Dalla servitù al servizio. Chi è il vero sovrano d’Israele?, di Jean Louis Ska [L’Esodo]
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Riprendiamo dal sito di Rinascita cristiana, sezione di Genova, la trascrizione di una relazione di padre Jean Louis Ska tenuta nell’anno 2004 (il sito non fornisce ulteriori dettagli di data). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (1/3/2015)
Eminenza, cari amici: grazie, prima di tutto ai gruppi di Genova, che mi permettono di ritrovare la città per la terza volta, e di poter parlare, anche davanti a Sua Eminenza, di un testo che mi è molto caro e che non soltanto è caro a me ma anche a tutto il popolo ebraico e a tutto il popolo cristiano: il Libro dell’Esodo.
Vorrei adesso brevemente in questa nostra conversazione dire quale è il perno di questo racconto dell’Esodo e perché è così fondamentale. Partirei da un’idea molto semplice, che non è solo un’idea ma un’esperienza. Ogni comunità umana, ogni Nazione, ogni collettività, ogni movimento parte da un’esperienza fondante: nasce e poi si sviluppa, però l’esperienza - come sappiamo - è unica. L’ha fatta un certo numero di persone ed è difficile trasmetterla. I genitori vi diranno che non riescono a trasmettere le loro esperienze ai figli, è quello che esperimentano i genitori di ogni secolo, in ogni età, in ogni cultura: è difficile trasmettere un’esperienza. E come si trasmette l’esperienza nella Bibbia? Si trasmette con un racconto. E quindi l’esperienza fondante di ogni nazione, di ogni comunità umana, diventa un racconto fondante.
Apriamo qui, come punto di partenza, o appiglio, un breve testo del Libro dell’Esodo, capitolo X: si trova nel famoso racconto delle piaghe d’Egitto, all’inizio del capitolo 10. Il linguaggio è il linguaggio biblico, problematico, come sempre. Lo cito e poi dirò qual’è il punto essenziale di questa citazione.
Il Signore disse a Mosè: “Và dal faraone, perché sono io che ho appesantito il suo cuore e il cuore dei suoi servi, perché io possa compiere questi miei segni in mezzo a lui, e tu possa raccontare a tuo figlio e al figlio di tuo figlio come io ho preso in giro l’Egitto con i miei segni che ho fatto in mezzo a loro e sappiate che Io sono il Signore”.
Lasciamo perdere qui tutti i problemi che sono legati alla tematica dell’indurimento del cuore, al fatto che qui sembra che il Signore abbia come unico scopo quello di prendere in giro l’Egitto. Lo scopo fondamentale dei segni, dei prodigi - che sono le piaghe d’Egitto - in questo passo è di creare un racconto. Non tanto di dimostrare la potenza di Dio in Egitto, di sconfiggere l’Egitto, di castigarlo, ma di creare un racconto: “affinché tu possa raccontare a tuo figlio e al figlio di tuo figlio come io ho preso in giro l’Egitto”. L’azione di Dio ha come primo scopo quello di creare un racconto, che si trasmetterà e tramanderà di generazione in generazione. Questo racconto è un racconto dell’Esodo: le piaghe d’Egitto, l’uscita dall’Egitto e poi la permanenza nel deserto e così via… Si crea un racconto, e il racconto passa di generazione in generazione e, molto probabilmente - lo vedremo questo - si arricchisce.
Il vero racconto è quello che si può trasmettere, che si può raccontare di nuovo, trasformare, arricchire, perché corrisponde all’esperienza di ogni generazione. Ogni generazione può rileggere la propria esperienza in questo racconto, e può chiarire la propria esperienza, orientarsi e nutrire la propria speranza grazie a questo racconto. E quando il racconto non è più capace di corrispondere all’esperienza di una nuova generazione, non riesce a nutrire la speranza, non riesce più a catalizzare le energie di una generazione, questo racconto muore e se ne deve creare un altro.
Quello che possiamo constatare nella Bibbia è che il racconto dell’Esodo è stato tramandato di generazione in generazione, è stato reinterpretato, riletto in diverse situazioni, ed ha nutrito la speranza, la fede di tante generazioni, non soltanto del popolo d’Israele, ma è passato anche nel mondo cristiano, ed ha continuato a nutrire la speranza e la fede del popolo cristiano fino ad oggi.
