu pubblicato nel 1978 e si intitola Ma cosa vuoi che sia una canzone; contiene otto tracce: La nostra relazione, eccetera. Paragrafo 3: l'ideologia. Ossia: «vita spericolata», «pessimismo cosmico» e robe del genere. Paragrafo 4: lo stile. Cioè il rock, dai predecessori come i Rolling Stones al confronto con Ligabue. Dopo qualche settimana, uno studente avrebbe tutte le ragioni per chiedere: «professoressa, scusi ma Vasco Rossi non fa il cantante? E quando ascoltiamo una sua canzone?».
Dimenticavo: prima di questo capitolo - come non manca mai quello sul Medioevo prima di Dante e sul Romanticismo prima di Leopardi (ma non doveva averlo già fatto l'insegnante di storia?) - bisogna sorbirsi l'introduzione al contesto storico-culturale dell'epoca, ed ecco pagine e pagine sull'Emilia Romagna nel dopoguerra. Quale mai possa essere il nesso con Albachiara non è dato sapere: certo è che intanto perfino Vasco è diventato insopportabile.
Qual è la prima cosa che serve per fare letteratura? Le parole dell'autore: non le parole sull'autore. È davvero rilevante la biografia? Sentite Pirandello: «nella mia vita non c'è niente che meriti di essere rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri». Pascoli rincara la dose, suggerendoci che spiegare la vita dei poeti è soltanto un trucco inventato da chi non capisce niente di poesia pur di avere qualche cosa da dire: «si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto»; «i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi».
Noi studiamo Dante, Tasso, Leopardi per quello che hanno scritto, non per quello che hanno fatto. Anche perché di un paragrafo sulla biografia rimane soprattutto il gossip: «prof, ma è vero che D'Annunzio si fece togliere una costola per fare meglio le sue porcate?». Dopo cinque anni di liceo, uno studente sa poche cose ma chiare: Omero era cieco, Beethoven era sordo, Leopardi era gobbo, Tasso era pazzo, Pascoli era sfigato, Orazio beveva, Pasolini era pedofilo, Svevo era inetto, Montale aveva il male di vivere. Una galleria di mostri, insomma, e una sola conclusione: "loro erano strani, io sono normale, quindi quello che loro dicono non mi riguarda".
In una poesia, invece, non parla la vita dell'autore, bensì la nostra vita: «la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve», sentenzia con semplicità mirabile Massimo Troisi nel Postino. Il primo verso della Divina Commedia è esplicito: parla di «nostra vita», dice «nostra», non dice «mia». Non sarebbe letterariamente serio ignorare il nesso con quello che viviamo. Se leggendo il primo canto dell'Inferno non troviamo nulla che riguardi la «nostra vita», o Dante ha sbagliato a scrivere o qualcosa non va nel modo in cui lo leggiamo.
È necessario allora far piazza pulita di un metodo scolastico di leggere. Provate a chiedere a qualsiasi ragazzo se ha presente canzoni, film, poesie e anche libri da cui si sente descritto, che addirittura lo commuovono: assolutamente sì, non farà fatica a trovarne. Il problema è che rarissimamente qualcuno di loro si è commosso per qualcosa che ha letto a scuola. Che cosa in classe ostruisce questo cuore? Anni sui banchi hanno sortito l'effetto di fargli disimparare un metodo che la natura ci ha comunicato fin da piccolissimi.
Maria Michelle ha un anno e mezzo, ma quando ha visto il pesciolino Nemo che ritrovava il padre si è girata e ha abbracciato il suo papà: totalmente dentro una storia altra e così immedesimata da paragonare quella storia con la propria esistenza. Quanti studenti liceali sanno farlo ancora quando leggono Ariosto o Virgilio?
È che molti insegnanti non credono che un testo sia in grado di parlare al cuore di un ragazzo. Il mio maestro ci credeva, e in quarta elementare ci fece imparare a memoria nientemeno che La vergine cuccia di Parini: se ne infischiò di 250 anni di distanza linguistica e dello stile classicheggiante, e io non smetterò di ringraziarlo per avermi fatto decidere, a 9 anni, di iscrivermi a Lettere, semplicemente perché quella poesia era troppo bella.
Se invece mi avesse fatto studiare dei paragrafi sull'illuminismo e sulla polemica dell'intellettuale contro la società nobiliare, mi avrebbe fatto ammuffire la letteratura. Anche perché, come osserva Michail Bachtin, «se il significato di un'opera viene ridotto, ad esempio, alla sua funzione nella lotta contro la servitù della gleba (nella scuola media si fa così), quest'opera deve perdere totalmente il suo significato, quando la servitù della gleba e i suoi residui escono dalla scena».
Chi sommerge i testi con troppe informazioni fiacca le energie di uno studente prima ancora che inizi a leggere. Provate a sondare a che capitolo dei Promessi sposi sono arrivati a Natale gli studenti del secondo anno: di un romanzo di 38 capitoli è rarissimo che se ne siano letti 10, e sono pronto a scommettere che nella maggioranza delle classi si sono perse invece settimane a parlare della mamma di Manzoni, del giansenismo, di Walter Scott e del Seicento. Basterebbe un calcolino per capire che se fai 4 capitoli in 3 mesi, è praticamente impossibile leggere i restanti 34 in 5 mesi.
Prendete una prima: stanno un mese a fare la questione omerica e poi leggono in tutto tre brani dell'Iliade.Ma la questione omerica si può fare in 20-25 secondi: "su Omero non abbiamo certezze: secondo alcuni ha scritto Iliade e Odissea ma di lui non sappiamo altro, quindi leggiamo direttamente Cantami o diva ... ;secondo altri non è nemmeno esistito, quindi di cosa dovremmo parlare? Leggiamo direttamente Cantami odiva ... ". Ho visto ragazzi del primo liceo e anche di prima media entusiasmarsi leggendo integralmente i poemi omerici, ho sentito dire da alcune mamme che mai avevano visto i figli finire così in fretta la cena, e tutto per continuare l'Odissea! Lo so che per tanti insegnanti proporre un testo senza paragrafo è scandaloso come un corpo senza mutande.
Per chi è cresciuto all'ombra dello storicismo dei manuali, è un dogma di fede che l'autore è un uomo del suo tempo e dunque va anzitutto inquadrato nel suo contesto. Ed è anche vero, solo che «gli artisti veri», come scrisse Piero Calamandrei a Pavese, «sono del loro tempo e di tutti i tempi»: cioè soprattutto del mio tempo, altrimenti non si capisce perché mai possano interessarmi.
Siamo pronti a lasciarci sfidare da quello che leggiamo? «I libri seri non istruiscono, interrogano» (Gòmez Dàvila). Non sono cose che hai imparato e che spieghi, come pacchetti ben incartati: le poesie non si sanno, succedono. Vogliamo che i nostri alunni diventino dei bravi ripetitori di paragrafi o che veramente raggiungano queste stracitate "competenze"? Cioè che imparino a leggere delle opere letterarie? Che scoprano il gusto di leggerle? Smettiamola di interrogare sui paragrafi, strappiamo pure le pagine inutili come nella celebre scena dell’Attimo fuggente, e leggiamo direttamente i versi dei poeti: ci troveremo di fronte alla bellissima difficoltà di capire con la nostra testa cosa stanno dicendo e cosa ci stanno dicendo, senza avere già il discorso pronto, di cercare noi le parole giuste per raccontare una scena, di sentire il ritmo di un'ottava, e magari, mentre leggiamo, a sentirci letti.
«C'era una volta Wordsworth. Poi venne il diluvio di commenti su Wordsworth», osserva amaramente George Steiner: perché «vogliamo con tutte le nostre forze che ci venga risparmiato l'incontro diretto con la 'vera presenza'»? Anziché indottrinarli e annoiarli, fidiamoci dell'intelligenza dei nostri studenti, che magari scopriranno di saper pensare qualcosa che non ha mai pensato né il libro né l'insegnante né answers.yahoo: «se io ho un libro che pensa per me», scriveva Kant, «io non ho più bisogno di darmi pensiero di me». Ecco la posta in gioco mentre leggiamo: accorgersi di sé.
Perché si insegna la storia della filosofia e non la storia della scienza: e se si insegnasse invece “la” filosofia e la storia della scienza?
L’insegnamento della filosofia nelle scuole: alcune questioni di base, di Andrea Lonardo
L’assurdità del modo abituale di insegnare filosofia è che la si riduce a storia della filosofia, limitandosi a contestualizzare storicamente i diversi pensieri. Certo, la contestualizzazione storica deve essere fatta, ma la filosofia è altro: bisogna giungere alle domande esistenziali che essa pone. E la reazione dei ragazzi a questo è sorprendente: dinanzi ad un professore che li aiuta a pensare essi divengono interessatissimi.
Il modello che predomina è presentare la scienza (fisica, ecc. ) come qualcosa che possiede verità definitive e la filosofa come una carrellata di opinioni assolutamente discutibili, quasi che per avere ragione bastasse venire dopo un altro, cioè arrivare per ultimo.
Basterebbe trasformare l’insegnamento delle scienze in storia della scienza e la storia della filosofia in filosofia per accorgersi che non è così. Eppure questo sembra oggi un must: filosofia è storia della filosofia e scienze non è storia delle scienze e dei suoi paradigmi che si modificano nei secoli, ma semplicemente scienza.
Se la scuola non aiuta a comprendere l’esistenza, allora si trasforma in qualcosa di autoreferenziale. Allora si studia solo per prendere un voto. Oppure si studia per trovare più facilmente un lavoro. È frustrante e demotivante quando la scuola diventa fine a se stessa e non vive in tensione con la vita. La scuola vive per ciò che viene al di fuori e dopo di lei, ma questo al di fuori e dopo non è il lavoro e non deve esserlo.
No, la scuola serve per capire la vita, per crescere esistenzialmente.
Qui si situa una corretta comprensione della proposta delle “competenze” - diversa dalla visione di chi ne fa un assoluto. Per acquisire delle competenze bisogna misurarsi con i classici e con i grandi problemi della scienza, della filosofia, ecc, ecc. Se non si individuano i passaggi nodali della cultura e della vita, le competenze non matureranno mai. È assolutamente scorretta una visione della scuola che contrapponga competenze a conoscenze: piuttosto le competenze maturano solo a contatto con determinate conoscenze e le conoscenze ben determinate debbono diventare competenze.
Calvino spiegava che i classici sono questi testi che non finiscono mai di dirti qualcosa. Sono quei testi dei quali ogni tanto dici: “Lo sto rileggendo”, anche se non fosse vero. Sai che vale la pena rileggere quei libri.
Senza classici non si danno né scuola, né competenze. Acquista competenze chi si misura con i classici. Ma i classici debbono essere letti non in maniera filologica, bensì con uno sguardo alla vita, alla “competenza” di vivere.
Qui la filosofia è decisiva. Fra l’altro è una delle pochissime materie che è ancora solamente orale. Forse riuscirà a sfuggire al precipitare nei test, cosa che segnerebbe la sua fine come disciplina educativa. Ielli-Querci hanno scritto un vero libro di filosofia per gli alunni e non solo un libro di storia della filosofia.
Diversi autori hanno cominciato a scrivere di filosofia per bambini, consapevoli che essa, se debitamente trattata, è adattissima per loro. Si pensi a Lipman e Gopnik.
Merita rileggere su questa questione quanto l’allora cardinale J. Ratzinger disse: (intervento L'Enciclica Fides et ratio ed il rapporto fra fede e ragione nell'incontro su “Fede e ricerca di Dio” tenuto il 17 novembre 1998 nella Basilica Lateranense):
«Permettetemi di cominciare con una citazione presa dalle “Lettere di Berlicche” del noto scrittore e filosofo inglese C.S. Lewis. Si tratta di un piccolo libro pubblicato per la prima volta nel 1942, che mette in luce i problemi ed i pericoli dell'uomo moderno in modo spiritoso ed ironico sotto la forma di immaginarie lettere di un diavolo di grado più elevato, che ad un principiante nell'opera di seduzione dell'uomo trasmette istruzioni, su come egli debba comportarsi. Il piccolo diavolo aveva espresso preoccupazioni al suo superiore per il fatto che proprio persone particolarmente intelligenti leggessero i libri della sapienza degli antichi ed in tal modo avrebbero potuto mettersi sulle tracce della verità. Berlicche lo tranquillizza ricordandogli che l'approccio storico, al quale fortunatamente gli studiosi del mondo occidentale sono stati convinti dagli spiriti infernali, significa appunto questo, “che l'unico problema, che con sicurezza non si porrà mai, è quello della verità di ciò che si è letto; ci si interrogherà invece su influssi e dipendenze, sullo sviluppo dello scrittore interessato, sulla storia degli effetti della sua opera e così via”. Josef Pieper, che nel suo trattato sull'interpretazione ha ripreso questo brano di C.S. Lewis, ricorda al riguardo che le edizioni, ad esempio di Platone o di Dante, stampate nei paesi dominati dal comunismo facevano precedere sistematicamente alle opere stampate un'introduzione, che aveva l'intenzione di comunicare al lettore una comprensione “storica” e cosi escludere la questione della verità. Una scientificità esercitata in tal modo diviene un'immunizzazione nei confronti della verità. La domanda se e quanto ciò che l'autore esprime sia vero, sarebbe una domanda non scientifica; condurrebbe anzi fuori dall'ambito del documentabile e del dimostrabile, facendo ricadere nell'ingenuità del mondo pre-critico. In tal modo viene neutralizzata anche la lettura della Bibbia: possiamo spiegare quando e in quali condizioni una frase ha avuto origine e l'abbiamo così incasellata nell'ambito storico, che ultimamente non ci riguarda. Dietro questa forma di “interpretazione storica” sta una filosofia, un atteggiamento di fondo nei confronti della realtà, che ci dice: non ha senso interrogarsi su ciò che è; possiamo solo domandarci che cosa possiamo fare con le cose. Non è in questione la verità, ma la prassi, il dominio delle cose a nostra utilità. Nei confronti di una simile apparentemente illuminante limitazione del pensiero umano sorge naturalmente l'interrogativo: che cosa veramente ci è utile? e per quale fine ci è utile? per quale scopo noi stessi esistiamo? A chi osserva con attenzione si manifesta in questo atteggiamento moderno contemporaneamente una falsa umiltà ed una falsa presunzione: la falsa umiltà, che non riconosce all'uomo la capacità di verità, e la falsa presunzione, con la quale egli si colloca al di sopra delle cose, al di sopra della verità stessa, in quanto eleva a fine di tutto il suo pensiero l'ampliamento del suo potere, il dominio sulle cose».
