Terroristi o miscredenti: la vera trappola dell'islam, di Martino Diez
Riprendiamo da Avvenire del 28/2/2015 un articolo di Martino Diez. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (1/3/2015)
Nel mondo islamico attuale «ognuno pensa di essere il vero musulmano e che tutti gli altri siano fuori dalla comunità». Questa in sintesi la diagnosi che lo shaykh di al Azhar, Ahmad al-Tayyeb, ha ribadito alla conferenza islamica sulla lotta al terrorismo tenutasi alla Mecca dal 22 al 24 febbraio.
È tecnicamente il problema del takfîr, cioè della «dichiarazione di miscredenza» con cui i gruppi terroristici giustificano i loro crimini; un termine che rimanda al dibattito teologico, antico quanto l’islam, sullo statuto del 'grande peccatore': rimane credente oppure è escluso dalla comunità musulmana alla stregua di un pagano?
Per i moderni jihadisti, emuli in questo dell’antica setta dei kharijiti, la risposta è la seconda: chiunque non si unisca alla loro causa è musulmano solo di nome e dunque può essere lecitamente ucciso.
La diagnosi è accompagnata, nel discorso di al-Tayyeb, da un moto di disgusto e da un’accusa: il disgusto per i jihadisti che hanno «cuori più duri della pietra», l’accusa invece per le «forze neocolonialiste alleate al sionismo mondiale» che avrebbero teso ai musulmani la trappola del takfîr, in applicazione del principio del divide et impera.
I musulmani dal canto loro vi sarebbero caduti in massa con il risultato che «l’Iraq è perduto, la Siria in fiamme, lo Yemen lacerato, la Libia distrutta». Fotografia sintetica ma accurata del disastro che «ha offuscato l’autentica immagine dell’islam in Oriente e in Occidente, ma quasi direi agli occhi stessi della nuova generazione musulmana».
Anche se queste riflessioni possono suonare inedite al pubblico occidentale, si tratta in realtà di considerazioni che al-Tayyeb ripropone da mesi nelle sue uscite pubbliche. La novità sta piuttosto nel tentativo di individuare le cause del jihadismo: non bastano a suo avviso a spiegarlo la povertà o gli abusi nelle carceri. Il vero problema è l’educazione. Non vi sarà soluzione «finché non controlleremo l’istruzione e l’educazione, nelle nostre scuole e università». Difficile non convenire con questa affermazione di principio.
Eppure qualche precisazione può aiutare a situare meglio la proposta e i suoi limiti. Detto in breve, lo shaykh al-Tayyeb, e con lui numerose autorità religiose, sembrano ritenere possibile una ristrutturazione parziale dell’edificio del sapere islamico, che si limiti a isolare e risanare la crepa introdotta dal takfîr, senza porre mano alle strutture portanti.
Alcune considerazioni suggeriscono però la necessità di un intervento ben più radicale, che dovrà probabilmente arrivare a investire le fondamenta stesse di tale edificio.
In primo luogo, non va sottovalutata l’ampiezza della crisi che investe oggi il sistema educativo in gran parte del mondo islamico. Storicamente, i poteri coloniali avevano lasciato in eredità al Medio Oriente una rete di scuole all’europea, pensate però solo per l’élite.
Conseguita l’indipendenza, alcuni Stati percorsero la via dell’arabizzazione dell’istruzione, che tuttavia si risolse in un sostanziale fallimento. Ancora oggi in quasi tutti i Paesi arabi le materie scientifiche, oltre il livello elementare, sono insegnate direttamente in inglese o francese, fatto che certo non aiuta a risolvere il dualismo tra scienze moderne e cultura tradizionale. Ma soprattutto gli Stati post-coloniali, a eccezione delle monarchie petrolifere, hanno assistito impotenti al tracollo del proprio sistema educativo a causa dell’esplosione demografica, accompagnata talvolta da politiche economiche dissennate.
In Egitto oggi gli insegnanti statali ricevono uno stipendio irrisorio. Di conseguenza molti di loro semplicemente non insegnano e vivono impartendo lezioni private a quelli tra i loro studenti che possono permetterselo.