Questo perché contiene un’esperienza umana fondamentale, la esprime in un racconto che si può capire, che si può interpretare e di cui si può vivere… si può anche vivere di questo racconto.
È essenziale capire che un racconto di questo tipo è un racconto fondante: riprende un certo elemento essenziale dell’esperienza umana comune e lo esprime in categorie (che sono anche universali); però, trasmette qualche cosa anche di unico, lo esprime in maniera unica.
Sono tanti i racconti di liberazione, in tutto il mondo, in tutte le culture, ma quello biblico ha qualche cosa di unico: chiunque lo legge lo può percepire, se ne può anche appropriare, può farlo suo per trasformare la propria vita, la propria esistenza. Sarà compito della comunità riprendere e rileggere questo racconto e appropriarsene, farlo suo per nutrire la propria vita, la propria esperienza. È quello l’essenziale, la caratteristica, la particolarità di ogni racconto fondante.
Altro elemento essenziale del racconto fondante - per corrispondere all’esperienza non soltanto di coloro che hanno iniziato un movimento o fondato una nazione, ma anche a quella delle generazioni che seguono - è che l’esperienza deve essere abbastanza larga, deve integrare elementi vari. E vedremo che l’esperienza raccontata nel Libro dell’Esodo è stata capace di integrare diversi elementi dell’esperienza di Israele, e così è sopravvissuto a tante esperienze anche brutte come quelle dell’esilio. Quindi un racconto, come tale, deve essere anche flessibile, aperto direi, per poter assorbire nuove esperienze, trasformarle, e farne elementi integranti dell’esperienza stessa.
Primo elemento (parliamo di due o tre elementi essenziali nella storia d’Israele, nell’esperienza dell’Esodo, che mi paiono essenziali così a prima vista e che esprimo in modo abbastanza generico) è l’esperienza di liberazione. Israele adesso nel libro dell’Esodo vive nella condizione di schiavitù. Dio libera Israele. Elemento assolutamente essenziale di questa esperienza è che Israele non è stato liberato né da un capo carismatico né da un grande generale, un grande capo militare, né da un gruppo di pressione: attribuisce la sua liberazione a Dio.
Quindi, è un’esperienza di tutto il popolo, e il popolo deve la sua liberazione alla Grazia di Dio. Ci sono stati strumenti, certamente, c’è stato Mosè - come vedremo - c’è stato anche, accanto a Mosè, Aronne, ci sarà anche Miriam (capitolo 15): questi sono altri personaggi, ma non si presentano in persona davanti al popolo come coloro che hanno agito a nome proprio, ma sono strumenti di Dio, inviati da Dio per liberare il popolo, sono al servizio del popolo stesso.
E il popolo deve ringraziare Dio, che li ha mandati. Come dirà, per esempio, il profeta Michea al capitolo 6: “Dio dice: vi ho mandato Mosè, Aronne e Miriam per salvarvi”. Sono strumenti mandati da Dio. E il popolo li percepisce come tali. Questo è un elemento essenziale: la liberazione è opera di Dio, e il popolo deve la sua riconoscenza soltanto a Dio, non a personaggi umani.
Altro elemento è che il popolo d’Israele liberato da Dio, appena uscito dall’Egitto, entra nel deserto ed entra in alleanza con Dio. Dio offre ad Israele di entrare liberamente nell’alleanza: il popolo può liberamente accettare Dio come suo Dio, ed entrare nell’alleanza. Dio non impone l’alleanza, perché ha liberato il popolo: è Dio di libertà, è fedele a se stesso, quindi non impone, propone l’alleanza, e il popolo può liberamente rispondere a questa proposta di Dio.
Però il popolo, come sappiamo, non rimane a lungo fedele a questa alleanza e arriviamo al famoso episodio del vitello d’oro. Il popolo non è fedele e rinnega il suo Dio, lo tradisce, e Dio dice: questo popolo non è degno di essere mio popolo, e quindi lo sopprimo, merita la morte. Io lo faccio vivere, per pura Grazia gli offro la libertà, gli do l’esistenza di popolo libero. Questo popolo non merita più di esistere, lo vuole sopprimere.