Premessa 3/ Un terzo – analogo ed insieme diverso – modo del presentarsi della questione è l’antinomia che si pone fra “verità” nel discorso scientifico e “opinabilità” del discorso umanistico… ma non sarà che esiste, invece, anche una “verità” della prospettiva umana che non solo è possibile, ma anzi ci è necessaria?
Papa Benedetto parlava di “allargare gli orizzonti della razionalità” e papa Francesco parla di “sapienza” che ci è necessaria, di “popolo” e “poveri” che custodiscono il valore delle cose
Questo riguarda sia il bello, che il vero, che il buono (i 3 trascendentali)
1/ La scuola e i classici: i grandi temi sono negli autori e nei problemi che noi insegnamo
Scuola don Baldo: Dante alle elementari
T. Todorov citato in A scuola si deve apprendere cosa dicono le opere, non cosa dicono i critici. Tzvetan Todorov prende la distanze dallo strutturalismo per proporre la riscoperta della letteratura, perché i grandi autori parlano della condizione umana. Appunti di Andrea Lonardo
La letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo. La letteratura ha un ruolo vitale da giocare, ma può ricoprirlo solo se viene presa nell’accezione ampia e pregnante che è prevalsa in Europa fino alla fine del XIX secolo e che oggi è stata messa da parte, mentre sta trionfando una concezione assurdamente ristretta. Il lettore comune, continuando a cercare nelle opere che legge come dare un senso alla propria vita, ha ragione rispetto a insegnanti, critici e scrittori quando gli dicono che la letteratura parla solo di sé, o che insegna solo a disperare. Se non avesse ragione, la lettura sarebbe condannata a scomparire nel giro di breve tempo. [...] L’analisi delle opere che viene fatta a scuola non dovrebbe più avere lo scopo di illustrare i concetti introdotti dall’uno o dall’altro linguista o da quel teorico della letteratura e dunque di presentarci i testi come un’applicazione della lingua e del discorso; il suo compito sarebbe di farci pervenire al loro significato – perché chiediamo che esso, a sua volta, ci conduca verso una conoscenza dell’uomo che è di interesse comune.
da A. Asor Rosa, R. Esposito e E. Galli della Loggia d’accordo per un Appello per le scienze umane che ritengono decisive per la scuola ed il futuro dell’Italia. Breve nota di Andrea Lonardo
In questo silenzio sulla sostanza della cosa s'è fatta strada l'idea che il futuro dell'insegnamento stia in una crescente tecnicizzazione (da cui la massiccia divulgazione di modellistica pedagogica, l'uso sempre più diffuso di test e quiz, e poi di computer, lavagne luminose, internet).
Benigni e i 10 comandamenti
Imparare a memoria brani e versi per rimorchiare le ragazze o per affrontare una discussione, di Andrea Lonardo
D. Pennac, in Diario di scuola, mostra come le competenze siano secondarie rispetto al contenuto, rispetto a ciò che si studia. Solo quando un brano merita e appassiona, ha senso impararlo a memoria, anzi saperlo ripetere vuol dire, in fondo, imparare a parlare ed essere in grado di capire il mondo e di stupirlo.
«E perché non imparare questi testi a memoria? In nome di che cosa non appropriarsi della letteratura? Forse perché non si fa più da tanto tempo? Vorremmo lasciare volar via pagine simili come foglie morte solo perché non è più stagione? È davvero auspicabile non trattenere simili incontri? Se questi testi fossero persone, se queste pagine eccezionali avessero volti, dimensioni, una voce, un sorriso, un profumo, non passeremmo il resto della vita a morderci le mani per averli lasciati scappare via? Perché condannarci a conservarne solo una traccia che sbiadirà fino a essere solo il ricordo di una traccia... ("Mi sembra, sì, di aver studiato al liceo un testo, di chi era, già? La Bruyère? Montesquieu? Fénelon? Che secolo, XVII? XVIII? Un testo che in una sola frase descriveva il passaggio da un ordine sociale a un altro... "). In nome di quale principio, questo scempio?».
Così Pennac esordisce, nell’affrontare il tema del “sapere a memoria”. Imparare “a memoria” vuol dire ricordare, appropriarsi di ciò che vale. La memoria elettronica rende i testi disponibili, ma altra cosa è appropriarsene:
«Sarebbe dunque per scongiurare questi fantasmi che si decide di non appropriarsi delle pagine più belle della letteratura e della filosofia? Testi cui si nega la possibilità di essere ricordati solo perché degli idioti ne facevano una semplice questione di memoria? Se così è, significa che un'idiozia ne ha soppiantata un'altra.
Mi si obietterà che una mente organizzata non ha alcun bisogno di imparare a memoria. Sa produrre il proprio miele dalla "sostantifica midolla". Trattiene il senso e, checché ne dica io, conserva intatta la sensazione della bellezza. È peraltro in grado di trovare qualunque libro in un attimo, nella biblioteca, cascando sulle righe giuste, in due minuti. Io stesso so dove mi aspetta il mio La Bruyère, lo vedo sul suo scaffale, e il mio Conrad, e il mio Lermontov, e il mio Perros, e il mio Chandler... tutta la mia compagnia è lì, alfabeticamente dispersa in quel paesaggio che conosco così bene. Per non parlare del cyberspazio, dove posso, con la punta dell'indice, consultare la memoria dell'umanità. Imparare a memoria? Nell'epoca in cui la memoria si misura in giga!
Tutto questo è vero, ma l'essenziale è altrove.
Imparando a memoria, non supplisco a nulla, aggiungo a tutto.
La memoria, qui, entra nel cuore della lingua.
Tuffarsi nella lingua, è questo che conta.
E se tuffandomi bevo, poi mi rituffo lo stesso.
Facendo imparare a memoria tanti testi ai miei allievi, dalla prima media all'ultimo anno delle superiori (uno per ogni settimana dell'anno scolastico e ciascuno da saper recitare tutti i giorni dell'anno), li gettavo vivi nel grande fiume della lingua, quello che scorre lungo i secoli per venire a bussare alla nostra porta e ad attraversare la nostra casa. Certo che recalcitravano, le prime volte!Immaginavano che l'acqua fosse troppo fredda, troppo profonda, la corrente troppo forte, loro di costituzione troppo debole. Legittimo! La classica strizza da trampolino:
"Non ci riuscirò mai!".
"Non ho memoria."
(Tirar fuori una scusa del genere con me, uno smemorato dalla nascita!)
Giocavano il tutto e per tutto, lealmente. E, sostanzialmente, dicevano quelle cose perché le sentivano dire. Dai genitori stessi, a volte, genitori sommamente evoluti: "Ma come, professor Pennacchioni, fa studiare i testi a memoria? Mio figlio non è più un bambino!". Suo figlio, cara signora, sarà sempre un bambino, un figlio della lingua, e anche lei un piccolo bebè, e io un ridicolo marmocchio, e tutti quanti noi minutaglia trascinata dal grande fiume scaturito dalla sorgente orale delle Lettere, e suo figlio vorrà sapere in quale lingua nuota, che cosa lo tiene a galla, lo disseta e lo nutre, e vorrà farsi lui stesso portatore di tale bellezza, e con quale orgoglio!, gli piacerà tantissimo, dia retta a me, il gusto di quelle parole in bocca, i razzi illuminanti di quei pensieri nella testa, e scoprire le prodigiose capacità della sua memoria, la sua infinita duttilità, questa cassa di risonanza, il volume inaudito a cui far cantare le frasi più belle, riecheggiare le idee più chiare, andrà pazzo per questo nuoto sublinguistico quando avrà scoperto la grotta insaziabile della propria memoria, adorerà tuffarsi nella lingua, pescarvi i testi in profondità, e per tutta la sua vita saperli lì, costitutivi del suo essere, poterseli recitare all'improvviso, dirli a se stesso per sentire il sapore delle parole. Portatore di una tradizione scritta che per merito suo tornerà a essere orale, forse li reciterà a qualcun altro, per condividerli, per il gioco della seduzione, o per fare il saccente, è un rischio da correre. Così facendo si ricongiungerà con l'epoca che precede la scrittura, quando la sopravvivenza del pensiero dipendeva solo dalla nostra voce. Se lei la chiama regressione, io lo chiamo ricongiungimento! Il sapere è anzitutto carnale. Le nostre orecchie e i nostri occhi lo captano, la nostra bocca lo trasmette. Certo, ci viene dai libri, ma i libri escono da noi. Fa rumore, un pensiero, e il piacere di leggere è un retaggio del bisogno di dire».
Pennac racconta che da insegnante di scuole con ragazzi appartenenti a famiglie non colte esige - dopo aver appassionato alla cosa - la memorizzazione di un testo a settimana:
«Un testo alla settimana, quindi, che dovevamo essere in grado di recitare ogni giorno dell'anno, senza preavviso, tanto loro quanto io. E numerati, per complicare la difficoltà. Prima settimana, testo n° 1. Seconda settimana, testo n° 2. Ventitreesima settimana, testo n° 23 . Tutte le apparenze di un meccanismo idiota, ma quei numeri a mo' di titoli erano un gioco, per aggiungere il piacere del caso all'orgoglio del sapere»[4].
Perché i bambini amano la mitologia? Cfr. Tolkien, Lewis, si potrebbe dire anche Harry Potter
Cfr. scene di Harry Potter: l’esistenza del male e la lotta fino al sacrificio personale per sconfiggerlo… noi desideriamo questo, i bambini desiderano essere “cavalieri”
Cfr. video King's Cross Station, Harry Potter e il Binario 9 e ¾, di Andrea Lonardo
Due esempi
A/ La letteratura interroga l’esistenza (Dante)
da Lettera ai miei alunni per il 2011, di Alessandro D’Avenia
Quando Dante rimane fortemente turbato dalla vista di Beatrice, un suo amico, che lo aveva accompagnato ad una festa di nozze, alla quale partecipava anche B., gli chiede come mai sia così frastornato e lui risponde:
“Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”, cioè “ho messo i piedi nella vita vera, quella che voglio, quella che mi aspetta, quella che mi fa tremare e gioire, ho capito che lì c’è tutto e non voglio più tornare indietro”. Ecco io vorrei, sulla scorta di questa frase di Dante, nella Vita Nova (cap. XIV), che ciascuno di voi si prendesse qualche attimo di silenzio per riflettere e scrivere, magari su quella vecchia moleskine estiva, quando (in queste settimane, mesi, anni…) vi è sembrato di mettere i piedi in quella vita da cui non volete fare ritorno. Cosa guardate, cosa vi appassiona, cosa vi fa vibrare il cuore, cosa colpisce il vostro interesse, cosa mette in moto le vostre risorse…? Insomma per cosa vi sembra che la vita fluisca potente dentro di voi. Non dovete per forza rispondere a me, potete anche farlo solo per voi stessi.
B/ Lo stupore dinanzi all’uomo primitivo (per i più piccoli)
da Archivi del Nord di M. Yourcenar (Einaudi, Torino, 1997, pp. 9-13)
«Ma già compare, un po’ ovunque, l’uomo. L’uomo ancora sparso, furtivo, talora disturbato dalle ultime spinte dei ghiacciai incombenti, e che ha lasciato ben poche tracce in quella terra senza caverne e senza rocce. [...]
Un bruto certamente, l’uomo della pietra spaccata e della pietra levigata, poiché quel bruto è ancora in noi, ma quel Prometeo selvaggio ha inventato il fuoco, la cottura degli alimenti, il bastone spalmato di resina che illumina la notte. Meglio di noi ha saputo distinguere le piante commestibili da quelle che uccidono, e da quelle che invece di nutrire provocano strani sogni. Ha osservato che il sole d’estate tramonta più a nord, che certi astri girano in tondo attorno allo zenith e si muovono in processione regolare lungo lo zodiaco, mentre altri vanno e vengono, mossi da impulsi capricciosi che si ripetono dopo un certo numero di lunazioni o di stagioni; ha utilizzato queste conoscenze nei suoi viaggi diurni o notturni. Quei bruti hanno senza dubbio inventato il canto, compagno di lavoro, di piacere e di sofferenza fino all’epoca nostra, in cui l’uomo ha quasi completamente disimparato a cantare. Contemplando i ritmi grandiosi che essi esprimevano ai loro affreschi, ci sembra di poter indovinare le melopee delle loro preghiere o delle loro magie. L’analisi dei terreni in cui seppellivano i loro morti rivela che essi li coricavano su tappeti di fiori dai disegni complicati, forse non molto diversi da quelli che al tempo della mia infanzia le vecchie stendevano sul percorso delle processioni. Quei Pisanello o quei Degas della preistoria hanno conosciuto lo strano impulso dell’artista che consiste nel sovrapporre ai brulicanti aspetti del mondo reale una folla di raffigurazioni nate dal suo spirito, dal suo occhio e dalle sue mani.
Dopo appena un secolo di ricerche dei nostri etnologi cominciamo a sapere che esistono una mistica e una saggezza primitive, e che gli sciamani si avventurano su strade attraverso la notte. A causa della nostra superbia, che di continuo nega agli uomini del passato percezioni simili alle nostre, rifiutiamo di vedere negli affreschi delle caverne qualcosa di più che i frutti di una magia utilitaria: i rapporti fra l’uomo e la bestia da una parte, fra l’uomo e la sua arte dall’altra, sono più complessi e conducono più lontano. [...] Quelle genti ci somigliano: posti di fronte a loro, riconosceremmo nei loro tratti tutte le sfumature che vanno dalla stupidità al genio, dalla bruttezza alla beltà. L’uomo di Tollsund, contemporaneo dell’età del ferro danese, mummificato con la corda al collo in uno stagno dove i cittadini benpensanti dell’epoca gettavano, pare, i loro traditori veri o presunti, i loro disertori, i loro effeminati, in offerta a non si sa quale dea, ha uno dei visi più intelligenti che sia dato vedere: quel giustiziato ha certo guardato molto dall’alto quelli che lo giudicavano».
da In attesa de Il viaggio del veliero, dopo Il leone, la strega e l'armadio ed Il principe Caspian: chiavi per la lettura delle Cronache di Narnia, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )
Nel primo racconto, Il nipote del mago, Lewis racconta la creazione del mondo attraverso il canto di Aslan.
