La lettura cristologica e tipologica dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento (da Manlio Simonetti)
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Riprendiamo alcuni brani da M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Studia Ephemeridis Augustinianum 23, Augustinianum, Roma, 1985, pp. 19-25. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2015)
N.B. de Gli scritti Presentiamo on-line questo prezioso testo di Manlio Simonetti, consapevoli, però, che egli manca di sottolineare e sviluppare adeguatamente come la rilettura cristologica dell’Antico Testamento sia in realtà opera già dello stesso Gesù.
Il VT negli scrittori d'età apostolica[1] e subapostolica
I primi cristiani sono giudei di razza e di educazione: essi perciò non hanno dubbi e remore ad accettare il VT come rivelazione di Dio a quell'Israele di cui essi hanno coscienza di costituire la parte eletta, e lo interpretano secondo i modi usuali nel giudaismo del loro tempo per adattarlo alle loro nuove esigenze. Nel far questo non si limitano ad infiorare il loro discorso di citazioni alla lettera o a senso tratte dal VT, anche variamente combinate; ma adottano anche procedimenti più complessi di tipo midrashico, nel senso che, nella predicazione nella liturgia nella polemica, ecc., presentano concetti nuovi, significativi della nuova realtà del cristianesimo nascente, per mezzo di combinazioni di passi veterotestamentari richiamantisi l'un l'altro: il Magnificat (Lc 1,46-55) è un intreccio di citazioni e richiami veterotestamentari combinati insieme per esprimere una nuova realtà.[2]
A volte il procedimento è più complesso. A Rom 9,6-29 Paolo presenta la distinzione d'Israele secondo la carne e Israele secondo lo spirito e il mistero dell'elezione divina come un midrash,su Gen 21,12 «Da Isacco prenderà nome la tua discendenza (sperma)», appoggiato su Gen 18,10 «Tornerò in quel tempo e Sara avrà un figlio»; il concetto viene sviluppato attraverso una trama di passi relativi all'imperscrutabile volontà con cui Dio attua la sua chiamata (Gen 25,23; Mal 1,2-3; Ex 33,19, ecc.), e il passo che chiude il midrash, Is 1,9, richiama il passo iniziale con la parola-chiave «discendenza» (sperma).
Altre volte il procedimento è sviluppato in forma di questione: a Mt 15,1-9 i farisei propongono a Gesù una questione sul rispetto delle tradizioni; la risposta di Gesù si appoggia su Ex 20,12 e 21,17, relativi al rispetto dovuto da ognuno al padre e alla madre, e il ragionamento si conclude con la citazione di Is 29,13 «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me».[3]
Anche quel particolare procedimento di interpretazione attualizzante del VT che viene denominato pesher è rappresentato nei libri del Nuovo Testamento (= NT): lo mette in opera Cristo stesso quando (Lc 4,16-21) nella sinagoga di Nazareth legge Is 61,1-2 «Lo Spirito del Signore è su di me, ecc.» e lo applica a se stesso: «Oggi si è realizzata questa scrittura che avete udito con le vostre orecchie». È di questo tipo anche il procedimento per cui Giovanni esempla la bestia che viene dal mare di Apoc 13 sulle quattro bestie della visione di Dan 7, ma ne attualizza il significato, trasferendone il valore simbolico dagli antichi imperi all'impero romano.
