Beato Maurice Tornay, martire in Tibet a motivo dell’odio dei Lama buddisti locali contro i cristiani (da Dom Antoine Marie osb)
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Riprendiamo alcuni brani da un articolo pubblicato sul sito Annus sacerdotalis, curato negli anni 2009-2010 dalla Congregazione per il clero. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (19/4/2015)
Una sera, accanto al fuoco, Faustina Tornay racconta ai figli più piccoli, Maurizio e Anna, la vita di sant'Agnese, vergine e martire. Rispondendo alla loro domanda, essa spiega: «Siete entrambi vergini, cari i miei bambini; martiri, è più difficile... Bisogna amare il buon Dio più di tutto, ed esser pronti a dare la vita, a versare fino all'ultima goccia di sangue per Lui, piuttosto che offenderLo...». Maurizio reagisce, veloce come un fulmine: «Vedrai, Anna, sì, vedrai, sarò martire...». Parole profetiche: il 16 maggio 1992, sarà beatificato come martire da Papa Giovanni Paolo II.
Maurizio Tornay è nato il 31 agosto 1910, settimo di una famiglia di otto figli, nella frazione di La Rosière, abbarbicata a 1200 metri di altitudine sul fianco scosceso di una montagna, nel Vallese (Svizzera)
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Provvidenzialmente, le Missioni Estere di Parigi intervengono presso la Congregazione del Gran San Bernardo, in vista di inviare nell'Himalaia alcuni monaci abituati alla vita in montagna. Dopo aver esaminato la questione, il Prevosto, Monsignor Bourgeois, decide di rispondere positivamente alla richiesta, ed un primo gruppo di monaci parte, nel gennaio del 1933, per Weisi nello Yünnan (sud-ovest della Cina), ma Maurizio Tornay non fa parte del gruppo. Nel gennaio del 1934, i medici gli diagnosticano un'ulcera duodenale che necessita un'operazione. La convalescenza sarà lunga. L'esperienza della sofferenza lo porta ad incoraggiare i genitori, i fratelli e le sorelle ad utilizzare meglio il tesoro troppo misconosciuto che costituisce la sofferenza sopportata in unione con Cristo sofferente. […]
L'8 settembre 1935, il giovane canonico pronuncia i voti solenni di povertà, castità e obbedienza. Monsignor Bourgeois decide allora di rafforzare il gruppo dei pionieri nello Yünnan; il canonico Tornay, guarito, partirà con i confratelli, i canonici Lattion e Rouiller. Si preparano tutti e tre per parecchi mesi ad alleviare la miseria umana attraverso corsi pratici di aggiornamento presso un medico ed un dentista. Quando viene fissato il giorno della partenza, Maurizio confida al fratello Luigi: «Ho ricevuto nettamente nell'anima la seguente intuizione: perché il mio ministero sia fecondo, devo applicarmi con tutto l'ardore dell'anima, per il più puro amore di Dio, senza nessun desiderio di veder notata la mia opera. Voglio estenuarmi al servizio di Dio. Non tornerò più».
Dopo circa un mese e mezzo di viaggio, i tre canonici arrivano alla missione di Weisi (m. 2350), nelle Marche tibetane. Il canonico Tornay scrive: «E adesso, ho fatto quasi il giro del mondo: ho visto ed ho sentito che ovunque la gente è infelice, che la vera infelicità consiste nel dimenticare Dio, che a parte servire Dio, veramente, nient'altro ha valore, niente, niente, niente». Senza por tempo in mezzo, riprende lo studio: da un lato, la teologia, sotto la guida del canonico Lattion, dall'altro, la lingua cinese, con un vecchio professore protestante, che ha una certa simpatia per il cattolicesimo. Ansioso di evangelizzare i pagani nella loro lingua e nel rispetto della loro cultura, fa rapidi progressi in cinese. […]
Una gioia temperata
Dopo aver superato brillantemente gli esami di teologia, il canonico Tornay può esser ordinato sacerdote. Il prelato più vicino, Monsignor Francesco Chaize, risiede a Hanoi; il giovane diacono intraprende quindi un viaggio di venti giorni per recarsi da lui. La sera stessa dell'ordinazione, il 24 aprile 1938, scrive ai genitori: «Vostro figlio è sacerdote! Gloria a Dio! Questa notizia non vi procurerà che una gioia temperata, perché non sono assieme a voi. Ma voi siete cristiani e mi capite. C'è un Dio che bisogna servire con tutte le proprie forze. Per questo sono partito, per questo avete sopportato tanto bene la mia partenza».
Nel settembre del 1939, scoppia la guerra mondiale. La Cina è invasa dal Giappone, e le Marche tibetane sono occupate militarmente, il che provoca carestia, sommosse popolari, saccheggi. Padre Tornay è confrontato al problema dell'alimentazione dei partecipanti alla «probazione», specie di preparazione al seminario minore fondato dai canonici e affidato a lui. Arriva al punto di farsi mendicante per nutrire i suoi ragazzi, ma deve lui stesso, talvolta, passare giorni e giorni senz'altro nutrimento che radici di felci. «Portare la croce, scrive all'epoca, ho capito un po' il senso di queste parole». Ma la miseria generale, lungi dallo scoraggiarlo, non fa che infiammare il suo desiderio di far del bene intorno a sé: «Più i tempi sono difficili, più è urgente occuparsi delle anime». La guerra non è ancora finita, nel marzo del 1945, quando Padre Tornay viene nominato curato di Yerkalo (2650 metri di altitudine), nel sud-est del Tibet. Accettare la nomina significa avviarsi su una strada che presenta tutte le probabilità di sfociare nel martirio. Infatti, parecchi sacerdoti vi hanno trovato la morte a causa dell'intolleranza religiosa delle autorità locali. Alla notizia della nomina, il missionario cerca rifugio nella preghiera. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! (Matt. 26, 39).
