Cristiani e illuministi hanno sconfitto la tortura, di Paolo Borgna
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Riprendiamo da Avvenire del 12/3/2015 un articolo di Paolo Borgna. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (5/4/2015)
Si narra che nel 1940, pochi mesi prima di morire, il filosofo Bergson, vedendo i nazisti invadere Parigi, esclamasse: «Possiam chiamarci fortunati, per aver potuto rivedere coi nostri occhi come erano fatti gli uomini preistorici». Dovremmo ugualmente, oggi, dichiararci «fortunati» di fronte all’irrompere nelle nostre piccole vite della grandezza del male di cui è capace l’uomo? Neppure per paradosso riusciamo a dirlo.
Eppure, quella spirale di barbarie che fino a ieri avremmo detto impossibile e che invece quotidianamente ci parla di persone arse vive, di bambini crocefissi, di donne violate, schiavizzate e vendute, di uomini sgozzati e, prima del martirio, vilipesi, umiliati, tormentati, ci insegna qualcosa. Ci ricorda una lezione che sempre tendiamo a dimenticare: che, nella storia dell’uomo, nessuna conquista di civiltà è per sempre. Tra il 1943 e il 1944, nell’eremo di Collicello Umbro, ove è sfuggito ad una cattura dei tedeschi che occupano Firenze, Piero Calamandrei scrive una lunga prefazione a una nuova edizione de "Dei delitti e delle pene". Una prefazione che è un libro nel libro: dettato dall’urgenza di pensare al male che in quei mesi sta invadendo ogni città e borgo d’Europa e dalla profondità della riflessione sugli ottimismi dell’uomo di fronte alla storia.
Nel 1840 Alessandro Manzoni – che di Beccaria era nipote – raccontando la Storia della colonna infame aveva scritto: «I tempi della tortura sono, grazie al cielo, abbastanza lontani». Ed ecco che, giusto un secolo più tardi, quell’ottimismo è spazzato via dal ritorno della tortura, delle carni bruciate, delle esecuzioni di massa, dell’uomo ridotto a cosa. Quanti identici abbagli avremmo ancora dovuto conoscere! Quando, negli anni 70 del Novecento, sui testi universitari studiavamo i reati di «riduzione in schiavitù» e di «tratta», pensavamo di trovarci di fronte a relitti della storia, reperti archeologici, confinati per sempre a un passato che mai sarebbe tornato. E invece, trent’anni dopo, ci siamo ritrovati ad applicare quelle norme. Nell’isolamento di Collicello, Calamandrei ragiona sulla vacuità e sulle cause del nostro ricorrente ottimismo storico.
Nei lunghi periodi di pace sociale si forma la «pericolosa illusione» che le leggi degli uomini ispirate ai princìpi di umanità «si reggano per forza propria» e, una volta conquistate, non si possano più perdere. Quei princìpi diventano naturali come l’atmosfera che ci circonda. Tanto che quasi ci dimentichiamo della loro esistenza. Ma, come per l’aria che respiriamo, ci accorgiamo della loro importanza solo quando ci vengono a mancare. E così, quando «quell’atmosfera è sconvolta dall’uragano», quanto tornano i tempi in cui «gli assassini salgono ad assidersi sul banco dei giudici» e «la purità di coscienza diventa titolo per essere portati al patibolo», allora ci si ricorda che, nella storia dell’umanità, nulla è irreversibile. Libertà, dignità e rispetto di ogni persona vanno pensate ogni giorno. Difese ogni giorno. L’offesa ad esse ci riguarda, sempre: anche se minima, anche se distante da noi. Calamandrei riflette, così, sulle radici dei nostri sentimenti più nobili e profondi. E scrive parole che ancor oggi ci riscaldano.
Il rifiuto della riduzione della persona umana a cosa affonda in quell’amore dell’umanità, in quel riconoscimento della «ugual dignità morale insopprimibile in ogni uomo» che è il portato più profondo di millenni di storia d’Europa e che coincidono con l’amore della libertà e «l’altruismo cristiano, che è certo la parola più alta detta nei secoli per consolarci». Parola «di fierezza, non di ignavia: perché questo senso della solidarietà e della reciprocità umana, che […] sente la schiavitù altrui come menomazione della propria libertà, è una conquista e un rinvigorimento, non un infiacchimento e una rinuncia, della coscienza individuale».