Mosè intercede e riesce a placare l’ira di Dio, che perdona. La storia d’Israele è una storia che integra la colpa e il perdono: cioè, l’esperienza della debolezza umana è una delle forze del racconto biblico, è proprio quella di integrare nella sua trama la debolezza, l’imperfezione umana e la risposta divina a questa imperfezione.
Quindi non è un racconto soltanto di eroi, non è un’epopea di perfetti, è un’epopea anche di deboli, di peccatori (se devo utilizzare un vocabolario tradizionale della Bibbia e del nostro mondo cristiano). Già nel racconto c’è la colpa, la purificazione e il perdono, e Dio - che ha concluso un’alleanza col proprio popolo - ha visto che il popolo, infedele all’alleanza, la rompe.
Dio ristabilisce allora un’alleanza fondata sul perdono, e quando si rivela a Mosè (il famoso testo dei capitoli 33 e 34 del Libro dell’Esodo) rivela il suo nome per la seconda volta (l’ha rivelato la prima volta nel capitolo 3 del Libro dell’Esodo), all’inizio del capitolo 34 si rivela come il Dio di Misericordia e di Perdono. La vita, l’esistenza d’Israele è fondata sull’esperienza del perdono, e il Dio che accompagna a partire dal Sinai il popolo d’Israele attraverso il deserto è un Dio di Perdono.
Abbiamo due elementi essenziali: il primo dell’esperienza fondante d’Israele è un’esperienza di liberazione, il secondo elemento è che è esperienza di Misericordia e di Perdono. Trovare il fondamento non è un elemento ulteriore, fa parte dell’esperienza essenziale. Israele non sarebbe Israele, sarebbe morto nel deserto se Dio non l’avesse perdonato. Israele esiste e c’è ancora oggi perché Dio è Dio del Perdono: il Dio d’Israele è Dio del Perdono.
Terzo elemento: il Dio d’Israele che si rivela al suo popolo nel deserto viene ad abitare in mezzo al popolo, e viene ad abitare in una tenda.
Faccio un passo indietro per dire che il popolo d’Israele, come tutti i popoli della Terra, mira ad un ideale. E l’ideale d’Israele, come di tutti i popoli di tutti i tempi, è la stabilità cioè vivere in pace nel proprio territorio, nel proprio Paese, liberato dai nemici: la prosperità nella pace e nella tranquillità.
Questo ideale lo troviamo espresso in tanti Salmi, per esempio, o altri testi anche profetici, persino nei Libri del Pentateuco, ma si trova soprattutto nei Salmi, perché nei Salmi si trova l’espressione della mentalità comune. E tanti Salmi dicono: una cosa voglio, abitare nella Casa del Signore tutti i giorni della mia vita. Abitare nel proprio territorio, in pace, con il proprio re. E l’ideale dell’ideale è vivere nella capitale, nel Tempio. Perché lì è il centro del centro. Uno vive bene nel proprio paese, fra i membri della propria famiglia, della propria Nazione, e l’ideale è vivere al centro. Cioè nel Tempio. E questo si esprime in diversi Salmi, come per esempio il Salmo 26, i Salmi 41-42 e tanti altri.
Il problema - che sorge già, per esempio, nel capitolo VII del Libro di Geremia - è che è tempo di pericoli e di invasioni ed Israele dice: la mia sicurezza viene dal mio Dio, dal mio Tempio. Nel centro d’Israele c’è la Città Santa, nella Città Santa c’è il Tempio del nostro Dio: il nostro Dio è potente e ci libererà da tutti i nemici. Perché questa è la sua funzione, di proteggerci e di liberarci.
E Geremia dice: “Sì, dite: il Tempio del Signore, il Tempio del Signore, il Tempio del Signore, ma non osservate la Sua legge, siete infedeli, commettete tutti i peccati possibili e immaginabili e pensate che questa sicurezza vi è promessa da Dio ed è incondizionata. Ma non è senza condizioni”.