Con gli esempi che abbiamo proposto il discorso non resta limitato agli aspetti formali della incipiente interpretazione cristiana del VT ma investe anche i contenuti di tale interpretazione; e qui il collegamento della chiesa primitiva con la tradizione giudaica espressa dal VT entra in tensione con la novità del messaggio di salvezza che proprio tramite il VT i cristiani cercano di avvalorare. Essi infatti ravvisano in Gesù il messia promesso e annunciato dai profeti e di conseguenza interpretano in riferimento a lui tanti passi veterotestamentari che in quel tempo erano comunemente intesi come profezie messianiche.[4] Ma la maggioranza dei giudei non accetta il messaggio e rifiuta di identificare l'atteso messia col Cristo crocifisso; e le polemiche che nascono da questo contrasto si basano proprio sulle profezie messianiche e la loro controversa applicazione ai fatti della vita di Gesù. È ovvio che tutta la catechesi primitiva ebbe a risentire profondamente di queste polemiche, sì che gli scritti del NT presentano larga traccia delle discussioni che allora si incentrarono sull'interpretazione dei passi messianici del VT: Mt 22,41-46 e 21,42-43 presentano Cristo stesso che riferisce a sé Ps 109,1 «Ha detto il Signore al mio signore: ‘Siedi alla mia destra, ecc.’» e Ps 117,22-23 «La pietra che gli edificatori hanno rigettato, essa è diventata testata d'angolo, ecc.» e difende il riferimento del primo dei due passi con sottile dialettica. E i vari discorsi di Pietro presentati nei primi cc. degli Atti degli apostoli fanno largo spazio alla citazione di passi messianici riferiti a Cristo.
La messianicità di molti passi del VT era riconosciuta sia dai cristiani sia dai giudei, anche se questi ultimi ne rifiutavano l'applicazione a Cristo. Ma la novità di Cristo, messia sofferente e morto in croce, là dove i giudei attendevano il messia trionfatore sui nemici d'Israele, spinse i primi cristiani a interpretare in senso cristologico anche altri passi del VT, oltre quelli comunemente considerati messianici: è il caso, p.es., di Ps 117,22-23 riportato qui sopra, e soprattutto dei vari passi del Deutero-Isaia che presentano il Servo sofferente di Jahvè: basterà a tal proposito ricordare l'incontro di Filippo con l'etiope in Act 8,26 sgg., incentrato appunto sulla citazione e interpretazione messianica e cristologica di Is 53,7-8.27.[5]
In questo contesto didascalico e polemico collochiamo le prime raccolte cristiane di Testimonia.I manoscritti del Mar Morto ci hanno fatto conoscere che già i giudei avevano l'uso di fare florilegi di passi veterotestamentari. I cristiani adottarono subito tale procedimento finalizzandolo proprio a confermare la specificità del loro credo rispetto alla fede comune dei giudei. Raccolte superstiti di questo genere sono molto posteriori all'età apostolica (Testimonia ad Quirinum di Cipriano); ma la ricorrenza degli stessi passi del VT, a volte nelle stesse combinazioni e con le stesse alterazioni, in più punti dei libri del NT è prova che si cominciò per tempo a mettere insieme raccolte di questo genere nella comunità primitiva. La frammentarietà della documentazione superstite non permette di ricostruirle con esattezza e completezza; comunque è possibile ripartire in più gruppi i passi del VT utilizzati in questo modo: testi apocalittici ed escatologici; testi relativi alla comunità vista come il nuovo Israele; testi relativi al Servo di Jahvè e al Giusto sofferente.[6]
D'altra parte, l'esigenza di approfondire il significato della figura e dell'opera di Cristo in rapporto con la tradizione giudaica e l'attesa messianica spinse alcuni cristiani ad interessarsi al VT molto al di là dei limiti rappresentati da tali raccolte di passi: nel discorso di Stefano riportato in Act 7,2 sgg. la presentazione del nuovo messaggio viene collegata ad un ampio ripensamento della storia d'Israele, dai patriarchi fino a Salomone, vista in chiave di continua prevaricazione del popolo che ha sempre disatteso la volontà di Dio e misconosciuto la sua benevolenza. Anche Paolo, ad Antiochia di Pisidia (Act 13,17 sgg.), inserisce il messaggio in un ampio quadro storico, questa volta teso a dimostrare che in Cristo ha avuto il suo coronamento tutta la storia d'Israele.