E, avverte Calamandrei, «là dove manca questo amor dell’umanità» anche le virtù civiche possono generare mostri, «anche l’amor di patria diventa abominevole terrorismo di razza». Per trovare la fonte di questo amore per l’uomo non abbiamo bisogno di regole scritte. «Consultiamo il cuore umano, e in esso troveremo i princìpi fondamentali del vero diritto», afferma Beccaria. E per sostenere che non vi può essere «libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa…», scrive semplicemente: «È evidente che il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile». È evidente.
Beccaria non aggiunge altro; non si preoccupa di dimostrare. Perché il rispetto della persona umana nella sua sacra dignità morale non ha bisogno di esercizi dialettici. Perché – aggiunge Calamandrei – non c’è bisogno di parole ma basta consultare il nostro cuore per trovare i princìpi che non ci consentono di accettare l’abbandono «dell’uomo alla forza bruta del carnefice come una cosa senz’anima, come un pezzo di povera carne corruttibile, destinata ad esser macerata ed incenerita».
Non dimentichiamo però – ci ammonisce Calamandrei – che questa sensibilità intima e diffusa matura dopo secoli di storia, pur considerati di raffinata civiltà, in cui supplizi di ogni genere venivano decisi e applicati con crudeltà meditata, studiata, soppesata. Epoche di fioritura artistica e culturale, come il Rinascimento, potevano guardare la ferocia esercitata sui corpi umani come a una prova di «virtù». E Machiavelli poteva giudicare le maniacali crudeltà di Bernabò Visconti come lodevoli atti, idonei ad accrescere la fama del principe e utili a perseguire il fine giusto della creazione dello Stato milanese. Oggi non riusciamo neppure a leggere sino in fondo gli elenchi minuziosi – consultati da Beccaria – dei tormenti inflitti e degli strumenti impiegati nella Milano tra il 1400 e il 1700, in preparazione e in esecuzione di una pena capitale che arrivava infine come una liberazione. Eppure, quegli elenchi erano redatti e aggiornati da giudici, convinti di servire la giustizia, che dissertavano con eleganza sui modi più efficaci per dosare i tormenti sui corpi degli inquisiti e dei condannati e da ecclesiastici e uomini di fede di tutta Europa, convinti di servire il Vangelo condannando al rogo streghe ed eretici.
Persino l’Illuminismo, nato dal risveglio della ragione e da un sentimento di pietà e di solidarietà fraterna per i sofferenti e le vittime delle barbarie del passato – ricorda Calamandrei – generò poi un «terribile scatenamento di spietata giustizia», tanto che, in una certa fase storica, il proclamato amore per l’uomo poté sembrare «solo un pretesto per mascherare la sete di vendette e di sangue». Ma, infine, sarà proprio la prima dolce sorgente dell’Illuminismo, il suo «spirito d’umanità», a incontrarsi con quel «senso di uguaglianza umana e di solidarietà sociale, che è l’immenso dono fatto dal Cristianesimo alla civiltà».
Ecco, è nel felice incontro tra questi convergenti sentimenti (religiosi e filosofici) di fraterna solidarietà – insieme al riconoscimento degli orrori commessi in passato in nome della religione e della filosofia – che la civiltà europea ritrova le proprie radici. Da queste radici può svilupparsi oggi – come è stato scritto su questo giornale – una grande iniziativa di confronto e di educazione «ai valori di libertà, di uguaglianza e di solidarietà che fondano la civile convivenza tra diversi»; tra chi «coltiva visioni differenti ma non nutre propositi di sopraffazione o di negazione dell’altro».
Questa «arma dell’educazione» deve essere basata su una umile fierezza. La fierezza di una cultura dei diritti che si propone d’essere «faro nella notte buia». L’umiltà di ricordare che il nostro sgomento di oggi nel rivedere come sono fatti «gli uomini preistorici» riposa anche sul ricordo degli orrori della nostra Europa, perpetuati ancora soltanto settant’anni fa. Come nani sulle spalle dei giganti, non ricadiamo nell’errore di ottimismo di Manzoni: i tempi della tortura, della persona ridotta a cosa, non sono mai «abbastanza lontani».