Israele ha vissuto nell’esilio un’esperienza traumatica: il Tempio è stato distrutto. Dio, che doveva proteggere la Sua Città Santa, il Suo popolo e il Suo Tempio – che era il Suo palazzo, la Sua residenza - non l’ha fatto perché la Sua città è stata conquistata, distrutta, saccheggiata, e anche il Tempio. Dove è questo Dio? Perché non ci ha protetti?
A questa domanda come risponde la Bibbia? La Bibbia, i profeti soprattutto, Geremia ed Ezechiele, hanno risposto: “E’ Dio che ha condotto a Gerusalemme l’esercito babilonese per castigarvi di tutti i vostri peccati, soprattutto la violenza che ha regnato in tutta la vostra Nazione. Avete versato il sangue e quindi avete meritato il castigo di Dio. Il vostro Dio non vi ha protetti perché non meritavate la protezione, avete meritato il contrario. Dio si è adirato contro di voi, e pesa su voi la Sua collera.”
Dov’è Dio allora? Geremia e poi Ezechiele hanno dimostrato che Dio non vive nel Tempio. Già Isaia – la visione di Isaia nel Tempio, capitolo 6 - anticipa le intuizioni di Geremia prima ed Ezechiele dopo. Il Tempio deve essere la residenza della divinità, così in tutto il Medio Oriente antico e in tutta la antichità (anche nella cultura greca e in quella romana), e perciò nel Tempio c’è una cella e dentro questa la statua della divinità. E’ la sua residenza, il suo palazzo. Nel Tempio d’Israele, come sappiamo, non c’era nessuna immagine. Era la residenza del Dio d’Israele.
Quando Isaia va nel tempio ed ha la sua visione, dice: “l’orlo del mantello di Dio riempiva il tempio”. Dio è molto più grande di questo Tempio, e il Tempio non può contenere Dio: basta l’orlo del Suo mantello per riempire tutta questa struttura architettonica. Dio è molto più grande. E perciò il famoso canto dei Serafini dice: “la Sua Gloria riempie la Terra”. Non basta la Terra per contenere la Gloria di Dio. Immaginate un Dio molto più grande di Quello che avete in mente normalmente.
Ezechiele fa viaggiare Dio, inventa una grossa macchina (è il primo regista dell’antichità, il primo meccanico della Bibbia), con ruote, per trasportare la Gloria di Dio, così la Gloria di Dio non è legata ad un posto, ad un luogo o ad una città, un Tempio. Quindi, quando l’esercito babilonese arriva, prima del saccheggio del Tempio, la Gloria di Dio lascia il Tempio: Ezechiele la vede andare sul monte degli Ulivi.
E poi una parte del popolo è condotta in esilio. Ezechiele, all’inizio del suo libro, vede la Gloria di Dio apparirgli vicino a Babilonia. Dio può venire a ritrovare gli esuli in Mesopotamia, si sposta: è un Dio in movimento, è capace di muoversi. Per noi tutto questo è semplice, perché lo abbiamo imparato nel nostro catechismo: lo sappiamo che Dio è dappertutto, ma per il popolo d’Israele non era scontato. Il loro Dio regnava in Israele. Nel paese vicino regnava un altro Dio, o altri dei. Per Israele il loro Dio regnava solo in Israele. Ma se Ezechiele vede Dio che va altrove, allora è un Dio diverso.
La terza esperienza è, quindi, una nuova idea di Dio. Dio d’Israele, che vive nel Tempio, una presenza permanente nel Tempio. Ma il Tempio è stato distrutto ed Israele si trova davanti ad una scelta: o il suo Dio sparisce perché non c’è più il Tempio, o trova una nuova idea di Dio. Grazie ad Isaia, Geremia e poi Ezechiele, Israele si accorge che il suo Dio non è legato ad un posto, un luogo, una città, un territorio: può spostarsi. Così il Dio d’Israele può ritrovare il Suo popolo in esilio, grazie a questa visione di Ezechiele (teologia di Ezechiele).