In altra direzione la riflessione su Cristo per tempo si convinse che la sua figura non era interpretabile come quella di un semplice uomo, anche se particolarmente privilegiato da Dio, ma imponeva di attribuirle, a fianco della dimensione umana, anche una divina. Anche per suffragare questa convinzione si fece ricorso al VT: Hebr 1 propone e attribuisce a Cristo una selezione di passi in cui il Messia, figlio di Dio, viene presentato come un essere superiore agli angeli: Ps 2,7; Deut 32,43; Ps 103,4; 44,7-8, ecc. E quando Giovanni, all'inizio del IV Vangelo, presenta Cristo come Logos di Dio e Dio egli stesso, sviluppa il concetto attribuendogli le note distintive della Sapienza veterotestamentaria.
Ma se la convinzione che Cristo fosse il Messia e che perciò in lui si fossero realizzate le profezie messianiche del VT era di tutti i cristiani, quelli di impostazione più rigidamente giudaizzante inserivano la nuova fede in una trama religiosa e culturale di stretta osservanza giudaica, nella quale la vecchia Legge conservava tutto il suo valore: è questo il senso delle parole che Matteo (5,17 sgg.) mette in bocca a Gesù, facendogli riaffermare solennemente validità e intangibilità della Legge. Questo passo appare polemico nei confronti di altri ambienti della cristianità che si sentivano meno vincolati all'eredità giudaica e alla letterale osservanza delle norme della Legge, con più piena aderenza allo spirito del messaggio predicato da Cristo: questa tendenza fu rappresentata, dopo Stefano, soprattutto da Paolo, e qui si ebbero, in materia d'interpretazione del VT, le novità che maggiormente avrebbero influenzato tutto lo svolgimento dell'esegesi patristica.
Paolo, che considera la Scrittura alla luce di Cristo, vi vede celato il mistero (Rom 16,25; 1Cor 2,1, ecc.) che non la lettera che uccide ma solo lo spirito vivificante può rivelare (2Cor 3,6). Il velo, disteso sulla Legge e il Vecchio Testamento, che ha offuscato e continua ancora ad offuscare le menti dei giudei, impedendo loro una retta comprensione, è stato tolto da Cristo (2Cor 3,13sgg.).[7]
Letta alla luce di questa convinzione, la vecchia Legge assume una dimensione nuova, spirituale: la vera circoncisione è quella del cuore, propria di chi è giudeo non nell'apparenza esteriore ma nella segreta realtà (Rom 2,28 sg.; cfr. Act 7,51). La Legge è stata scritta per noi, dice Paolo a proposito di Deut 25,4 «Non mettere la museruola al bue che trebbia», che egli interpreta nel senso che chi lavora per la diffusione del Vangelo ha diritto a vivere del suo ministero (1Cor 9,9 sgg.).
Ci troviamo di fronte ad un processo di attualizzazione dei vecchi testi che va molto al di là di quanto non fosse avvenuto a Qumran. Né si ferma ai soli precetti legali questo procedimento fondato sulla comprensione spirituale della Legge. Con questo termine infatti i giudei intendevano il complesso dei cinque libri mosaici, comprendendovi anche le parti narrative; e anche in esse Paolo scorge il mistero di Cristo, nel senso che quegli antichi fatti hanno prefigurato i fatti di Cristo e della chiesa, e solo questi nuovi fatti forniscono la chiave per intendere il senso profondo dei fatti antichi.
Considerati sotto questa nuova luce, Adamo si presenta come prefigurazione (typos)di Cristo,[8] e i figli di Agar e Sara come prefigurazioni dei giudei e dei cristiani (Rom 5,14; Gal 4,22sgg.); il passaggio degli israeliti attraverso il Mar Rosso è simbolo del battesimo, la manna e l'acqua sgorgata miracolosamente dalla roccia sono prefigurazioni dell'eucaristia (1Cor 10,1 sgg.). Nel IV Vangelo il serpente di bronzo di Num 21,9 e l'agnello pasquale sono prefigurazioni della crocifissione e morte di Cristo (Io 3,14; 19,36). In Hebr 7,1 sg. Melchisedec e figura di Cristo, e a 9,13 sg. il sacrificio del Tempio prefigura il sacrificio di Cristo. A 10,1 è detto in modo comprensivo che la Legge contiene l'ombra dei beni futuri, cioè delle realtà di Cristo e della chiesa. In 1Pt 3,20-21 l'acqua del diluvio è simbolo dell'acqua del battesimo.