La melodia del leone chiama all'esistenza tutto ciò che esiste, finché, al culmine della sua opera, vengono destati la coscienza e l'amore negli animali parlanti:
«“Narnia, Narnia, Narnia, svegliati. Ama. Pensa. Parla. Che gli alberi camminino. Che gli animali parlino. Che le acque siano sacre”. Quella era la voce del leone. I bambini avevano sempre saputo che prima o poi il leone avrebbe parlato, ma quando sentirono la sua voce provarono un’emozione fortissima. […] E tutte le creature e tutti gli animali, con voci diverse, alte o basse, cupe o chiare, salutarono con queste parole: “Salute, o Aslan. Abbiamo udito e ti obbediamo. Noi siamo svegli. Noi amiamo. Noi pensiamo. Noi parliamo. Noi sappiamo”. [...] “O nobili creature, io vi faccio dono di voi stessi”» (Le cronache di Narnia, I, Il nipote del mago, Mondadori, Milano, 2000, pp. 87-88)
Da Francesco d’Assisi, Cantico delle creature
Laudato sie, mi’ Signore […]
Per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione
beati quelli ke l’sosterranno in pace
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Per sora nostra morte corporale
da la quale nullu homo vivente pò skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali.
Beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Rengratiate e serviateli cum grande humilitate.
da Hans Urs von Balthasar, Il cuore del mondo, Piemme, Casale Monferrato, 1994, pp. 17-18
Tu senti il tempo, e questo cuore non senti? Percepisci la corrente di grazia che ti compenetra col suo rosso colore e calore, e non ti accorgi quanto sei amato? Cerchi una prova, e sei tu stesso la prova.
così già Sant’Agostino, da Sant’Agostino, Confessioni libro X 8. 15
Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch'io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l'Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.
8. 15. Magna ista vis est memoriae, magna nimis, Deus meus, penetrale amplum et infinitum. Quis ad fundum eius pervenit? Et vis est haec animi mei atque ad meam naturam pertinet, nec ego ipse capio totum, quod sum. Ergo animus ad habendum se ipsum angustus est, ut ubi sit quod sui non capit? Numquid extra ipsum ac non in ipso? Quomodo ergo non capit? Multa mihi super hoc oboritur admiratio, stupor apprehendit me. Et eunt homines mirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et Oceani ambitum et gyros siderum et relinquunt se ipsos nec mirantur, quod haec omnia cum dicerem, non ea videbam oculis, nec tamen dicerem, nisi montes et fluctus et flumina et sidera, quae vidi, et Oceanum, quem credidi, intus in memoria mea viderem spatiis tam ingentibus, quasi foris viderem. Nec ea tamen videndo absorbui, quando vidi oculis, nec ipsa sunt apud me, sed imagines eorum, et novi, quid ex quo sensu corporis impressum sit mihi.
da R.M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge,
Fiori e frutti sono maturi quando cadono; gli animali si sentono e si trovano l’un l’altro e sono soddisfatti. Ma noi, che ci siamo prefissi Dio, non possiamo essere pronti. Spostiamo in avanti la nostra natura come le sfere dell’orologio. Abbiamo ancora bisogno di tempo.
2/ La scuola e l’inter-cultura (il nostro lavoro per la pace)
a/ Disprezzare le religioni significa essere razzisti
b/ Le religioni sono diverse
c/ L’islam ha bisogno di una rivoluzione educativa che potrà attuare rifuggendo dalla logica del capro espiatorio esterno a sé
con 3 “mantra “ opposti da rifiutare:
a/ Per l’integrazione serve il silenzio sulle religioni
b/ Le religioni sono tutte uguali (e tutte violente)
c/ Di tutto ha colpa l’occidente e la sua storia
a/Disprezzare le religioni significa essere razzisti
il grande e nuovo insegnamento della strage di Charlie Hebdo
ma che riporta all’evidenza pedagogica!
da S. Cavalletti, Come pesci nell’acqua di Dio: la potenzialità e l'esigenza religiosa del bambino. La catechesi del “buon pastore” di Sofia Cavalletti
Sta dicendo che nel nostro catechismo noi spieghiamo troppo?
Sì, non si esce dalla mentalità scolastica: insegnamento, apprendimento, verifica. E così ho limitato tutto. Ma il limitato non è attraente, è l'immenso; il mistero che attrae.
Il bambino ha bisogno di amore globale, infinito, tale che nessuno essere umano è in grado di dargli. Nessun bambino – credo – è stato mai amato nella misura che avrebbe voluto e di cui avrebbe avuto bisogno. L’amore è per il bimbo più necessario del cibo; è stato scientificamente provato. Nel contatto con Dio egli sperimenta un indefettibile amore. E nel contatto con Dio egli trova il nutrimento che il suo essere richiede e di cui ha bisogno, per svilupparsi nell’armonia. Dio – che è amore – il bimbo, che chiede l’amore più del latte materno, s’incontrano quindi in una particolare corrispondenza di natura; e il bimbo, nell’incontro con Dio, gode per la soddisfazione di un’esigenza profonda della sua persona, di una autentica esigenza di vita.
Nell’aiutare la vita religiosa del bambino, lungi dall’imporgli qualcosa che gli è estraneo, rispondiamo a una sua silenziosa richiesta: “Aiutami ad avvicinarmi a Dio da me”.
Perché il bambino – affermava la Cavalletti – è un “metafisico”, come provano le sue domande: «Chi è Dio? Dove stavo prima di nascere? Con chi stava Dio prima della creazione? Dove sta la nonna che è morta? A te piace la vita?».
Inter-cultura a scuola: la religione come dimensione decisiva, di Andrea Lonardo
I atto
Roma. In una classe di scuola media ci sono 19 battezzati e 1 musulmano. Per lo spettacolo natalizio una parte dei docenti si oppone a che si parli del Presepe e dell’Incarnazione per paura di offendere il ragazzo islamico. Ma ecco che un’insegnante di inglese risolve così, con grande buon senso, il problema. È responsabile delle recite della scuola e allora…
Sipario. Compare per primo il giovane musulmano e dice: Mi chiamo Muhamed e non so cosa è il Natale, potreste spiegarmelo per favore voi che siete miei amici? Appaiono in scena i battezzati e recitano il Natale. Ad un certo punto, Muhamed interviene nuovamente, raccontando di alcune feste religiose che egli celebra con la sua famiglia. Poi riprende la narrazione del Presepe. Ecco l’inter-cultura!
II atto
Sardegna. Un gruppo di maestre non vuole che si parli del Natale per paura di violare il principio di laicità a motivo della presenza di un bambino non battezzato in una classe.
Interviene la maestra più semplice e saggia e domanda alle altre: “Voi siete d’accordo che i bambini possano esprimersi liberamente senza costringerli ad una visione particolare?” Tutte rispondono ovviamente che sono d’accordo.
Lei si rivolge allora ai bambini e dice: “Bambini, disegnate cosa è per voi il Natale”.
E i bambini disegnano il bue, l’asinello, gli angeli, la Madonna e san Giuseppe insieme ai propri genitori ed il bambino Gesù. Lei allora domanda: “Bambini cosa avete disegnato?” E tutti cominciano a spiegare le diverse figure del Presepe.
Il silenzio sulla dimensione religiosa mortifica lo sviluppo del bambino
Solo seguendo vie analoghe la scuola manifesta il suo potenziale formativo e permette una vera integrazione. Il silenzio sulla religione non facilita l’integrazione, né permette agli studenti di esprimersi pienamente. Infatti ogni uomo, anche il piccolo d’uomo, sente l’esigenza di esprimere ciò in cui crede. L’esigenza religiosa appartiene al bambino fin da piccolo, anche se cresce in una famiglia atea.
Maria Montessori scriveva:
«Anche il problema dell’educazione religiosa, la cui importanza ancora non sentiamo pienamente, dovrà essere risolto dalla pedagogia positiva. Se le religioni nacquero insieme alle civiltà, esse ebbero probabilmente radice nell’umana natura. Noi abbiamo assistito allo spettacolo edificante di un istintivo amore alla sapienza dei fanciulli, che avevamo giudicati [per] un pregiudizio dediti ai divertimenti [e] ai giochi vuoti di pensiero. Il fanciullo che disprezza il gioco dinanzi al sapere si è rivelato il vero figlio di quell’umanità che fu attraverso i secoli creatrice della scienza e del progresso civile. Noi avevamo deturpato il figlio dell’uomo relegandolo invece a giocattolo degradante, nell’ozio e nel soffocamento di una disciplina male intesa.
Ora il fanciullo dovrà […], nella sua libertà, rivelarci se l’uomo è veramente in natura la creatura religiosa. Negando a priori il sentimento religioso nell’uomo, e privando l’umanità dell’educazione di questo sentimento, potremmo incorrere in un errore pedagogico, simile a quello che ci faceva a priori negare nel fanciullo l’amore alla conoscenza e al sapere: e che ci spingeva a domarlo nella schiavitù, per renderlo apparentemente disciplinato. Anche affermando che solo l’età adulta è adatta all’educazione religiosa, potremmo incorrere in un profondo errore, quale è quello che ci fa oggi dimenticare l’educazione dei sensi nell’età in cui essi sono educabili, cioè nel bambino; mentre la vita dell’adulto è poi praticamente un’applicazione dei sensi della raccolta di sensazioni nell’ambiente, dal che risulta il fallimento della vita pratica e uno squilibrio che disperde tante forze individuali.
Non per fare un paragone tra l’educazione dei sensi come guida alla vita pratica e l’educazione religiosa come guida alla vita morale, ma, solo per servirmi a scopo illustrativo di un’analogia, noto come spesso nella vita morale si osservano dei fallimenti nei non religiosi e molte forze individuali, che pur riconosciamo preziose, [si disperdono] miseramente. Quanti uomini hanno fatto l’esperienza di ciò! E allorché alcuni hanno la tardiva rivelazione della propria coscienza religiosa nell’età adulta o sotto la squassante esperienza del dolore, la mente è inabile a stabilirsi un equilibrio, perché fu troppo stabilmente formata in un campo privo di spiritualità. Allora vediamo spettacoli egualmente pietosi o di conversioni a un fanatismo di religiosità formale e inferiore o di lotte intime drammatiche tra il sentimento che cerca tra le tempeste l’unico suo porto e la mente che riconduce inesorabilmente la coscienza tra i flutti travolgenti dell’alto mare senza pace. Fenomeni psicologici di altissima importanza; e problemi umani la cui gravità è forse tra tutti gli altri suprema.
Noi siamo ancora in Europa e specialmente, tra le più civili nazioni, in Italia, pieni di pregiudizi e di preconcetti su tale argomento – veri schiavi del pensiero. Noi crediamo che la libertà di coscienza e di pensiero consista nel negare alcuni principi di sentimento – come per esempio quelli religiosi -, mentre la libertà non esiste mai là ove si combatte per soffocare qualche cosa, ma solo dove si lascia l’espansione illimitata alla vita. Chi veramente non crede, non teme ciò che non crede e non combatte ciò che non esiste: e se crede e combatte, allora diviene soldato contro la libertà» (M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, I edizione del 1909, nuova edizione del 1950, pp. 152-153).
Il silenzio sulla dimensione religiosa impedisce l’integrazione
D’altro canto, un bambino non ha alcun problema a convivere in classe con chicchessia, non ha alcun problema che si parli di Dio, anzi lo esige!
Se proprio si volesse decidere di dare segni di attenzione a chi appartiene a religioni diverse, si tratterebbe di vietare piuttosto che i crocifissi, le minigonne, i baci e le scollature in classe. I segni religiosi non scandalizzano gli immigrati che provengono da tradizioni profondamente religiose: li scandalizza piuttosto l’assenza di moralità e fede del razionalismo occidentale.
Proprio il riferimento alla religione divine decisivo per l’incontro con quelle culture per le quali il rapporto con Dio – e conseguentemente con il culto, la ritualità, la morale – è abituale come l’aria che si respira, cioè per le culture dei nuovi immigrati.
L’allora pontefice Benedetto XVI ebbe a dire in un’intervista:
«Abbiamo il nostro compito di mettere meglio in rilievo ciò che noi vogliamo di positivo. E questo dobbiamo anzitutto farlo nel dialogo con le culture e con le religioni, poiché il continente africano, l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. E’ importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. E reciprocamente è importante che il nostro mondo laicista si renda conto che proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente, ma occorre una razionalità più ampia, che vede Dio in armonia con la ragione, dobbiamo mostrare che la fede cristiana che si è sviluppata in Europa è anche un mezzo per far confluire ragione e cultura e per tenerle insieme in un’unità comprensiva anche dell’agire. In questo senso credo che abbiamo un grande compito, di mostrare cioè che questa Parola, che noi possediamo, non appartiene – per così dire – ai ciarpami della storia, ma è necessaria proprio oggi» (dall’intervista rilasciata da Benedetto XVI a Radio Vaticana ed a tre televisioni tedesche il 13 agosto 2006).
Papa Francesco gli ha fatto eco affermando: «Dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (Evangelii gaudium 200).
Compito della scuola è quello di integrare
Compito della scuola non è vigilare perché di Dio non si parli, quanto piuttosto permettere agli alunni di vivere una vera integrazione inter-culturale, venendo a conoscere la fede cristiana che è una delle radici, insieme alla cultura di stampo illuministico, del paese in cui sono venuti a vivere.
Questa conoscenza della religione del paese in cui si vive – senza che essa diventi catechesi, ma nemmeno senza che essa sia ignorata o trattata al pari di religioni lontanissime dal contesto vitale in cui la scuola è situata - è il contesto nel quale ha senso poi che anche i bambini di culture diverse esprimano il loro credo religioso. Una conoscenza serena della fede cristiana permetterà a bambini di culture nelle quali vige un tassativo divieto di conoscere il Vangelo di superare, almeno in forma germinale, tale tabù.
Non si dimentichi poi che la maggioranza degli immigrati in Italia è di fede cristiana – ortodossi dell’Est Europa o cattolici provenienti dall’America Latina o dalle Filippine, ma anche dall’Egitto e dall’Eritrea. L’inter-cultura aiuterà a far comprendere ai giovani alunni come esistano forme diverse di cristianesimo da quello europeo, forme che pure si riconoscono in Cristo, nel suo vangelo e nella Chiesa da lui fondata sugli apostoli.
b/ Le religioni sono diverse
non lo stesso Dio, ma la stessa dignità dell’uomo!
da Laura Pausini, Il mondo che vorrei
«Perché il cuore di chi ha un altro Dio
è uguale al mio.
Per chi spera ancora in un sorriso,
perché il suo domani l'ha deciso
ed è convinto che il suo domani
è insieme a te».
cfr. la questione del crocifisso nell’Islam
Per approfondimenti, cfr.