Il racconto dell’esodo che leggiamo, soprattutto l’ultima parte del Libro dell’Esodo, è stata scritta dopo Ezechiele (grazie però alle sue intuizioni). Allora quello che si dice di Mosè è stato raccontato molto dopo l’esilio, e il Mosè che troviamo nel Libro dell’Esodo è stato descritto dopo Ezechiele. Questo conferma che un racconto fondante vive quando può, di generazione in generazione, arricchirsi di nuove esperienze. Il racconto dell’esodo, che era il racconto del passaggio dall’Egitto verso il deserto - un racconto che descriveva un cammino - diventa esperienza di un cammino con Dio: un Dio che cammina con il Suo popolo, si arricchisce questa esperienza, integra altre esperienze e infine genera perfino l’esperienza dell’esilio. Era un racconto aperto, e può continuare ad arricchirsi.
Se prendiamo l’esperienza posteriore, quella del cosiddetto “secondo Isaia”, la parte di Isaia che leggiamo durante l’Avvento, i capitoli dal 40 al 55, qui si vede Dio che torna dalla Mesopotamia in Israele, a Gerusalemme. Non è il popolo che torna, è Dio che torna e il popolo torna con Dio: le due affermazioni si equivalgono, il popolo è in cammino verso la città Santa di Gerusalemme, che ricostruirà: dove il popolo cammina è Dio che cammina.
Queste diverse esperienze sono state rilette ed integrate all’interno dell’esperienza dell’Esodo, perché Dio è presente nel deserto: c’è la nube che accompagna Israele, Dio che appare sul monte Sinai, poi Dio che castiga il popolo che si ribella, Dio che nutre il popolo nel deserto. Questa esperienza, che per noi è scontata, per Israele non è affatto scontata perché Dio vive nella propria terra, quindi Israele, normalmente, dovrebbe trovare il suo Dio quando arriva nella terra e non prima.
Il deserto è il regno della morte, non è il regno di Dio. Per noi, che viviamo della spiritualità di grandi spirituali, di padri del deserto, il deserto è luogo d’incontro con Dio. Nel mondo della Bibbia il deserto è luogo d’incontro con la morte, perché nessuno può sopravvivere nel deserto: se Israele sopravvive, è un miracolo, nel senso letterario della parola, una meraviglia, un prodigio portante, perché può sopravvivere soltanto se Dio interviene ogni giorno, e quello è il significato del miracolo della manna.
Quello che Israele rilegge nella propria storia è il fatto che Dio fosse presente in una esperienza di deserto, cioè in una esperienza di morte. Quella propria e vera esperienza di morte nella storia d’Israele è l’esperienza dei diversi esili: esperienza di morte per un popolo che perde la propria identità, perde l’autonomia. E in questa esperienza, grazie ad Isaia, Geremia, Ezechiele ed altri profeti, Israele scopre la presenza di Dio, rinasce la speranza in questa esperienza di morte, sparisce quello che era secondario, provvisorio, e rimane l’essenziale: la presenza di Dio.
Dio è presente nel deserto, quindi non soltanto quando c’è una terra, una monarchia, un tempio, quando viviamo nella pace. Anche nell’esilio, anche nella sofferenza, anche quando siamo lontani dalla nostra terra, Dio è presente, ed è presente in mezzo a noi quando camminiamo. Perciò, il Dio d’Israele che accompagna il suo popolo nel deserto vive in un tenda, non in un tempio, e si sposta con il popolo di tappa in tappa, lo accompagna e lo guida di passo in passo nel deserto.
Il popolo d’Israele fa l’esperienza di Dio che vive non soltanto nella stabilità, ma vive anche nel provvisorio, nell’effimero, nelle condizioni precarie del viaggio che sarebbe, per Israele come per noi, una parabola dell’esistenza. Dio non è presente soltanto al termine del viaggio, al termine della vita, nel mondo dell’eternità e del Cielo: è presente con noi e cammina con noi, e il luogo della presenza di Dio è il camminare, lo ritroviamo lì, già con noi prima di arrivare alla meta, alla perfezione, ed è presente con noi.