Un problema specifico affligge poi l’educazione religiosa. Nella maggior parte dei casi l’insegnamento è impartito su manuali statali dai contenuti talvolta discutibili. Per la verità qualche miglioramento in questi anni è stato realizzato, ad esempio in Tunisia, Libano o Giordania, ma il cammino è ancora lungo.
Del resto, anche la formazione stessa degli esperti di scienze religiose non va esente da difficoltà. Non sono solo gli antichi kharijiti ad aver utilizzato l’arma del takfîr, ma anche, ben più recentemente, il movimento wahhabita, pilastro ideologico della moderna Arabia Saudita. Potrà ora la monarchia saudita segare il ramo sul quale siede? La domanda non è da poco per valutare le probabilità di successo di una mobilitazione anti-takfîr.
A livello più profondo, non va comunque dimenticato che la maggior parte dei jihadisti non si radicalizza a scuola, nelle ore di educazione islamica, né nelle moschee espressioni dell’islam tradizionale, ma su Internet. Non è quindi questione di cambiare alcuni libri di testo, e forse neppure di intervenire nel discorso religioso degli imam.
In questa operazione di ripensamento un aiuto fondamentale potrebbe probabilmente venire da un elemento apparentemente secondario: il recupero del senso della storia. Nella versione oggi dominante, essa si apre infatti per la penisola arabica con un’età dell’ignoranza (in arabo jâhiliyya), corrispondente all’epoca preislamica, a cui segue, in completa rottura, l’avvento dell’Islam.
È una visione storicamente infondata e soprattutto teologicamente pericolosa, perché tende ad accreditare l’idea di una fede pura che si sarebbe instaurata in un contesto a-culturale. Non a caso, l’idea della jâhiliyya è ripresa dai grandi ideologi jihadisti del Novecento, Sayyid Qutb in testa, per qualificare le società musulmane dell’epoca e rendere lecita l’azione armata contro i governi, cioè ancora una volta il takfîr.
E sempre da qui origina quel moto di ripulsa verso il passato che, in un crescendo di radicalizzazione, arriva tragicamente ai manoscritti bruciati e alle statue prese a martellate che in questi giorni l’Is esibisce sul web. A fronte di tutto ciò, scriveva provocatoriamente l’intellettuale libanese Samir Kassir, «possiamo ben immaginare quale rivoluzione copernicana comporterebbe l’ammettere l’esistenza di un’età dell’oro anteriore all’età dell’oro!».
Per altro verso invece si perpetua nel mondo islamico una visione idealizzata dei primi decenni dopo la morte di Muhammad, la cosiddetta epoca dei Compagni, considerata come espressione di una perfezione ormai irraggiungibile. Anche in questo caso, fare i conti con il fatto che l’epoca dei Compagni fu anche un periodo di intense lotte intestine, di tradimenti, di uccisioni, di sfruttamento della religione a fini politici, potrebbe aiutare a liberarsi dal complesso per cui 'il meglio è già alle nostre spalle'.
Così, anche senza arrivare a toccare lo spinoso problema della storicità dei testi fondativi dell’Islam, che per il momento rimane appannaggio di pochi pensatori isolati, sarebbe possibile introdurre uno sguardo critico sul proprio passato che consenta di guardare in maniera più creativa alle sfide attuali, liberandosi dall’illusione che la soluzione sia già stata formulata da altri.
Se poi a questo si alleasse, a livello di metodo, una maggiore attenzione alla dimensione sapienziale, oggi del tutto svalutata a favore di una visione positivista in campo scientifico e legalista-letteralista in campo religioso, si potrebbe sperare in una reale svolta nel campo educativo, che approdi naturalmente anche all’abbandono della pratica del takfîr.
In caso contrario il discorso ufficiale islamico resterà sempre al traino delle mode e richieste del momento. Dopo aver santificato il nazionalismo arabo, dopo aver provato la natura socialista dell’islam, dopo aver virato verso il liberismo, questo stesso discorso si accinge oggi a condannare il takfirismo. Domani chissà.