- I musulmani di fronte al mistero della croce: rifiuto o incomprensione?, di M. Borrmans (su www.gliscritti.it)
- Dobbiamo conoscere cosa viene insegnato su Gesù ai musulmani dai loro imam, altrimenti non potremmo capirci a scuola in una lezione di storia. I tre punti più importanti della missione di Gesù che vengono insegnati dall’Islam sono 1/ Gesù è venuto a ripetere che Allah è il vero Dio 2/ Gesù non è stato crocifisso: è stato elevato in cielo senza mai morire e la crocifissione sarebbe un’invenzione dei cristiani 3/ Gesù è stato mandato da Allah ad annunciare la venuta di Maometto, di Giovanni Amico (su www.gliscritti.it)
IV sura («Sura delle donne»), v. 157
gli ebrei di Medina, fra gli altri torti, sono accusati per aver detto: «"Abbiamo ucciso il Messia, Gesù figlio di Maria, l'Apostolo di Dio!", mentre non l'hanno ucciso né crocifisso, ma soltanto sembrò loro [di averlo ucciso]. In verità, coloro che si oppongono a [Gesù], sono certamente in un dubbio a suo riguardo. Essi non hanno alcuna conoscenza di [Gesù]; non seguono che congetture e non hanno ucciso [Gesù] con certezza».
b.1/ La fede implica la ricerca della verità su Dio
Decalogo:
Es 20,2-5 «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso
Socrate, nell’Eutifrone di Platone
"Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c).
Karl Barth mise in contrapposizione religione e fede, giudicando la prima in modo assolutamente negativo quale comportamento arbitrario dell'uomo che tenta, a partire da se stesso, di afferrare Dio. Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa impostazione pronunciandosi a favore di un cristianesimo "senza religione". Si tratta senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata. E tuttavia è corretto affermare che ogni religione, per rimanere nel giusto, al tempo stesso deve anche essere sempre critica della religione. (dal Messaggio del Papa emerito Benedetto XVI per l'intitolazione dell'Aula Magna ristrutturata Pontificia Università Urbaniana, 2014)
b.2/ Triplice atteggiamento cristiano:
- apprezzamento (semina Verbi) che può arrivare ad individuare elementi paradisiaci!
- critica (che può arrivare ad individuare elementi demoniaci!)
- attesa, apertura, e compimento in Cristo
c/ L’islam ha bisogno di una rivoluzione educativa che potrà attuare rifuggendo dalla logica del capro espiatorio esterno a sé
- il rapporto con la storia passata… cfr. crociate e “mezzalunate”… i copti sono arabi cristiani,
636 battaglia dello Yarmuk e definitiva conquista della Siria
637 dopo 4 mesi di assedio conquista di Gerusalemme (Maometto era morto nel 623)
da D. Cook, Storia del jihad, Einaudi, Torino, 2007, pp. 4-5
Più che una città, Medina era un agglomerato di piccoli villaggi e forti disseminati nell’oasi, politicamente divisi tra due tribù arabe politeiste (‘Aws e Khazraj) e tre tribù ebraiche più piccole: Banu Qaynuqa‘; Banu al-Nadir; Banu Qurayza. Muhammad e i mussulmani impiantarono la loro comunità all’interno di Medina e, nel giro di cinque anni, convertirono la popolazione tribale araba residente nel territorio.
Il jihad nacque in tale contesto, e le campagne per fare proseliti e assumere il dominio del territorio furono l’elemento centrale dell’attività della comunità negli ultimi nove anni di vita del Profeta. Muhammad avrebbe partecipato ad almeno ventisette campagne promuovendone altre cinquantanove: una media di non meno di nove campagne l’anno. Campagne che si possono suddividere in quattro gruppi:
1/ Le cinque battaglie dette «tematiche» di Badr (624), Uhud (625), del Fossato (627), Mecca (630), Hunayn (630) combattute per assicurarsi il dominio sulle tre principali aree d’insediamento del Higiaz: Mecca, Medina, al-Ta’if;
2/ Incursioni contro i beduini, per costringere le popolazioni tribali del luogo a sostenere, o perlomeno non attaccare i musulmani;
3/ Attacchi contro le tribù ebraiche per impadronirsi delle oasi in cui risiedevano;
4/ Due incursioni contro i bizantini a al-Mu‘ta (629) e a Tabuk (631) e la campagna guidata da Usama ibn Zayd (632) contro la Siria che, lungi dall’essere vittoriosa, indicò, tuttavia, la direzione delle conquiste musulmane negli anni successivi la morte del profeta (632).
Il quadro militare mostra in maniera inequivocabile l’importanza del jihad per la nascente comunità musulmana. Non a caso, molti tra i primi biografi del profeta Muhammad hanno denominato al-maghazi («le incursioni») i capitoli delle loro opere dedicati alla narrazione degli ultimi dieci anni della sua vita.
5 secoli di dominazione turca sugli arabi (e 29 anni di dominio inglese dal 1917 al 1948)
N.B. non per generare odio o per riavere indietro le terre, ma per non sentirci sempre colpevoli di tutti i danni esistenti nel mondo
- il rapporto con gli ebrei (cfr. già l’Antico Testamento e poi la stima del “popolo eletto”)
- il rapporto con la modernità
2.1/ Una presentazione “conciliare” della fede cristiana
La rivelazione personale di Dio: non siamo una religione del Libro!
da papa Francesco, discorso ai membri della Pontificia Commissione Biblica, il 12/4/2013
Come sappiamo, le Sacre Scritture sono la testimonianza in forma scritta della Parola divina, il memoriale canonico che attesta l'evento della Rivelazione. La Parola di Dio, dunque, precede ed eccede la Bibbia. E’ per questo che la nostra fede non ha al centro soltanto un libro, ma una storia di salvezza e soprattutto una Persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne.
da H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma 1972, pp. 344; 353-354
[Cristo,] sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è la “religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo”.
dalla lettera di papa Francesco ad Eugenio Scalfari pubblicata su La Repubblica del’11/9/2013
Lei mi chiede come capire l’originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
Non è possibile conoscere Dio senza la sua rivelazione: la mediazione e la pienezza di Cristo (Dei Verbum 2)
Pinturicchio, Cappella Baglioni, Spello
Professori di storia: è loro compito, non solo di quelli di IdR
Storia di Gesù:
Primo esempio: gli apocrifi
«Jacques Saunière era... l’unico guardiano di uno dei più terribili segreti mai esistiti». Così nelle prime pagine il Codice da Vinci descrive il “famoso curatore del Louvre”, ferito a morte dal suo assassino.
Alla metà del libro, invece, è Costantino ad essere accusato di voler custodire il segreto: «I vecchi vangeli vennero messi al bando, sequestrati e bruciati».
Il lettore disattento non si avvede dell’incongruenza narrativa: chi è che non ha diffuso la verità su Gesù? È Costantino o è Saunière (non va dimenticato che il Codice da Vinci elenca, fra gli altri che prima di Saunière detengono il segreto senza rivelarlo, Jean Cocteau, Claude Debussy, Victor Hugo, Sandro Botticelli!!!; viene da domandarsi perché non anche Stanlio e Ollio, oppure Pippo, Pluto e Paperino).
Rimasto solo, Jacques Saunière tornò a osservare la saracinesca d’acciaio. Era in trappola; per riaprire la porta occorrevano almeno venti minuti. Prima che qualcuno facesse in tempo ad arrivare a lui, sarebbe morto. Eppure, la paura che adesso l’attanagliava era assai superiore a quella della morte. “Devo trasmettere il segreto”.
Alzandosi in piedi a fatica, richiamò alla mente tre fratelli assassinati. Pensò alle generazioni venute prima di loro, alla missione affidata a tutt’e quattro.
“Un’ininterrotta catena di conoscenze”.
E all’improvviso, adesso, nonostante tutte le precauzioni e le misure di sicurezza, Jacques Saunière era il solo legame rimasto, l’unico guardiano di uno dei più terribili segreti mai esistiti.
Rabbrividendo, si rizzò in piedi.
“Devo trovare un modo…”
Era intrappolato all’interno della Grande Galleria ed esisteva solo una persona al mondo a cui passare la fiaccola. Saunière guardò le pareti della sua ricchissima prigione. La collezione dei più famosi dipinti del mondo pareva sorridergli come un gruppo di vecchi amici.
Stringendo i denti per il dolore, fece appello a tutte le sue forze e capacità. Sapeva che il compito disperato che lo attendeva avrebbe richiesto fino all’ultimo istante di quel poco di vita che ancora gli rimaneva.
Dal Vangelo di Giuda 33 r. 1
«Spiegazione segreta della rivelazione che Gesù rese conversando con Giuda per una settimana, tre giorni prima di celebrare la Pasqua».
dal Vangelo di Tommaso 1, titolo
«Sono queste le parole segrete che Gesù, il vivente, ha proferito e Didimo Giuda Tommaso ha messo in iscritto».
dal Vangelo dell’atleta Tommaso 1, titolo
«Sono queste le parole segrete che il Salvatore ha detto a Giuda Tommaso e che io stesso, Matteo, ho messo per iscritto, Mentre passeggiavo, li udii discorrere insieme».
dall’Apocrifo di Giovanni secondo la recensione lunga di Nag Hammadi, conclusione
«Io ho fatto conoscere tutte queste cose alle tue orecchie. Ma te le ho dette perché tu le metta per iscritto e le trasmetta in segreto a coloro che partecipano dello stesso Spirito, perché questo mistero è quello della generazione che non vacilla».
Secondo esempio: la condanna, Gesù non era pericoloso politicamente
3/ La scienza e la cultura umanistica
Un duplice atteggiamento:
a/ L’amore alla scienza
b/ La chiara affermazione che la scienza non basta
c/ Il rapporto fra verità scientifica e verità filosofica e di fede
a/ L’amore alla scienza: un dovere morale per credenti e non credenti
da Dominique Lambert, articolo Lemaître, Georges Edouard, in Dizionario enciclopedico di scienza e fede, Urbanian University Press-Città nuova, Città del Vaticano-Roma, 2002, II, pp. 1909-1912
[Per Georges Lemaître, sacerdote belga, cosmologo, professore all’Università Cattolica di Lovanio, 1894-1966,] l’origine dello “spazio-tempo-materia” poteva essere descritta utilizzando la termodinamica e la meccanica quantistica. Egli propone [nel 1931] si possa trattare della disintegrazione di un unico quantum che riunisce in sé tutta “l’energia-materia” dell’universo [...]. In effetti, a partire dalla fine degli anni 1940, la visione cosmologica di Lemaître [...] e quelle che integreranno l’idea di una singolarità iniziale, di un Big Bang (come quella di Gamow), non beneficeranno a quell’epoca di una conferma soddisfacente, e furono quindi soppiantate da una teoria rivale: la “teoria dello stato stazionario” di Bondi, Hoyle e Gold. [...] Questa visione del mondo piacque enormemente a quegli scienziati che ritenevano, a torto, che il Big Bang, implicasse necessariamente una scelta metafisica o religiosa in favore di una creazione. Il termine stesso di Big Bang, che non fu mai utilizzato da Lemaître, fu introdotto del resto da Fred Hoyle per designare ironicamente il “fuoco d’artificio iniziale” suggerito dal cosmologo di Lovanio. Le idee di Lemaître, ignorate o criticate da buona parte degli scienziati tra il 1945 e il 1960, balzarono alla ribalta solo con la scoperta di Penzias e Wilson, agli inizi degli anni sessanta, che mettevano in luce l’esistenza di una “radiazione termica di fondo” il cui valore teorico era stato predetto da Dicke e Peebles, osservazione, questa, che risultava essere adesso incompatibile con la teoria dello stato stazionario.
Fabiola Gianotti, direttrice del CERN di Ginevra
Perché allora il passaggio alla fisica? “La fisica va al dunque, da delle risposte. Ho percepito che la fisica dava delle risposte più concrete”. Parla poi della scoperta del Bosone di Higgs che ci ha avvicinato ad un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. “Non sappiamo cosa c’era prima, è una domanda per le speculazioni, non per la scienza”. Allora Minoli domanda (e qui trascriviamo letteralmente il dialogo)
Giovanni Minoli: Questa ricerca la avvicina o la allontana dall’idea dell’esistenza di Dio?
Fabiola Gianotti: Penso che la scienza e la religione siano due domini separati. Non si contraddicono. La scienza non potrà mai dimostrare l’esistenza o no di Dio. Quindi penso che sia una situazione di parallelismo, di approcci diversi.
Minoli: Ma lei che è filosofa e scienziata personalmente [la ricerca] l’ha avvicinata o è un problema che non si pone?
Gianotti: Quello che io vedo nella natura, la sua semplicità, la sua eleganza, mi avvicina all’idea di una mente intelligente ordinatrice dietro, perché la natura è bellissima e anche le leggi fondamentali della fisica sono estremamente esteticamente belle, essenziali e, come diremmo in inglese, compelling, si motivano quasi da sé.
Minoli: Insomma ci crede in Dio sì o no?
Gianotti: Sì.
Darwin stesso non riteneva la teoria dell’evoluzione una prova contro la fede, di A.L.
Per quanto riguarda la posizione personale di Darwin sulla religione e sul Creatore il suo pensiero appare ondeggiante. Nella conclusione della prima edizione dell’opera L’origine della specie, dopo aver rilevato che «vi è qualcosa di grandioso in queste considerazioni sulla vita», non nomina Dio, mentre nella seconda edizione (1860) alla frase riportata aggiunge: «... e sulle varie facoltà di essa, che furono impresse dal Creatore in poche forme o anche in una sola».
Ma nel 1879 mentre lavorava alla sua autobiografia propende a definirsi agnostico, come farà il suo discepolo Thomas Huxley. Darwin riconosce: «Il mio giudizio è spesso fluttuante... e persino nelle mie fluttuazioni più estreme non sono mai stato ateo nel senso di negare Dio. Credo che in generale (e sempre più con il passare degli anni), ma non sempre, la mia posizione possa essere descritta più appropriatamente con il termine agnosticismo» (cit. da McGrath, 2006). Sulla sua posizione deve aver molto influito il problema del dolore, particolarmente dopo la perdita della figlia Annie all’età di 10 anni.
Così scrive F.Facchini, in Le sfide della evoluzione, Jaca, Milano, 2008, pp.87-88.