Quella verità che si trova in Giovanni, capitolo I versetto 14, dove dice: “e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, ha piantato la Sua tenda in mezzo a noi. Il Verbo incarnato, Gesù Cristo, è la presenza di Dio in cammino con noi sulle strade di questo mondo. Dio è già presente con tutta la Sua pienezza, il Verbo di Dio è presente in mezzo a noi, nella carne, nell’imperfezione. Il Verbo si è fatto carne: si è fatto storia e quindi si è fatto imperfezione. Ha condiviso con noi perfino l’imperfezione di questa nostra condizione umana, prima di raggiungere la meta finale dell’eternità.
E questo viene riassunto in una bellissima immagine, che troviamo nei capitoli 33 e 34 del Libro dell’Esodo, in un momento importante, quando Israele ha contestato il suo Dio. Il vero sovrano d’Israele non è più il Faraone, come nella prima contestazione, nel primo duello: per imporsi ad Israele Dio deve sconfiggere il primo concorrente, che sarebbe il Faraone. Il vero sovrano è Dio, non il Faraone: è quello lo scopo delle piaghe. Un altro concorrente è il vitello d’oro: Israele adora il vitello d’oro, e il capitolo 32 mostra che Dio è il vero sovrano d’Israele, e non il vitello.
In questo momento, quando Dio dice “non voglio più essere il Dio di questo popolo ribelle, di dura cervice, lo voglio sopprimere, cancellare dalla terra, ne voglio scegliere un altro”, allora Mosè intercede e ottiene da Dio che perdoni il popolo e continui ad accompagnarlo. Per assicurarsi che Dio sia ancora presente, chiede di poter vedere la Gloria di Dio. Uno pensa forse che lui voglia avere un privilegio personale, in realtà vuole assicurarsi che Dio sia ancora presente in mezzo al popolo: la Gloria di Dio è la Sua potenza capace di trasformare la storia, è la potenza di Dio in mezzo alla storia d’Israele che si manifesta ogni volta che Israele ha bisogno di salvezza, quando si trova in pericolo, e quindi Dio lo salva attraverso la Sua Gloria.
E Dio dice a Mosè: “tu non puoi vedere la Mia faccia, non posso rivelare la Mia faccia, perché chi mi vede muore”. Quella è l’esperienza che si fa dopo la morte. “Io Mi nasconderò nella fessura della roccia, e metterò la Mia mano sulla tua faccia quando passerò e così non vedrai la Mia faccia ma vedrai, quando sarò passato, le mie spalle”.
E così avviene. Dio è nascosto in una fessura della roccia, mette la Sua mano sulla faccia, passa e proclama “Dio di Misericordia e di Perdono” e quindi Mosè lo vede da dietro, non lo vede davanti. Gregorio, uno dei padri della Chiesa, interpretando questo passo, dice: “perché lo vede da dietro quando passa? Dio passa davanti e Mosè lo vede da dietro. Perché per vedere Dio Mosè deve seguire Dio: per vedere Dio bisogna mettersi in cammino e seguirLo.
Vedere Dio significa seguire Dio. E questo sarebbe uno dei modi di riassumere tutta l’esperienza dell’Esodo: Dio cammina con il suo popolo, lo accompagna e lo guida nel deserto. Se Israele vuole vedere Dio, deve seguirLo, se non Lo segue Lo perde. Se si ferma e si rifiuta d’andare avanti – che è quello che vuole fare tante volte - e soprattutto si rifiuta di salire verso la Terra Promessa, e vuole tornare indietro verso l’Egitto, dove ci sono le cipolle, la carne e un menù molto più interessante di quello del deserto, Israele perde il suo Dio, non Lo può vedere: l’unico modo per vederLo è seguirLo.
Perciò vedere Dio e seguire Dio è la stessa cosa: è il messaggio fondamentale dell’Esodo, ed anche del Nuovo Testamento, quando Filippo dice a Gesù “Mostrami il Padre”, “Ma tu l’hai visto il Padre, perché Io sono la via, la verità e la vita”. La prima parola è la “via”, la via è la verità ed è la vita: vivere significa essere sulla via, la vera via di Gesù Cristo, e accompagnarLo, seguirLo: vedere Dio significa seguire Dio.