Pena di morte, così l’Italia disse basta, di Edoardo Castagna
- Tag usati: pena_di_morte
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo da Avvenire del 10/3/2015 un articolo di Edoardo Castagna. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (5/4/2015)
Per arrivare alla piena abolizione della pena di morte, l’Italia ci ha messo la bellezza di 142 anni. Tanti ne sono passati da quel 13 marzo di 150 anni fa, quando per la prima volta la Camera dei deputati votò per la moratoria, al 2007, quando una legge costituzionale ha cancellato l’ultimo accenno alle esecuzioni nel nostro ordinamento. Anche se, di fatto, l’Italia è uno dei Paesi che possono vantare i più lunghi periodi di disoccupazione per i boia nella storia moderna.
Nella patria del Dei delitti e delle pene (1764) si registrò il primo decreto abolizionista già nel 1786, quando il Granducato di Toscana di Pietro Leopoldo fu il primo Paese al mondo ad abolire tortura e pena capitale. La Toscana rimase tuttavia l’unico Stato italiano senza forche, così con l’Unità ci si trovò di fronte al dilemma: estendere l’abolizionismo toscano a tutto il neonato Regno o, viceversa, ripristinare le esecuzioni anche nell’ex Granducato? La soluzione, in prima battuta, fu squisitamente italica: pena di morte estesa a tutto il Paese, tranne la Toscana.
Un ripiego tanto insoddisfacente che già nel 1861 Carlo Cattaneo fondò il Giornale per l’abolizione della pena di morte, animato da giuristi come Pietro Ellero e Francesco Carrara e che ebbe il sostegno, tra gli altri, di Guerrazzi, Tommaseo, Carducci e Garibaldi. In Parlamento fu Pasquale Stanislao Mancini il capofila della battaglia abolizionista. Irpino, ministro della Pubblica istruzione e poi degli Esteri, Mancini propose alla Camera il 17 novembre 1864 una legge che con somma chiarezza proclamava: «È abolita nel Regno d’Italia la pena di morte». Incassato all’unanimità il parere favorevole della commissione parlamentare, la proposta – ricostruisce Italo Mereu nel suo La morte come pena, pubblicato da Donzelli nel 1982 e ripetutamente ristampato (l’ultima volta nel 2007) – passò all’aula.
La commissione, tra l’altro, aveva aggiunto nella sua relazione osservazioni di alto profilo e non prive di ironia: «Sarà difficile persuadersi – si legge – che la Toscana sola, dove la conservazione dell’ordine pubblico non ha bisogno di questa pena estrema, si trovi in condizioni di moralità, d’istruzione e di prosperità economica cotanto superiori a quelle del resto d’Italia da supporre nelle altre province quella necessità della pena di morte che ivi non esiste».
Il dibattito parlamentare sulla proposta Mancini si tenne dal 24 febbraio al 13 marzo e fu uno dei più alti della storia della Camera; echeggiarono i nomi di Beccaria, di Tommaso Moro, passi del Vangelo ma anche quelli, citati dagli oppositori all’abolizione, di Rousseau e di Montesquieu. Il 13 marzo la Camera approvò, ma fu una vittoria a metà: per l’entrata in vigore della legge occorreva l’assenso del Senato di nomina regia, molto più conservatore, che infatti insabbiò la legge. Per poco: nel 1877 re Umberto I promulgò un’amnistia generale che sospese le esecuzioni. Sospensione che divenne norma di legge con l’adozione del nuovo codice penale del 1889, il Codice Zanardelli. Da allora le esecuzioni furono abolite per i reati civili, mentre restarono previste dal codice militare e durante la Grande Guerra vi si fece ampiamente ricorso (spesso ingiustamente, come testimoniato dall’inchiesta di “Avvenire” sulle esecuzioni sommarie).
Con il fascismo si tornò indietro. Il 31 ottobre 1926 l’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini fu il pretesto per reintrodurre la pena capitale, accanto ad altre misure repressive. Non che i fascisti avessero bisogno di copertura legale: lo stesso Zamboni, un ragazzino di quindici anni, era stato linciato sul posto. Pochi anni dopo, nel 1931, al Codice Zanardelli subentrò il Codice Rocco, che ampliava l’applicabilità della pena capitale. In una decina d’anni furono pronunciate 183 sentenze di morte, 118 eseguite. Solo più di un anno dopo la caduta del fascismo, nell’agosto del 1944, il codice Rocco (sostanzialmente in vigore ancora oggi) fu emendato dalle norme autoritarie, tra le quali la pena di morte per i reati civili. Ma nel 1945 fu provvisoriamente reintrodotta per arginare – si disse – il disordine conseguente alla fine della guerra. Le ultime esecuzioni avvennero il 5 e il 6 marzo 1947. Il 5 l’ultima per reati comuni, contro i tre responsabili della strage di Villarbasse – dove nel 1945 dieci persone erano state massacrate a bastonate e gettate ancora vive in una cisterna –; il giorno dopo l’ultima in assoluto, per reati militari, contro tre collaborazionisti.
La Costituzione repubblicana abolì la pena di morte per tutti i reati in tempo di pace, ma lasciò uno spiraglio per quelli militari in tempo di guerra. Nel 1994 il nuovo Codice penale militare di guerra sostituì la pena capitale con l’ergastolo, ma solo il 25 ottobre 2007 entrò in vigore una legge fatta di un solo articolo: «Al quarto comma dell’articolo 27 della Costituzione le parole “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra” sono soppresse». Lasciando solo: «Non è ammessa la pena di morte».