Si può ulteriormente leggere un passaggio scritto per la sesta edizione de L’origine della specie (C.Darwin, L’origine della specie, Tascabili Newton, Roma, 2006, p.431) nel quale il grande ricercatore scrive:
Dire che la scienza ora come ora non offre alcun indizio alla soluzione del problema [...] dell’essenza dell’origine della vita, non è un’obiezione valida [alla teoria dell’evoluzione]. Chi sa spiegare qual è l’essenza dell’attrazione di gravità? Attualmente nessuno contrasta l’accettazione dei risultati che derivano da questo elemento sconosciuto, che è l’attrazione, ciononostante in passato Leibniz ha accusato Newton di introdurre «nella filosofia qualità occulte e miracoli».
Non vedo alcuna buona ragione perché le opinioni espresse in questo volume debbano urtare i sentimenti religiosi di chicchessia. Allo scopo di dimostrare come certe impressioni siano passeggere, giova qui ricordare che la più grande scoperta mai fatta dall’uomo, ossia la legge dell’attrazione gravitazionale, fu anch’essa attaccata da Leibniz «come sovversiva della religione naturale e, quindi, di quella rivelata». Un celebre autore e teologo mi ha scritto di «aver compreso a poco a poco che si può avere un concetto di Dio altrettanto nobile sia credendo che Egli abbia creato alcune forme originarie capaci di autosvilupparsi in altre forme necessarie, sia credendo che Egli sia ricorso ad un nuovo atto di creazione per colmare i vuoti provocati dall’azione delle Sue leggi».
b/ La chiara affermazione che la scienza non basta
Da Martin Luther King, dalla Nobel Lecture dell'11 di dicembre del 1964.
Eppure, nonostante gli spettacolari progressi nella scienza e nella tecnologia, e nonostante quelli innumerevoli che verranno, ci manca qualcosa di fondamentale. C'è una sorta di povertà dello spirito, che si trova in palese contrasto con la nostra abbondanza scientifica e tecnologica. Più siamo diventati materialmente ricchi, più poveri siamo diventati moralmente e spiritualmente. Abbiamo imparato a volare nell'aria come uccelli e nuotare nel mare come i pesci, ma non abbiamo imparato la semplice arte di vivere insieme come fratelli.
Einstein aveva anche un forte sense of humour, tant'è vero che nell'ultima intervista rilasciata al "New York Times", apparsa postuma il 22 aprile del 1955, a chi gli chiedeva perché si fosse riusciti a scoprire l'atomo, ma non si fosse ancora capaci di trovare i mezzi per controllarlo, aveva risposto: "È semplice, amico mio, perché la politica è più difficile della fisica".
La questione di una verità universale sull’uomo che precede la verità di una religione
Contro l’accusa è che avere una verità vuol dire essere intolleranti
Verità sull’uomo in un contesto post-umanista
c/ Il rapporto fra verità scientifica e verità filosofica e di fede
Maurits Cornelius Escher, sul quale vedi
I giorni della Creazione e Il peccato originale in Maurits Cornelius Escher.
Breve nota di Andrea Lonardo.
Michelangelo, Volta della Sistina
Su questo, vedi L’esegesi “secondo la fisica” del racconto della creazione
nel pensiero dei maestri chartriani del XII secolo, di Michele Filippi.
William Blake, Il Creatore
M. Chagall, Creazione del’uomo, Pastello preparatorio
(definitivo nel Museo Biblico, Nizza)
Così l’uomo, primo ed ultimo, così il sabato (all’inizio della creazione), così l’uomo e la donna (la famiglia): ed è Israele, non ancora la Chiesa
da Daniel Lifschitz
«Perché Dio plasmò dalla costola e non dalla testa? Per evitare che la donna dominasse l’uomo. Perché non dal piede? Per evitare che l’uomo la dominasse. Dalla costola, perché avessero pari dignità».
dalle Sentenze di Pietro Lombardo
“Veniva formata non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna” (Sentenze 3, 18, 3).
Testi e video per un approfondimento
- La creazione dal nulla ed il peccato originale. Dalla Genesi alle Cronache di Narnia: la straordinaria trasposizione di C. S. Lewis, di Andrea Lonardo
- PRIME COMUNIONI 3. SPIEGARE AI BAMBINI ADAMO, LA CREAZIONE E I 7 GIORNI
- PRIME COMUNIONI 4 - SPIEGARE AI BAMBINI EVA, LA COSTOLA DI ADAMO E IL PECCATO ORIGINALE
- La creazione nell'Arte: da Michelangelo a Escher (Andrea Lonardo su TV2000
4/ La scuola, l’affettività e il gender
Non entrare in ogni questione, ma avere qualche punto chiaro e distinto quello sì!
a/ la serenità di un atteggiamento: un’evidenza, non una guerra incerta, poiché da sempre e per sempre si nascerà figli di un uomo e di una donna (cfr. il DNA)
Meravigliatevi! Per un manifesto dei meravigliati, di Fabrice Hadjadj, apparso sul sito printempsfrancais.fr ora su www.gliscritti.it
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione.
Essa è prima perché la si sperimenta di fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non abbiamo pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i volti, tutte le primavere… Prima di soddisfarci dell’opera delle nostre mani e della vittoria dei nostri princìpi, ammiriamo questo dato naturale.
Questa è la colorazione affettiva che tentiamo di fare entrare nelle nostre azioni. Esse non sono motivate da uno stato d’animo triste o di rivendicazione. Non sono imbevute di amarezza. Non vorrebbero essere altro che rendimenti di grazie. Perché, a partire da questa ammirazione primigenia, esse devono fiorire in gratitudine verso la vita ricevuta, verso la nostra origine terrestre e carnale: il fatto che non ci siamo fatti da soli, ma che siamo nati, da un uomo e da una donna, secondo un ordine che sfuggiva a essi stessi.
Lungi dall’essere degli spiritualisti o dei moralizzatori, riconosciamo quella che Nietzsche chiamava «la grande ragione del corpo» e anche «lo spirito che opera dalla vita in giù». Sì, noi siamo meravigliati dall’ordinazione reciproca dei sessi, dal genio della genitalità. Certo, questa organizzazione stupefacente è come il naso in mezzo al nostro volto: tendiamo a non vederlo. Ci inorgogliamo di avere costruito una torcia, e dimentichiamo lo splendore del sole; idolatriamo la magia delle nostre macchine, e disprezziamo la meraviglia della nostra carne.
Questa meraviglia la nascondiamo sotto le parole «biologico», «determinismo», «animalità», e assumiamo un’aria di superiorità, vantando le libere prodezze della nostra fabbrica. E tuttavia, che cosa c’è di più stupefacente di questa unione degli esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e che tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento di un altro, di un’altra differenza ancora: la futura piccola peste, il già disturbante, colui che chiamiamo «il bambino»? […]
Perciò le nostre manifestazioni non sono quelle di una corporazione, ma quelle dei nostri corpi. Non partono da uno scopo politico o partitico, ma da un riconoscimento antropologico. Non cercano di prendere il potere, ma di rendere una testimonianza culturale a un dato di natura, in uno slancio di gratitudine. […]
Le nostre manifestazioni dureranno fintanto che ci saranno peni e vulve, e la loro ordinazione reciproca anzitutto involontaria, e la loro fecondità che mette in discussione la nostra avarizia.
Ma è esattamente questa esigenza di ospitalità, questa relazione di meraviglia e di gratitudine verso la nostra origine, diciamo pure questo rapporto di debolezza, che risultano insopportabili a coloro che concepiscono tutto in termini di rapporti di forza. Vorrebbero che noi non fossimo altro che una fazione. Preferirebbero che mettessimo le bombe. Questa violenza gli risulterebbe meno violenta della nostra manifestazione elementare, quella della semplice presenza fisica di un uomo e di una donna, e di un bambino di cui essi sono anche il padre e la madre […]
Siamo soltanto dei francesi, e più semplicemente ancora sia degli uomini e delle donne, molto lontani da qualsiasi puritanesimo e da qualsiasi fondamentalismo, ci incantano le natiche e non ci repelle l’ammirazione della congiunzione improbabile del «pisello» e della «passerina» e del pancione che ne deriva. Con maggiore precisione ci si potrebbe collocare fra i fautori di un’ecologia integrale. […] Noi continueremo a manifestare: senza armi, senza odio, persino senza slogan, ma con la nostra piccola epifania di creature di carne, ossa e spirito.
b/ L’utero in affitto cancella tutte le conquiste del femminismo ed è vergognoso
Ma d’accordo chi utilizza la ragione e la difesa dei diritti del più debole, il bambino
da Le monde dell'11/12/2012 un brano dell'articolo Le "mariage pour tous" doit s'ouvrir à la procréation médicalement assistée, firmato da Yvette Roudy, Thalia Breton, Carine Delahaie, Carine Favier, Amandine Miguel, Catherine Morin Le Sech, Sabine Salmon, Olga Trotiansky
[Nella prima parte dell'articolo le autrici chiedono che alle coppie lesbiche sia riconosciuta per legge la procreazione medicalmente assistita con l'aiuto di donatori anonimi maschili. Poi proseguono:]
Nous ne pouvons accepter, comme nous le constatons aujourd'hui, que pour écarter la procréation médicalement assistée (PMA) soient utilisés les fallacieux amalgames entre PMA et GPA (gestation pour autrui ou "mères porteuses").
GPA N'EST PAS UNE "PMA POUR GAYS"
PMA et GPA ne sont pas le pendant l'une de l'autre, ou, comme certains se plaisent à le dire, la GPA n'est pas une "PMA pour gays". La GPA n'est pas une forme de procréation médicalement assistée: les lobbies pro-GPA entretiennent cette confusion à dessein.
Si l'insémination artificielle et la fécondation in vitro relèvent de la PMA, ce n'est pas le cas de la GPA qui correspond à une industrie de "location des ventres" et de commerce d'ovocytes. La GPA donne la possibilité aux hommes de disposer du corps des femmes pour satisfaire un "droit à l'enfant" que nous récusons.
Parce que la demande fait l'offre, la GPA est aussi une question économique, au centre de toutes les inégalités: domination des hommes sur les femmes, des riches sur les pauvres, des pays du Nord sur les pays du Sud.
Comment un gouvernement progressiste pourrait-il cautionner la création d'un marché des ventres au nom d'un "droit à l'enfant" qui n'existe pas et qui ne doit pas exister?
D’accordo ebrei, musulmani, buddisti
Cfr. La metamorfosi dei diritti umani. Dal nuovo Sinai di Hannah Arendt alla nuova torre di Babele, di Carlo Cardia (www.gliscritti.it )
Il giurista Carlo Cardia: si lede il diritto dei bambini. «Uno dei punti nodali del relativismo è quello di dire: noi chiediamo cose per noi, non tocchiamo interessi di nessun altro, perché volete negarci ciò che è un nostro diritto, quando questo diritto non viola il diritto di nessun altro? Benissimo, nel matrimonio delle persone omosessuali questa cosa decade, perché il matrimonio degli omosessuali porta con sé necessariamente, per un motivo logico, l’adozione di bambini. Allora, il diritto dei bambini viene colpito».
Cfr. tutta la pedagogia, sentire la voce della madre, bere il latte al seno e non quello artificiale, il doudou, ecc. ecc.
c/ I nostri ragazzi vogliono sapere se esiste l’amore eterno
Maleficent: la bellezza dell’amore che non finisce… solo quel bacio i sveglia veramente!
L’amore fra due esseri diversi: l’uomo e la donna
da Quei ragazzi così fragili davanti al dolore, di Elvira Serra (Corriere della sera e www.gliscritti.it)
Resta il tema dell’educazione sentimentale, quotidianamente distorta dalle notizie sul femminicidio. «Anche qui spetta ai genitori dare degli esempi, far capire che l’amore rende liberi, non prigionieri, insistere che si sta insieme per la felicità reciproca e che non c’è nessun obbligo, ma una volontà rinnovata ogni giorno», aggiunge Scaparro. La collega Vegetti Finzi va oltre: «Non basta allarmarsi quando sentiamo storie come quella di Pietro e Alessandra: dobbiamo fare prevenzione. Vale la pena, allora, portare a scuola un’educazione sentimentale che non sia puramente sessuale, ma una introduzione all’affettività, alle relazioni con gli altri e al rispetto».
d/ Le questioni aperte
4 ipotesi di origine: - Biologico-genetica- Libera scelta –Psicologica-Culturale
- L’imbarazzo e l’ingresso dell’ideologia è evidente dal Dsm
a partire dagli anni 70 il Dsm – il celebre manuale passpartout diagnostico e statistico dei disturbi mentali – decide di derubricare l’omosessualità dalle perversioni, conservando solo un modesto capitoletto marginale sull’“omosessualità distonica”, inserita tra le “disfunzioni sessuali”. D’altronde, anche il termine di perversione è ormai bandito, sostituito da quello assai neutro e un po’ ipocrita di “parafilia”
S. Argentieri: «Nel nostro approssimativo e confuso panorama culturale, periodicamente si ripropone l’ipotesi di una base biologica, genetica dell’omosessualità ed altrettanto periodicamente si configura l’insensata polemica circa le cause organiche oppure psicologiche del comportamento sessuale. In ogni manifestazione della nostra identità psicofisica, infatti, sempre vale il criterio della multifattorialità; cioè della convergenza di tanti fattori - genetici, anatomici, pulsionali, relazionali, senso psicologico del genere a cui si sente di appartenere, ruoli e funzioni culturalmente determinanti… - in un intreccio inestricabile tra congenito ed acquisto. «Siamo» il nostro patrimonio cromosomico, biochimico, ormonale…, ma siamo anche il risultato della nostra storia di incontri, esperienze ed affetti.
A mio parere, le eventuali caratteristiche organiche riscontrate nel patrimonio genetico o nel cervello di un gruppo di omosessuali – sbandierate da alcuni ricercatori – sono comunque numericamente insignificanti per trarne spiegazioni attendibili. Non contesto che esistano dei dati “oggettivi”; diffido piuttosto delle interpretazioni – molto soggettive, invece – che alcuni pretendono di darvi. È una metodologia che ricorda le vecchie assurdità che pretendevano di scovare “scientificamente” nell’anatomia dei cervelli le “differenze” tra uomini e donne o tra razze “superiori” ed “inferiori”. (D’altronde, la cronaca attuale è ghiotta di notizie pseudoscientifiche, che individuano una qualche molecola alla quale attribuire – non invento niente – l’aggressività in battaglia, il libero arbitrio o il rifiuto dei bambini di andare all’asilo).
