Apocalisse jihadista e trappole dell’ottusità, di Francesco D’Agostino
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Riprendiamo da Avvenire del 10/3/2015 un articolo di Francesco D’Agostino. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2015)
Su di una cosa sola concordano gli studiosi che cercano di interpretare il terrorismo islamico: siamo di fronte a una situazione nuova, di fronte alla quale nessuna analogia con eventi del passato è possibile. Le stesse definizioni che utilizziamo per definire i terroristi sono storicamente e linguisticamente datate e quindi inappropriate: da quelle che più immediatamente vengono alla mente e cioè "assassini", "delinquenti", "criminali" a quelle solo apparentemente più sofisticate, come "fondamentalisti", "kamizake", "islamo-fascisti", "anarchici-millenaristi" ecc.
Il solo fatto comunque che esistano uomini e donne (nonché, per quanto ammetterlo sia una vera sofferenza, ragazzi e ragazze e perfino bambini e bambine) pronti a sacrificare la loro vita in attentati che sembrano paradossalmente produrre effetti concreti antitetici a quelli auspicati (come dimostrerebbe il corteo di Parigi dopo la strage dei giornalisti di "Charlie Hebdo") è in qualche misura sconvolgente, perché paralizza la nostra capacità di ragionare secondo criteri funzionali.
Il terrorismo islamico non è pragmatico, non mira a finalità descrivibili concretamente; esso è piuttosto apocalittico, nel senso etimologico della parola: vuole "rivelare" una "passione" che per i terroristi jihadisti è talmente assoluta da non poter essere manifestata in altro modo, se non con la morte. Il grido "Dio è grande", che accompagna quasi sempre le loro feroci uccisioni, non sta semplicemente a indicare la loro appartenenza all’islam, ma ancor più la loro volontà di dar la prova che esiste un’altra dimensione dell’essere, che l’occidente avrebbe completamente smarrito, e che solo il terrore indotto da pratiche disumane sarebbe in grado di ridestare nelle coscienze. È evidente che, se questi sono i paradigmi psicologico-culturali che muovono i terroristi, non c’è alcuna possibilità di aprire con loro un dialogo, dato che il dialogo ha senso quando si intenda dare un ordine convenzionale e ragionevole all’esistente, non quando si vuol mostrare e dimostrare che l’esistente è talmente meritevole di disprezzo, che è ben possibile decidere di morire assieme alle proprie vittime, per dimostrare quanto Dio sia "grande".
Dunque, una situazione del tutto nuova e proprio per questo generatrice di angoscia, come ogni novità assoluta e radicale. L’angoscia tende, molto spesso, a paralizzare la mente e a farla precipitare in un’inerzia pericolosa, proprio quando un suo buon uso sarebbe più che opportuno. Nel nostro caso, questa inerzia si è manifestata nel modo ottuso con il quale, per rispondere agli stragisti di "Charlie Hebdo", ci si è limitati a ribadire la necessità di difendere la libertà di stampa non solo come valore costituzionalmente fondamentale, ma anche e soprattutto come principio stesso della modernità giuridica.
A questa istanza, perfettamente condivisibile, se ne è però aggiunta e pressoché sovrapposta un’altra, tutt’altro che necessaria, anzi controproducente: quella dell’esaltazione della blasfemia come un vero e proprio "diritto". Perfino un giornale moderato e intelligente come "Le Monde" è caduto in questa trappola, in un importante editoriale del 17 febbraio. Perdere la consapevolezza che una cosa può essere la tolleranza o la non punibilità della blasfemia e un’altra il suo riconoscimento come diritto è gravissimo, perché impedisce all’occidente di mantenere aperto un confronto non solo con l’islam, ma con tutti coloro per i quali – sottolineava ammirato Benedetto Croce – «una messa vale più di Parigi».
La blasfemia non ha nulla a che vedere con la libertà: questa è rispetto sincero per le visioni del mondo altrui, quella è una forme di sarcasmo crudele, che vuole ferire i sentimenti più profondi dei credenti, facendone oggetto di risate e allusioni oscene. Il primo compito di un occidente rientrato in sé e capace di pensare a un futuro liberato sia da fanatismi fondamentalisti, che da stereotipi libertari, deve essere quello di riconciliarsi con l’ordine di tutti i valori, a partire da quelli religiosi, e di proteggerli serenamente e fermamente: il che non ha ovviamente nulla a che vedere con pratiche censorie o illibertarie, ma col dovere supremo di rispetto che si deve avere non solo verso le persone, ma prima ancora verso il loro sistema di credenze. È solo a questa condizione che l’occidente potrà continuare, come è dovere suo e di tutti, a combattere il terrorismo a testa alta, comunque e dovunque esso si manifesti.