Come si vede, il procedimento ermeneutico col quale Paolo e altri autori del NT interpretano spiritualmente, cioè cristologicamente, i fatti di Genesi e Esodo non è riducibile al procedimento di attualizzazione per cui venivano riferite a Cristo le profezie messianiche veterotestamentarie: infatti in esse il passo del VT assume significato solo in senso cristologico e la lettura in tal senso è immediata e a un solo livello;[9] invece vedere nella manna il typos dell'eucaristia non distrugge la storicità del fatto antico ma vi sovrappone un nuovo spirituale e più profondo significato. In tal senso si sovrappongono qui due livelli di lettura, uno relativo al fatto storico veterotestamentario, l'altro indicativo del fatto nuovo riguardante la realtà di Cristo e della chiesa, di cui il fatto antico ha rappresentato la prefigurazione, l'anticipazione profetica e simbolica. E se già il procedimento per cui Paolo attualizzava il significato di Deut 25,4 si può definire genericamente allegorico, ben più a ragione va definito tale il procedimento per cui si sovrappone un secondo livello di lettura al livello primo e letterale.
Il termine con cui Paolo definisce il rapporto fra i due livelli di lettura e i loro significati è typos (= forma, figura, quindi simbolo, prefigurazione: Rom 5,14; 1Cor 10,6.11), un termine che non sembra aver avuto accezione in senso specificamente esegetico né fra i greci né fra i giudei ellenizzati. Ma quando a Gal 4,24 egli presenta i figli di Agar e Sara come prefigurazioni di giudei e cristiani, dice: «Queste cose sono state dette in allegoria (allegoroúmena)»; e ciò dimostra come egli fosse consapevole che il procedimento ermeneutico da lui applicato all'interpretazione dei fatti del VT era in effetti allegorizzante.[10] Questo modo d'interpretare il VT era destinato a grandissima fortuna e avrebbe costituito l'autentica lettura cristiana delle Scritture ebraiche. Esso trasse motivazione - è bene ripeterlo - dal fermo convincimento che la vecchia Legge fosse stata sempre finalizzata al grande evento di Cristo e che perciò disvelasse il suo autentico significato soltanto a chi la sapesse interpretare in chiave cristologica.
Note al testo
[1] Dato che oggetto specifico del nostro discorso è lo studio dell'esegesi patristica, questo cenno sull'utilizzazione del VT nel Nuovo Testamento (= NT) è puramente introduttorio e perciò limitato a quanto interessa in modo diretto il nostro oggetto. Sull'argomento cfr. E. E. Ellis, Paul's Use of the Old Testament,Edinburgh 1957; Bonsirven, op. cit.,p. 266 sgg.; P. Grech-G. Segalla, Metodologia per uno studio della teologia del nuovo Testamento, Casale 1978, pp. 47-61, dove è riportata e discussa ampia bibliografia.
[2] A volte la lettura che i primi cristiani facevano del VT era mediata attraverso i targumin,e questo filtro non ha mancato di esercitare qualche influenza su tale lettura. Su questo cfr. McNamara, op. cit.,p. 109 sgg.
[3] Deduciamo questi esempi da E.E. Ellis, Prophecy and Hermeneutic,Tübingen 1978, p. 155 sgg.
[4] Precisiamo in quel tempo,perché successivamente, proprio per contrastare l'applicazione cristologica di tante profezie messianiche, i giudei cominciarono a ridurre l'entità di queste profezie, asserendo che molte di esse si erano già realizzate nel corso della storia d'Israele. P.es., al tempo di Origene essi negavano il carattere messianico di Gen 49,10: cit. Princ 4,1,3; cfr. anche c. III, n. 211.