Paradossalmente, danno credito all’ipotesi genetica sia alcuni tra gli omosessuali stessi, sia coloro che li condannano; secondo una precisa speculare collisione, nel bene e nel male le argomentazioni biologiche hanno la funzione difensiva di negare ogni dialettica, poiché enfatizzando il ruolo dei geni e cromosomi si riduce a statico ed ineluttabile destino il processo della psicosessualità. Ciò che è “natura” non si discute. Non c’è alcun processo da comprendere, ma solo un “dato” da scoprire.
D’altronde, il concetto di natura è tra i più ambigui e strumentalizzati, particolarmente da parte di coloro che pretendono di far accettare come “legge” il loro arbitrio culturale.
Per contro, penso che non abbia senso neppure parlare di libertà di “scelta” rispetto al nostro orientamento sessuale; tutti semmai “siamo scelti” dalla vita a trovare soluzioni più o meno armoniose e più o meno felici, a seconda delle vicissitudini e della storia relazionale di ciascuno»
«Il termine stesso di gay mi è antipatico, perché lo sento falso; esprime una “difesa euforica” che pretende di negare il versante depressivo, dando una patina di vitalità e gaiezza aprioristica a percorsi di vita che sono per lo più travagliati. L’idealizzazione è sempre l’altra misera faccia della svalutazione e del pregiudizio. Vorrei tanto che ciascuno non dovesse essere orgoglioso né vergognarsi della sua sessualità, deputando l’autostima a livelli più significativi di sé nella convivenza civile. L’equivoco più diffuso e dominante è però quello che tende a mescolare in un unico calderone tutti i casi di cosiddette neosessualità, particolarmente nell’usare prepotentemente la questione dell’omosessualità come scudo protettivo onnicomprensivo di ogni richiesta di riconoscimento sociale»
«In tanta non innocente confusione, ha una buona parte di responsabilità la cultura attuale, particolarmente, purtroppo, quella illuminata e progressista, talmente terrorizzata dall’idea di poter essere accusata di omofobia e razzismo, da avallare ogni equivoco riduttivo, dichiarando sbrigativamente una solidarietà a poco prezzo, che consente il piacere di sentirsi evoluti e progressisti a spese altrui.
Grazie alla funzione di rafforzamento del gruppo, è di importanza preminente il ruolo dei vari “movimenti” di liberazione, orgoglio, solidarietà, studio… La questione si sposta così sul piano delle rivendicazioni legali, indirizzando tutta la conflittualità “fuori”, in aggressività e polemiche contro le persecuzioni – che purtroppo non è difficile trovare – della società repressiva.
Come reazione alla rozza condanna della parte più retriva della società (odiosa, ma esplicita) è nato così un nuovo conformismo: dalla condanna moralistica all’ipocrisia normalizzante; dalla repressione alla collusione; due modi opposti di eludere la fatica del dubbio e la responsabilità delle proprie idee, rifugiandosi in un corto-circuito del senso. L’esempio più grossolano proviene come al solito dai talk show televisivi, dove il conduttore incoraggia l'invitato di turno a «svelarsi», la madre a «capire e perdonare» (il padre non viene), mentre un altro ospite dichiara tronfio di «avere un amico omosessuale» e il pubblico applaude. Ripensando alla struggente frase di Oscar Wilde, che definiva l'omosessualità «l'amore che non può dire il suo nome», bisognerebbe commentare che oggi parla troppo»
e/ ipotesi di lavoro
i ragazzi debbono comprendere – è la grande questione dell’amore - la differenza maschio-femmina
dentro questa maturazione all’alterità esiste anche – come questione di minoranza - il rispetto
Progetto RispettiAMOci (a Perugia Flavia Marcacci e altri)
5/ La questione dell’esistenza del bene morale
cfr. Alcune considerazioni in merito allo sviluppo delle virtù nei bambini, di Giampaolo Nicolais (a correzione di J. Piaget le tesi di Buchsbaum HK, Emde RN (1990), Play Narratives in 36-Month-Old Children. Psychoanalityc Study of the Child, 45,129-155.)
Appendice redatta da C.S. Lewis per il volume da C.S. Lewis, L’abolizione dell’uomo, Jaca, Milano, 1979, pp. 83-99.
N.B. C.S. Lewis in L’abolizione dell’uomo, Jaca, Milano, 1979 chiama per semplicità Tao la dottrina del valore oggettivo, «la convinzione che taluni atteggiamenti sono realmente veri, e altri realmente falsi» (p. 24) dottrina riconosciuta vera presso le religioni antiche dall’egizia alla assiro-babilonese, come presso platonici, aristotelici, stoici, cristiani, buddisti, induisti, non credenti. Per mostrare che il Tao esiste, al termine del volume, in Appendice, fornisce questo elenco di massime e comandamenti che provano la condivisione di valori universali e di una visione del bene identica nell’essenziale in culture e secoli lontanissimi fra loro.
Illustrazioni del Tao, di C.S. Lewis
Le seguenti illustrazioni della Legge Naturale sono desunte dalle fonti più a portata di mano di uno storico non professionista. L'elenco non pretende di essere completo. Si noterà che scrittori come Locke e Hooker, che scrissero nell'ambito della tradizione cristiana, vengono citati fianco a fianco con il Nuovo Testamento. Ciò sarebbe, naturalmente, assurdo, se io stessi cercando di raccogliere testimonianze indipendenti del Tao. Ma, primo, non sto cercando di provarne la validità sulla base del consenso comune. La sua validità non può essere dedotta. Per coloro che non ne percepiscono la razionalità, neppure il consenso universale potrebbe provarla. Secondo, l'idea di raccogliere testimonianze indipendenti presuppone che le «civiltà» siano sorte nel mondo indipendentemente l'una dall'altra; o addirittura che l'umanità sia emersa su questo pianeta da più fonti indipendenti. Biologia e antropologia coinvolte in tale supposizione sono estremamente dubbie. È tutt'altro che certo che vi sia mai stata (nel senso richiesto) più di una civiltà in tutta la storia. È per lo meno discutibile che ogni civiltà in cui ci imbattiamo sia derivata da un'altra e, in ultima analisi, da un singolo centro: «diffusa» come un morbo contagioso o come la successione apostolica.
1. La Legge della Beneficenza Generale
a. Negativo
«Non ho ucciso uomini», Antico Egizio. Dalla Confessione dell'Anima Retta, «Libro dei Morti», Encyclopedia of Religion and Ethics (Enciclopedia della Religione e dell'Etica). ERE, vol. v, p. 478.
«Non uccidere». Antico Ebraico. Es 20,13.
«Non atterrire gli uomini o Dio atterrirà te». Antico Egizio. Precetti di Ptahhetep. H.R. Hall, Ancient History of the Near East (Il Vicino Oriente nell'antichità), p. 133 nota.
«Nel Nàstrond (Inferno) vidi... gli assassini». Antico Norvegese. Volospà 38,39.
«Non ho cagionato sofferenza ai miei simili. Non ho reso arduo l'inizio di ogni giornata agli occhi di colui che lavorava per me». Antico Egizio. Confessione dell'Anima Retta. ERE, p. 478.
«Non sono stato avido». Antico Egizio, ibid.
«Colui che medita l'oppressione, la sua dimora sarà rovesciata». Babilonese. Inno a Samaš, ERE, p. 445.
«Colui che è crudele e calunnioso ha il carattere di un gatto». Induismo. Leggi di Manu. Janet, Histoire de la Science Politique (Storia delle Scienze Politiche) vol. I, p. 6.
«Non calunniare». Babilonese. Inno a Samaš, ERE, p. 445.
«Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo». Antico Ebraico. Es 20,16.
«Non pronunciare parola per la quale altri possa essere ferito». Induismo. Janet, op. cit., p. 7.
«Ha egli... allontanato un onest'uomo dalla sua famiglia? disperso una tribù ben cementata?». Babilonese. Lista dei Peccati da tavolette magiche. ERE, p. 446.
«Non ho cagionato fame. Non ho cagionato lacrime». Antico Egizio. ERE, p. 478.
«Non fare ad altri ciò che non vorresti facessero a te». Antico Cinese. Analetti di Confucio, tr. A. Waley XV. 23; cfr. XII. 2.
«Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello». Antico Ebraico. Lv 19,17.
«Colui il cui cuore sia nella più piccola misura aperto al bene non avverserà alcuno». Antico Cinese. Analetti, IV. 4.
b. Affermativo
«La Natura fa sì che un uomo desideri che l'umana società esista e che desideri di parteciparvi». Romano. Cicerone, De Officiis, I. IV.
«Per fondamentale Legge di Natura l'Uomo va preservato il più possibile». Locke, Treatises of Civil Government (Dissertazioni sul Governo Civile), II. 5.
«Quando la gente si sarà moltiplicata, che altro bisognerà fare per lei? Il Maestro ha detto, Arricchiscila. Jan Ch'iu ha detto, Quando la si sarà arricchita, che altro bisognerà fare per lei? Il Maestro ha detto, Istruiscila». Antico Cinese. Analetti, XIII. 9.
«Parla con animo cortese... mostra buona volontà». Babilonese. Inno a Samaš, ERE, p. 445.
«Gli uomini sono stati creati perché l'uno potesse fare il bene dell'altro». Romano. Cicerone, op. cit., I. VII.
«L'uomo è la gioia dell'uomo». Antico Norvegese. Hávamál 47.
«Colui al quale si chiede l'elemosina dovrebbe sempre dare». Induismo. Janet, I. 7.
«Quale uomo di buoni sentimenti guarderà alla sventura come cosa che non lo riguarda?». Romano. Giovenale, XV, 140.
«Sono un uomo: nulla che sia umano mi è estraneo». Romano. Terenzio, Heautontimorumenos.
«Amerai il tuo prossimo come te stesso». Antico Ebraico. Lv 19,18.
«Tu amerai il forestiero come te stesso». Antico Ebraico, ibid. 33-34.
«Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». Cristiano. Mt 7,12.
2. La Legge della Beneficenza Speciale
«È sopra il tronco che il signore opera. Quando questo si sarà levato saldamente, la Viafiorirà. E certo l'appropriata condotta nei riguardi dei genitori e dei fratelli maggiori è il tronco della virtù». Antico Cinese. Analetti, I. 2.
«I fratelli si combatteranno e saranno la rovina gli uni degli altri». Antico Norvegese. Racconto dell'Età del Male prima della fine del Mondo, Volospá 45.
«Ha egli ingiuriato la sua sorella maggiore?». Babilonese. Lista dei Peccati. ERE, p. 446.
«Li vedrete prendersi cura dei loro parenti [e] dei figli degli amici senza mai minimamente rimproverarli». Pellirosse. Le Jeune, citato in ERE, p. 437.
«Ama tua moglie premurosamente. Rallegra il suo cuore per tutta la tua vita». Antico Egizio. ERE, p. 481.
«Nulla potrà mai mutare i diritti del sangue per l'uomo che pensa rettamente». Anglo-Sassone, Beowulf, 2600.
«Non amò Socrate i suoi figli, benché da uomo libero e da uomo che non dimentica che gli dèi sono i primi ad aver diritto alla nostra amicizia?». Greco. Epitteto, III. 24.
«Gli affetti naturali sono cosa giusta e conforme alla Natura». Greco, ibid., XI.
«Non dovrei essere insensibile come una statua ma adempiere i miei doveri sia naturali sia artificiali, come devoto, figlio, fratello, padre, e cittadino». Greco, ibid., III. II.
«Per prima cosa ti consiglio questo: sii irreprensibile verso i tuoi congiunti. Non prenderti vendetta neppure se ti hanno fatto torto». Antico Norvegese. Sigrdrifumál, 22.
«E fra i mortali essi soli aman le spose gli Atridi? Ah no! Ogni uomo nobile e saggio ama e protegge la sua». Greco. Omero, Iliade, IX. 340.
«L'unione e la collaborazione degli uomini saranno meglio preservate se ciascuno riceverà da noi più benevolenza quanto più ci è intimamente legato». Romano. Cicerone, De Officiis, I. XVI.
«Parte di noi è reclamata dalla patria, parte dai genitori, parte dagli amici». Romano, ibid., I. VII.
«Se un sovrano... realizzasse la salvezza dell'intero stato, certo lo chiamereste Buono? Il Maestro ha detto, Non sarebbe più questione di 'Buono'. Egli sarebbe senza dubbio un Saggio Divino». Antico Cinese. Analetti, VI. 28.
«È sfuggito alla tua mente che, agli occhi degli dèi e degli uomini di buoni sentimenti, la tua terra nativa merita da te più onore, venerazione, e rispetto di tua madre e tuo padre e di tutti i tuoi antenati? Che devi risposta più mite alla sua ira che all'ira del padre? Che se non ti riesce di persuaderla a mutare pensiero devi obbedirle in silenzio, sia che ti cinga in catene o ti batta o ti mandi in una guerra dove troveresti le ferite o la morte?». Greco. Platone, Critone, 51 A, B.
«Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele». Cristiano. 1 Tm 5,8.
«Ricorda loro di esser sottomessi ai magistrati»... «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere». Cristiano. Tt 3,1 e 1 Tm 2,1-2.
3. Doveri Verso i Genitori, gli Anziani, gli Antenati
«Tuo padre è l'immagine del Signore della Creazione, tua madre l'immagine della Terra. Per colui che manca di onorarli, ogni opera di pietà è fatta invano. È questo il primo dovere». Induismo. Janet, op. cit., I. 9.
«Ha egli disprezzato Padre e Madre?». Babilonese. Lista dei Peccati. ERE, p. 446.
«Io fui il bastone al fianco di mio Padre... Andai e venni al suo comando». Antico Egizio. Confessione dell'Anima Retta. ERE, p. 481.
«Onora tuo padre e tua madre». Antico Ebraico. Es 20, 12.
«Voler bene ai genitori». Greco. Lista dei doveri in Epitteto, III. VII.
«Bambini, vecchi, poveri, e ammalati, vanno considerati come i signori dell'atmosfera». Induismo. Janet, op. cit., I. 8.
«Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi e onora la persona del vecchio», Antico Ebraico. Lv 19,32.
«Ebbi cura del vecchio, gli diedi il mio sostegno». Antico Egizio. ERE, p. 481.
«Li vedrete prendersi cura... dei vecchi». Pellirosse. Le Jeune, citato in ERE, p. 437.
«Non ho sottratto le oblazioni ai defunti beati». Antico Egizio. Confessione dell'Anima Retta. ERE, p. 478.
«Quando al momento della fine è mostrato l'appropriato rispetto verso i morti, e continuato dopo che essi sono lontani, la forza morale (tê) di un popolo ha raggiunto il suo apice». Antico Cinese. Analetti, I. 9.