Due eserciti alle prese
Nella regione in cui Padre Tornay esercita il suo apostolato, il lama capo Gun-Akhio è onnipotente sul piano religioso come nei campi economico e politico. Egli alimenta un odio implacabile contro i missionari. Già san Paolo aveva messo in guardia il suo discepolo preferito Timoteo contro le prove che non mancano mai agli operai del Vangelo: Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo saranno perseguitati (2 Tim. 3, 12). […]
«Ero appena giunto a Yerkalo, scriverà nel suo diario Padre Tornay, e già si parlava sottovoce di mettere il missionario alla porta. Durante le danze dei lama di Karmda, si proclama, davanti al cielo e alla terra, che il missionario dovrà ben presto andarsene, pena i peggiori castighi che un essere umano possa temere, che i Cristiani dovranno apostatare e tutti i loro figli rivestire la toga dei lama; perché “non deve esserci che una sola religione nel paese dai mille dei”». Malgrado il pericolo e le difficoltà dell'apostolato, Padre Tornay vuol rimanere sul posto. Come il santo Curato d'Ars, che aveva detto: «Lasciate una parrocchia senza sacerdote per vent'anni, e vi si adoreranno gli animali», egli si rende conto che il popolo ha bisogno dei missionari per conoscere la legge di Dio e rimanervi fedele grazie ai sacramenti della Chiesa. Le minacce di Gun-Akhio non lo distolgono dal suo dovere: «Sono stato mandato a Yerkalo dal mio vescovo, e vi rimarrò finché egli vorrà che mi ci trattenga, scrive Padre Tornay ad un confratello. Se si vuole allontanarmi, c'è un solo mezzo per i lama: legarmi sul dorso di un mulo e spronare la bestia; non cederò che di fronte alla violenza». L'ordine di non cedere che di fronte alla violenza gli è stato dato dal vescovo. Anche quando i lama gli gridano apertamente: «Partirai! Partirai! Ti ammazzeremo! Ti butteremo nel Mekong!», Tornay rimane imperterrito.
Il 26 gennaio 1946, la mattina, una quarantina di lama invade la residenza del missionario, la saccheggia, la distrugge e, sotto la minaccia di 12 fucili, trascina Padre Tornay in esilio a Pamè, nello Yünnan cinese. Comincia allora un anno che sarà il più duro di tutta la sua vita missionaria. Nel villaggio, infatti, c'è una sola famiglia cristiana; il vecchio tibetano che lo ospita è un ubriacone; i lama continuano a minacciarlo di morte, se non interrompe la corrispondenza con i fedeli di Yerkalo. Prega molto, visita gli abitanti, cura i malati.
All'inizio del maggio 1946, Padre Tornay riceve una lettera dal Governatore di Chamdo, suprema autorità civile dell'est tibetano. Egli gli promette la sua protezione e lo invita a tornare a Yerkalo. Il 6 maggio, Padre Tornay si mette in viaggio, ma, quando sta per varcare il confine di Yerkalo, viene arrestato da Gun-Akhion: «Alt! Vietato andare oltre». Con la morte nel cuore, Padre Tornay torna indietro in piena notte. Senza scoraggiarsi, si propone di recarsi a Lhasa, capitale del Tibet (34 giorni di cammino), per ottenere dal Dalai-Lama, capo religioso e politico supremo del paese, la libertà religiosa dei Cristiani di Yerkalo. È stato incoraggiato a compiere questo passo dai rappresentanti della Santa Sede e dai governi svizzero e francese.
L'arrivo nella vera patria
Il 10 luglio 1949, Padre Tornay, aggregandosi ad una carovana di mercanti, inizia il lungo viaggio alla volta di Lhasa, viaggio previsto per durare due mesi. Benché si sia rasata la barba e porti l'abito tibetano, viene riconosciuto e denunciato durante una tappa. Costretto a lasciare la carovana ed a tornarsene indietro, riesce comunque a raggiungerla di nuovo. «Non bisogna aver paura, dice ai suoi compagni, se ci ammazzeranno, andremo difilato in Paradiso. Moriremo per i Cristiani». La carovana si ferma, vicino alla frontiera, sul territorio dello Yünnan, in un luogo detto Tothong. È un posto sinistro, propizio ad un'imboscata. Improvvisamente, quattro lama armati irrompono dal sottobosco. Padre Tornay grida: «Non sparate, si può discutere!». Ma, in quello stesso istante, si sentono due spari. Egli si precipita verso il suo fedele compagno, Doci, che è stato colpito. Altre fucilate risuonano: Padre Maurizio Tornay si accascia sotto i proiettili. È l'11 agosto 1949, nella foresta di Tothong, sotto il passo di Chula (3000 m.), nelle ultime ore prima di mezzogiorno. Più tardi, le autorità cinesi imporranno una multa considerevole alla lamasseria di Karmda. La responsabilità dell'assassinio viene, di conseguenza, riconosciuta ufficialmente. Il motivo: «Padre Tornay propagava la religione cattolica a Yerkalo». La fede cattolica vi è oggi tuttora vivace.
Ancora collegiale, Maurizio Tornay aveva scritto: «La morte è il giorno più felice della nostra vita. Bisogna rallegrarsene più di tutto, perché è l'arrivo nella nostra vera patria». Dopo aver camminato sulle tracce del Buon Pastore che dà la vita per le sue pecorelle, il Beato è entrato nella vita eterna. Che ci ottenga di partecipare al suo amore appassionato per Cristo e di andare fino in fondo alle esigenze del suo amore per noi! […]