[5] Si veda anche la parabola dei vignaioli perfidi (Mt 21,33 sgg.), che fonda il carattere sofferente del Messia sulla connessione midrashica di Is 5,1 sg. e Ps 117,22-23.
[6] Per dettagli ed esemplificazione cfr. Ch. H. Dodd, Secondo le Scritture,Brescia 1972, p. 63 sgg.; J. Daniélou, Études d’exégèse judéo-chrétienne (Les Testimonia), Paris 1966.
[7] Sull'influsso esercitato dalla letteratura targumica sul midrash di Paolo relativo al velo di Mosè cfr. McNamara, op. cit.,p. 131 sgg.
[8] Propriamente la prefigurazione è antitipica, nel senso che sia Adamo che Cristo ricapitolano in sé tutta l'umanità, ma Adamo nel peccato e Cristo nella salvezza.
[9] Questo unico e immediato livello di lettura si ha sia che la profezia venga applicata a Cristo in senso letterale sia che l'applicazione sia fatta sulla base di un testo all'origine simbolico. P.es., sia il parto della vergine di Is 7,14 sia il virgulto di Is 11,1 per i cristiani hanno solo significazione cristologica, ma il primo passo indica Cristo secondo il senso letterale mentre il secondo lo indica in forma simbolica, cioè (secondo gli antichi) allegorica.
[10] Il fatto che Paolo parli solo eccezionalmente di allegoria mentre di solito si serve di typos,estraneo alla terminologia allegorizzante dei greci e giudeoellenisti, per indicare le prefigurazioni veterotestamentarie di Cristo e della chiesa, fa pensare che egli non abbia avuto simpatia per allegoría e derivati, quasi che abbia voluto evitare, come invece aveva fatto Filone, di conguagliare terminologicamente l’allegorizzazione dei miti pagani coll’interpretazione cristologica ed ecclesiale dei fatti del VT; e in effetti, mentre l’interpretazione allegorica dei miti pagani ne distrugge il senso letterale, egli – come Filone – sovrappone un nuovo significato al senso letterale del racconto biblico, senza eliminarlo. Vedremo che altri scrittori cristiani manifesteranno la stessa diffidenza per allegoría, ma sia essi sia Paolo in sostanza sono convinti che il typos è una forma di allegoria. Molti studiosi moderni continuano, per così dire, questo atteggiamento di diffidenza arrivando a negare che si possa assimilare il procedimento paolino, denominato tipologia (gli antichi chiamano questo tipo d’interpretazione spirituale o mistico), con l’allegoria pagana, in quanto la tipologia cristiana è radicata nella storia sia del VT (typos) sia nel NT (realizzazione del typos), mentre l’allegoria pagana, come quella filoniana, ne prescinde del tutto. Ma gli antichi esegeti, mentre designano con nomi diversi vari tipi d’interpretazione allegorica (spirituale, morale), adoperano però allegoría per indicare in blocco ogni tipo d’interpretazione non letterale (anche il semplice processo di attualizzazione di Deut 25,4 in 1Cor 9,9 sgg. è parlare allegorico). Preferisco perciò considerare la tipologia solo come uno dei vari modi di parlare allegorico (altri modi sono l’allegoria cosmologica, antropologica, ecc.). Infatti ogni interpretazione che è tipologica quanto al contenuto (in quanto ravvisa in un dato del VT il typos di un dato del NT), è allegorica quanto al procedimento ermeneutico (perché dà a quel dato un significato che non è quello letterale). Per un sommario orientamento cfr. H. de Lubac, Typologie et allegorisme, «Recherches de science religieuse», 34, 1947, pp. 180-226; H. Crouzel, La distinction de la «typologie» et de l’«allegorie», «Bullettin de littérature ecclésiastiche», 65, 1964, pp. 161-174; Pépin, Mythe et allegorie, p. 247 sgg.