4. Doveri Verso i Bambini e la Posterità
«Bambini, vecchi, poveri, e ammalati, vanno considerati come i signori dell'atmosfera». Induismo, Janet, op. cit., I. 8.
«Sposarsi e generare figli». Greco. Lista dei doveri. Epitteto, III. VII.
«Puoi raffigurarti una repubblica epicurea?... Che cosa accadrà? Con che cosa la popolazione sarà mantenuta? Chi la educherà? Chi sarà a dirigere gli adolescenti? Chi l'esercizio fisico? Che cosa si insegnerà?». Greco, ibid.
«La Naturadà luogo a un amore particolare per la progenie» e «Vivere conformemente alla Natura è la virtù suprema». Romano. Cicerone, De Officiis, I. IV e De Legibus, I. XXI.
«La seconda di queste intraprese non è meno gloriosa della prima; poiché, mentre la prima è giovata in una sola occasione, la seconda continuerà a giovare allo stato per sempre». Romano. Cicerone, De Officiis, I. XXII.
«Grande è il rispetto dovuto a un bambino». Romano. Giovenale, XIV. 47.
«Il Maestro ha detto, Rispetta i giovani». Antico Cinese. Analetti, IX. 22.
«L'uccisione delle donne e più in particolare dei ragazzi e delle ragazze destinati a formare la futura forza del popolo, è la parte più triste... e noi la lamentiamo molto amaramente». Pellirosse. Racconto della Battaglia di Wounded Knee. ERE, p. 432.
5. La Legge di Giustizia
a. Giustizia Sessuale
«Si è egli accostato alla moglie del suo prossimo?». Babilonese. Lista dei Peccati. ERE, p. 446.
«Non commettere adulterio». Antico Ebraico. Es 20,14.
«Vidi nel Nástrond (Inferno)... i seduttori di mogli altrui». Antico Norvegese. Volospá 38,39.
b. Onestà
«Ha egli tracciato falsi confini?». Babilonese. Lista dei Peccati. ERE, p. 446.
«Fare ingiustizia, derubare, causare che altri sia derubato». Babilonese, ibid.
«Non ho rubato». Antico Egizio. Confessione dell'Anima Retta. ERE, p. 478.
«Non rubare». Antico Ebraico. Es 20,15.
«Scegli di perdere piuttosto che guadagnare disonorevolmente». Greco. Chilone, frammento 10. Diels.
«Giustizia è la stabile e permanente intenzione di rendere a ogni uomo ciò che gli spetta». Romano. Giustiniano, Istituzioni, I. I.
«Se l'indigeno faceva una 'scoperta' di qualsiasi genere (per esempio, un albero di miele) e la contrassegnava, da quel momento in avanti era, per quanto concerneva i membri della sua tribù, assicurata a lui, non importa quanto a lungo la lasciasse». Aborigeni australiani. ERE, p. 44l.
«Il primo punto di giustizia è che nessuno dovrebbe arrecar danno ad altri a meno che egli non sia stato per primo offeso dalla trasgressione altrui. Il secondo è che un uomo dovrebbe trattare la proprietà comune come proprietà comune, e la proprietà privata come propria. Non esiste per natura cosa quale la proprietà privata, ma le cose sono divenute private o attraverso occupazione anteriore (allo stesso modo in cui gli uomini dell'antichità giungevano in un territorio inabitato) o attraverso conquista, o legge, o accordo, o patto, o sorteggio». Romano. Cicerone. De Officiis, I. VII.
c. Giustizia in Tribunale, ecc.
«Chiunque non si lasci corrompere... è ben accetto a Samaš». Babilonese. ERE, p. 445.
«Non ho diffamato lo schiavo dinanzi a colui che su di lui ha potere». Antico Egizio. Confessione dell'Anima Retta. ERE, p. 478.
«Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo». Antico Ebraico. Es 20,16.
«Rispetta colui che conosci come colui che non conosci». Antico Egizio. ERE, p. 482.
«Non commettere ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente». Antico Ebraico. Lv 19,15.
6. La Legge della Buona Fede e della Veracità
«Il sacrificio è cancellato da una menzogna e il merito dell'elemosina da un atto di frode». Induismo. Janet, op. cit., I. 6.
«La lingua di chiunque sia pieno di menzogne non vale in tuo cospetto: tu ne riarderai col fuoco le parole». Babilonese. Inno a Samaš, ERE, p. 445.
«Con la sua bocca egli era pieno di Sì, e nel suo cuore pieno di No?». Babilonese. ERE, p. 446.
«Non ho pronunziato falsità». Antico Egizio. Confessione dell'Anima Retta. ERE, p. 478.
«Non ho tramato inganni, né pronunciato falsi giuramenti». Anglo-Sassone, Beowulf, 2738.
«Il Maestro ha detto, Sii di intemerata buona fede». Antico Cinese, Analetti, VIII. 13.
«Nel Nástrond (Inferno) vidi gli spergiuri». Antico Norvegese. Volospá 39.
«Odioso m'è colui, come le porte dell'Ade, ch'altro nasconde in cuore ed altro parla». Greco. Omero, Iliade, IX. 312.
«Il fondamento della giustizia è la buona fede». Romano. Cicerone, De Officiis, I. VII.
«[Il signore] dovrà imparare a essere fedele ai superiori e a mantenere le sue promesse». Antico Cinese. Analetti, I. 8.
«Non v'è cosa migliore della lealtà». Antico Norvegese. Hávamál 124.
7. La Legge della Misericordia
«Poveri e ammalati dovrebbero essere considerati signori dell'atmosfera». Induismo. Janet, op. cit., I. 8.
«Chiunque interceda per il debole è ben accetto a Samas», Babilonese. ERE, p. 445.
«Ha egli mancato di liberare un prigioniero?». Babilonese. Lista dei Peccati. ERE, p. 446.
«Ho dato pane all'affamato, acqua all'assetato, vesti all'ignudo, barca all'uomo privo di barca». Antico Egizio. ERE, p. 478.
«Non si dovrebbe mai colpire una donna; neppure con un fiore». Induismo. Janet, op. cit., I. 8.
«Ecco, Thor, che ti sei coperto di vergogna, battendo le donne». Antico Norvegese. Hárbarthsljóth 38.
«Nella tribù dei Dalebura una donna, storpia dalla nascita, venne portata intorno a turno dai membri della tribù fino alla sua morte, avvenuta all'età di sessantasei anni»... «Non abbandonano mai l'ammalato». Aborigeni australiani. ERE, p. 443.
«Li vedrete prendersi cura di... vedove, orfani, e vecchi, senza mai rimproverarli». Pellirosse. ERE, p. 439.
«La Naturaconfessa di avere dato all'umana stirpe il più tenero cuore, avendoci dato il potere di piangere. Ed ecco la parte migliore di noi». Romano. Giovenale, XV. 131.
«Dissero che egli era stato il più mite e gentile dei re del mondo». Anglo-Sassone. Elogio dell’eroe di Beowulf, 3180.
«Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova». Antico Ebraico. Dt 24,19.
8. La Legge della Magnanimità
a.
«Vi sono due specie di ingiustizia: la prima si trova in coloro che arrecano torto, la seconda in coloro che mancano, potendo, di proteggere altri dal torto». Romano. Cicerone, De Officiis, I. VII.
«Gli uomini hanno sempre saputo che in presenza della violenza e dell’ingiustizia dovrebbero difendere se stessi; hanno saputo che, per quanto gli uomini possano ricercare la propria convenienza, pure non debba essere tollerato che ciò che venga fatto con il danno altrui, ma contrastato da tutti gli uomini e con tutti i mezzi». Inglese. Hooker, Laws of Ecclesiastical Polity (Leggi dello Stato Ecclesiatico), I. IX 4.
«Non prendere nota di un violento attacco significa rafforzare il cuore del nemico. Il coraggio è prode, ma la codardia è vile». Antico Egizio. Il Faraone Senusert III, cit. H.R. Hall, op. cit., p. 161.
«Ai luoghi ridenti arrivarono, alle amene verzure dei Boschi Felici, alle sedi Beate... qui, a schiere, [erano] quanti ebbero in guerra per la patria ferite». Romano. Virgilio, Eneide, VI. 638-9, 660.
«Il coraggio dev'essere più strenuo, il cuore più intrepido, lo spirito più forte, poiché la nostra forza si affievolisce. Qui giace il nostro signore, fatto a pezzi; il migliore dei nostri è nella polvere. Se alcuno pensa di lasciare la battaglia, che ululi per sempre». Anglo-Sassone. Maldon, 312.
«Lodate ed imitate quell'uomo al quale, pur se gli è dolce la vita, la morte non gli è dolorosa». Stoico. Seneca, Epistole morali, I. IV.
«Il Maestro ha detto, Ama il sapere e se attaccato sii pronto a morire per la Buona Causa». Antico Cinese. Analetti, VIII. 13.
b.
«La morte va preferita alla schiavitù e alle azioni indegne». Romano. Cicerone, De Officiis, I. XXIII.
«È meglio che l'uomo muoia piuttosto che viva con disonore». Anglo-Sassone. Beowulf, 2890.
«Natura e Ragione comandano che nulla di sconveniente, nulla di effeminato, nulla di lascivo sia fatto o pensato». Romano. Cicerone, De Officiis, I. IV.
«Non dobbiamo dare ascolto a coloro che ci consigliano ‘essendo uomini di concepire pensieri umani, ed essendo mortali di concepire pensieri mortali’, ma puntare sull'immortalità il più possibile e sforzare ogni nostro nervo a vivere in conformità a quella miglior parte di noi che, pur piccola nel volume, tuttavia di gran lunga supera ogni altra in potere ed onore». Antico Greco. Aristotele, Etica Nicomachea, 1177B.
«L'anima dovrebbe poi guidare il corpo, e lo spirito delle nostre menti l'anima. È questa dunque la prima Legge, per la quale il più alto potere della mente esige obbedienza per mezzo di tutto il resto». Hooker, op. cit., I. VIII 6.
«Che egli non desideri morire, che egli non desideri vivere, che egli attenda il suo tempo... che egli pazientemente sopporti le parole più dure, astenendosi completamente dai piaceri del corpo». Antico Indiano. Leggi di Manu. ERE, II. 98.
«Colui che è inflessibile, che ha tenuto a bada i suoi sensi... è detto devoto. Come una fiamma in un luogo al riparo dal vento, che non vacilla, così è il devoto». Antico Indiano. Bhagavad gita. ERE, II. 90.
c.
«Non è forse l'amore per la Saggezza un esercitarsi alla morte?». Antico Greco. Platone, Pedone, 81 A.
«So di essere rimasto appeso alla forca per nove notti, ferito dalla lancia in sacrificio a Odino, me stesso offerto a Me Stesso». Antico Norvegese. Hávamál,1. 10 in Corpus Poeticum Boreale: strofa 139 in Hildebrand, Lieder der Älteren Edda (Canti dell'antico Edda), 1922.
«In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde». Cristiano. Gv 12,24-25.
6/ La questione educativa nelle famiglie stesse
da È più facile fare il premier che fare il papà, di Giacomo Poretti
Fare il papà non è facile, ci si sente strani, in imbarazzo. E poi i figli fanno domande difficili. È più facile fare lo zio e il nonno. È più facile fare il premier che fare il papà. Anche l’astronauta è più facile da fare, arrivo persino a dire che è più facile fare l’amico che fare il papà!
I papà moderni e quelli di una volta sono molto diversi tra di loro, ma in una cosa si assomigliano: nel non voler togliere spazio al ruolo delle madri, consapevoli che certe cose, quali sostituzione di pannolini, preparazioni di pappe, tattiche e procedure per arginare le colichette, siano meglio svolte dalle mamme; loro, i papà, si mettono umilmente da parte. Quando nasce un figlio, in genere, per i primi anni di vita il papà non si fa molto vedere, non è molto coinvolto nel processo di crescita e di educazione dei pargoli; nei primi due anni di vita o forse anche tre, i papà si dedicano al loro lavoro dalle 7 del mattino fino alle 21-21,30. Quando rientrano vanno a dormire fino alle 6,58 del giorno dopo.
Alcuni padri vedono il loro figlio per la prima volta quando lo portano a scuola il primo giorno delle elementari.
Io ho avuto un papà di una volta, di quelli antichi.
Io ho avuto un solo papà, ai figli moderni ne possono capitare anche 2 o 3.
I papà di adesso sono diversi da quelli di una volta, intanto quelli moderni giocano a tennis, sanno sciare, vanno in mountain bike, di mestiere fanno l’interior designer, collezionano Rolex degli Anni 50, fingono di sapere come investire il loro patrimonio, alla domenica portano la famiglia al ristorante 2 stelle Michelin dove lo chef cucina le lasagne molecolari; il pasto finisce con la nonna che si lamenta e dice che sono più buone le sue.
I papà di una volta giocavano a briscola, quasi tutti lavoravano in fabbrica, dove andavano con bicicletta, e se per caso si bucava una ruota la aggiustavano loro; di soldi non ne avevano, così non sbagliavano investimenti, la domenica si mangiavano le lasagne cucinate dalla mamma e la nonna si lamentava sotto voce dicendo che le sue erano più buone.
I papà moderni ti portano in vacanza due settimane in Patagonia e due settimane in barca ai Caraibi, perché ai bambini bisogna fargli fare un po’ di mare e un po’ di montagna.
I papà moderni devono lavorare 12-14 ore al giorno per 11 mesi l’anno perché devono pagare lo skipper del catamarano e le tute anti-assideramento usate in Patagonia, perché loro, i papà moderni, in Patagonia ti portano in bassa stagione per risparmiare, solo che lì è inverno polare.
I papà di una volta il mare lo vedevano solo quando andavano a trovare i figli alla colonia marina di Pietra Ligure: due domeniche al mese; la nonna si lamentava sempre e diceva che secondo lei il mare di Pinarella di Cervia, che aveva visto in cartolina, era più bello.
Il mio papà il resto della vacanza lo usava per imbiancare la casa, riparare le tapparelle e giocare a carte alla bocciofila Combattenti e Reduci; la nonna diceva che il nonno era più bravo del papà a giocare a briscola.
I papà moderni lavorano tanto e regalano ai figli l’iPhone. Se i figli dei papà moderni non telefonano quattro volte al giorno, non mandano una mail, non inviano un filmato della lezione di judo e non twittano al papi prima e dopo i pasti, i papà moderni si preoccupano e vanno dallo psicologo perché non riescono ad avere un buon rapporto con i loro figli.
I papà di una volta, se arrivava il vicino a dirgli che era arrivata una telefonata per loro, chiedevano preoccupati se era morta la nonna. Ai papà di una volta se gli arrivavano due telefonate in un anno erano autorizzati a vantarsi un pochino, e in mensa gli facevano un brindisi. Alla terza telefonata la nonna si lamentava e diceva che si era persa la virtù del silenzio.
Quando i papà moderni accompagnano i figli alla partita di calcio del sabato pomeriggio, riescono a litigare con l’arbitro, con l’allenatore e con i papà della squadra avversaria; i sabati che il figlio perde litigano anche con il magazziniere, con il posteggiatore, con il figlio stesso e con la moglie e la nonna poi a casa.
Un sabato la mia squadra ha perso il derby contro il Busto Garolfo, mio papà è stato zitto fino a casa, poi ha trangugiato un Fernet Branca, ha acceso una nazionale senza filtro e mi ha detto: «Allenati a palleggiare e a tirare le punizioni, storia e matematica li farai la settimana prossima».
I papà moderni quando un figlio torna da scuola con un 4, denunciano il professore per mobbing.
I papà di una volta, se tornavi a casa con una nota da firmare, loro scrivevano sul diario «bravo prof, raddrizzi la schiena a questi invertebrati».
I papà moderni portano i figli a fare magic jumping buttandosi dai ponti dell’autostrada per 250 metri, ma se devono fare le condoglianze alla vicina a cui è morto il marito si cagano sotto.
I papà moderni ti spiegano come si usano le applicazioni su iPhone tipo Shazam o iTorcia, ma non sanno che differenza c’è tra un uovo per fare la carbonara e uno da cui nasce un pulcino.
I papà moderni ti spiegano la differenza tra musica lounge, tecno e ambient, ma non sanno cantarti «Che gelida manina se la lasci riscaldar...» della Bohème . Mio papà, quando andava alla cena dei coscritti, tornava alticcio, come tutti i coscritti, apriva la porta di casa e attaccava l’aria del tenore. La mamma, trattenendo il riso, fingeva di essere la Mimì dell’opera e lasciava paziente che il suo Rodolfo si smarrisse tra le ottave e gli accordi irraggiungibili e si addormentasse vestito. Io e mia sorella eravamo convinti che nostro papà fosse più bravo di Mario Del Monaco.
Quando poi un figlio moderno compie 16 anni, i loro papà li accompagnano in discoteca alle 23 e li vanno a prendere alle 4 del mattino con il Suv.
I papà di una volta piuttosto che mandarti in discoteca si mettevano a studiare con te i verbi irregolari e il genitivo sassone.
Fare i compiti insieme al papà moderno è molto istruttivo: è probabile che ti aiuti a comprendere le equazioni, che sappia i fiumi, i monti e la capitale delle Maldive, e che conosca la differenza tra Valentino e Dolce & Gabbana.
Se facevi i compiti con i papà di una volta eri bocciato di sicuro.
I papà moderni vogliono vestirsi come i loro figli, parlare come loro e vogliono diventare loro amici su Facebook.
I papà moderni sono contenti quando i loro figli accettano di essergli amici su Facebook. Ho sentito la nonna borbottare e diceva che o si fa il papà o si fa l’amico.
Se i figli moderni chiedono: «Papà, cosa preferisci: la pasta o il riso?», loro rispondono: dipende...
Papà, ma tu voti a destra o a sinistra? Dipende...
Se i figli domandano se bisogna sempre dire la verità, i papà moderni rispondono: dipende...
Ma papà bisogna fermarsi per far passare i pedoni sulle strisce? Dipende...
Ma papi, è vero che fa male farsi uno spinello? Dipende...
Papà, ma a te piacciono le donne vero? Dipende...
Mio papà, a cui è sempre piaciuto il risotto, mi ha insegnato cose meravigliose: a fare il presepe, a tifare per l’Inter, a fare il nodo della cravatta, a fare la barba con la lametta, ad andare in bicicletta, a bere un bicchiere di vino tutto d’un fiato, a vestirsi bene la domenica, a essere bravo nel lavoro, a cercare di avere sempre un amico, a portare un mazzo di fiori ogni tanto a tua moglie, a ricordarsi dei nonni e dei nostri morti, perché noi senza di loro non ci saremmo, perché Giacomo è figlio di Albino il fresatore, che era figlio di Domenico il mezzadro, figlio di Adriano il ciabattino che era figlio di Giuseppe il falegname figlio di Giosuè lo stalliere...
Dalla prima elementare alle terza media si fa di tutto per assomigliare e imitare il papà, dai 15 anni ai 22 non lo puoi vedere, fino ai 36 ti è abbastanza indifferente, verso i 40 ti fa incazzare da morire perché nel frattempo lui ha superato i settanta e se in gioventù aveva il suo bel carattere adesso è ostinato come tutti gli anziani, dai 42 in avanti riesci a capire quanto sforzo abbia fatto a studiare l’inglese con te e ne provi una tenerezza struggente.
Ho cercato tutta la vita di non assomigliare a mio papà e ora invece mi accorgo di essere uguale: me ne sono accorto quando mio figlio l’altro giorno mi ha chiesto come si dice centravanti in inglese.
Recalcati, dal complesso di Edipo al complesso di Telemaco
da Come pesci nell’acqua di Dio, un’intervista a Sofia Cavalletti, tratta dalla rivista “Il sicomoro”, n. 7, inverno 1998/1999 (anche su www.gliscritti.it )
Normalmente si parte dall'importanza della famiglia...
A me pare che fare dell'amore dei genitori o comunque di chi è più vicino al bambino il canale necessario dell'amore di Dio è estremamente limitante; si limita l'amore di Dio alla dimensione umana, lo si considera secondario rispetto alle condizioni in cui il bambino vive. Ma a me sembra - parlando sempre in base a quello che ho potuto osservare - che l'amore di Dio sia primario nell'esperienza umana del bambino piccolo. Certo è bello poter dire ad un bambino: "Papà e mamma ti vogliono bene"; però si tratta sempre di un amore umano e quindi limitato. E quando questo non succede? Un bambino rifiutato dai genitori è forse una creatura perduta per Dio?
7/ La questione dei media
Michela Nicolais: frammentarietà del sapere dei ragazzi
Internet produce ignoranza con il suo subissare di informazioni
La profilazione tipica dei media
8/ Il male e la morte
Le favole sono più che vere; non perché raccontano che esistono i draghi, ma perché ci dicono che i draghi possono essere sconfitti. (G. K. Chesterton, citato in esergo in N. Gaiman, Coraline, 2004)
Fairy Tales are more than true; not because they tell us that dragons exist, but because they tell us that dragons can be beaten.
Le favole non danno al bambino la prima idea di uno spirito cattivo. Ciò che le favole danno al bambino è la prima chiara idea della possibile sconfitta dello spirito cattivo. Il bambino conosce dal profondo il drago, fin da quando riesce ad immaginare. Ciò che la favola gli fornisce è che esiste un San Giorgio che uccide il drago (da G. K. Chesterton, The red angel, in Tremendous trifles).
Fairy tales do not give the child his first idea of bogey. What fairy tales give the child is his first clear idea of the possible defeat of bogey. The baby has known the dragon intimately ever since he had an imagination. What the fairy tale provides for him is a St. George to kill the dragon.
9/ La necessità di sintesi (e di ripetizione)
Cfr. domanda sui pilastri dell’Islam
Cfr. mappe concettuali
A. Lonardo su Lina Bolzoni
Si diffida della sintesi talvolta perché la si contrappone alla vivacità ed alla passione, ma questo vale solo ad uno sguardo superficiale. Nella storia la trasmissione della cultura ha sempre utilizzato la capacità di schematizzare unitamente a quella di appassionare. Ad esempio la Divina Commedia, l’opera italiana più grande, unisce una visione dell’intero universo - nel quale tutto trova una sua precisa collocazione - all’amore per ogni dettaglio “carnale”: essa si imprime nella mente e nel cuore. Il lettore percepisce l’ordine del poema, ma allo stesso tempo ne esce con un “animo ferito”. Bolzoni ha descritto la poetica dantesca come portatrice di una “memoria appassionata”, cioè di una visione retrospettiva di sintesi, che è al contempo appassionante e non algida.
Appendice: alcuni testi illuminanti dello Storico della matematica Giorgio Israel
da La scuola riparta da maestri e contenuti, di Giorgio Israel (on-line su www.gliscritti.it )
Abbiamo quindi bisogno di “maestri” (e non di “facilitatori” o “animatori”). È decisivo restituire ai professori il ruolo, il sentimento e la dignità di essere educatori e “maestri”. Naturalmente occorre che mostrino di essere tali e che siano premiati quanto più ne sono capaci (e penalizzati se non lo sono). In altri termini, occorre un efficace sistema di valutazione. [...] Veniamo così alla questione centrale dei contenuti. Quando sono entrato nella Commissione ministeriale per l'insegnamento della matematica colleghi “esperti” mi hanno spiegato che non si deve parlare di “programmi”, che sono cosa “impositiva”, bensì soltanto di “indicazioni nazionali” degli obiettivi. I programmi si costruiscono in classe. Il risultato è che i programmi li fanno le case editrici producendo spesso libri pessimi e infarciti di folli invenzioni.
da Aspetti principali dell'attuale emergenza educativa, di Giorgio Israel
È questa pedagogia scientista, che riduce la questione educativa a una mera questione di tecniche e di procedure, che appare assolutamente insufficiente a corrispondere a un’idea della formazione di una persona come soggetto di libertà.
Tutti i segni di questa degenerazione scientista appaiono nella loro evidenza a chi voglia vederli. In primo luogo, l’idea che il maestro-insegnante debba essere ridotto a un mero “facilitatore” o “mediatore”. Non più la figura descritta così bene da Hannah Arendt: colui che «si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità».
È la persona che «di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». Secondo i dogmi di questa pedagogia scientista l’insegnante non può essere un maestro, e non deve quindi educare ma soltanto favorire il processo di autoeducazione e di autoapprendimento, ovvero di autoformazione, secondo i principi di un mediocre pragmatismo che predica che vale soltanto quel che si è fatto da sé. Qualsiasi persona ragionevole e che conservi un minimo di fiducia nelle persone e nei rapporti interpersonali non può non avvertire l’assurdità di una simile visione. Potrei citare molte critiche che ne sono state fatte, oltre a quella di Hannah Arendt. Mi limiterò a ricordare che don Luigi Giussani ha fornito una demolizione radicale dell’idea dell’autoformazione con la sua teoria della conoscenza per testimonianza:
«Togliete la conoscenza per mediazione, dovete togliere tutta la cultura umana, tutta perché tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti. […] Se non ci fosse questo metodo, non si saprebbe più come muoversi; sì, ci si saprebbe muovere in un metro quadrato. Invece con questo tipo di conoscenza ci si può muovere in tutto il mondo. La cultura, la storia e la convivenza umana, si fondano su questo tipo di conoscenza […] conoscenza di una realtà attraverso la mediazione di un testimone».
Eppure è facile imbattersi in persone che, mentre dichiarano la loro adesione incondizionata a visioni come quelle sopra esposte, praticano quel confuso miscuglio di pragmatismo scientista proveniente dal filone della pedagogia di John Dewey e dei suoi aggiornamenti nella versione della pedagogia di matrice anticapitalistica e antiborghese alla Edgar Morin. Costoro, da un lato si dichiarano spiritualisti, religiosi, ed estranei a qualsiasi forma di scientismo e tuttavia propongono una bizzarra accozzaglia di teorie educative in cui intervengono versioni recenti del riduzionismo meccanicista, come la teoria della complessità, e talora la proposizione di un fumoso “olismo” inteso come la fusione di ogni conoscenza in una totalità indistinta, dando per scontato che la soppressione delle distinzioni disciplinari sia un fattore di progresso.
L’ispirazione “progressista” di queste visioni è del tutto evidente. La loro ascendenza “sessantottina” è visibile nel modo in cui la teoria dell’autoformazione è declinata nei termini di un’aspra “contestazione” del “vecchio”: si pensi alla polemica contro la lezione ex-cathedra, ai sarcasmi nei confronti dell’educazione “trasmissiva”, al richiamo del motto di Morin secondo cui è meglio avere “teste ben fatte piuttosto che ben piene”, il quale viene propinato come uno slogan contro le discipline e le conoscenze, e, in definitiva, viene convertito nel motto “meglio una testa vuota ben fatta secondo i nostri principi che una testa piena fatta secondo principi altrui”.
da Contro replica di Giorgio Israel
L’ex-manager della McKinsey, Roger Abravanel ha affermato: «La gente non ha capito che il mondo è cambiato, che siamo ad un’economia post industriale basata sui servizi, in cui conta non tanto imparare a memoria le idee di un altro, ma esser capaci di avere proprie idee». E ancora: «La scuola del domani non deve insegnare cosa pensare ma soltanto come pensare». È grottesco ritenere che si possa apprendere a pensare senza oggetto del pensiero. Inoltre, l’idea che finora l’umanità si sia limitata ad apprendere a memoria le idee degli altri e che soltanto ora si sia appreso ad avere “idee proprie”, è una sciocchezza talmente grande, una manifestazione così clamorosa di ignoranza della storia della cultura e delle idee da non meritare commenti.
Eppure l’autore di questi propositi viene spesso consultato come un “guru” dell’istruzione.
Secondo Henry Jenkins, Direttore del Comparative Media Studies Program (negli USA), tra gli adolescenti si starebbe affermando un nuovo modo di apprendere basato sullo scambio di opinioni e informazioni in rete, che imporrebbe una concezione nuova del sapere e del modo d’apprendere. Colui che sa – continua Jenkins – non è l’insegnante, il professore, ma il primo tra pari. Cambierebbe così il concetto di proprietà della conoscenza che diverrebbe un patrimonio non esclusivo ma condiviso, aperto, accessibile a tutti, ovunque, sull’istante, e così verrebbe sottratto all’istituzione scolastica il monopolio dell’accesso al sapere.
È un ragionamento volgare, basato sulla confusione elementare tra informazione e conoscenza. L’accessibilità massima all’informazione – che è un effetto positivo delle tecnologie informatiche – non implica affatto il possesso della conoscenza. Quest’ultima si costruisce attraverso un interminabile processo in cui il ruolo dei “maestri” è fondamentale. L’idea che la conoscenza sia qualcosa cui si accede sull’istante e di cui ci si impossessa come una notizia è una sciocchezza sesquipedale.