Sarà bello tornare fuori e camminare di nuovo. Sarò contenta e grata anche dell’aria, di Marina Corradi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Marina Corradi pubblicato il 23/2/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/3/2015)
Venti giorni immobile, dopo un intervento a una caviglia. Non ero mai stata in carrozzella. All’inizio, come una tigre in gabbia. Poi faticosamente mi adatto, a farmi largo in corridoio fra lo stendibiancheria e l’armadio.
Le giornate, che quando sto bene mi sembrano rapidissime, si dilatano in un tempo indefinito e molle. Dal mattino, quando il marito e i figli escono, a quando a sera ritornano, le ore passano silenziose e lente. Mi arrocco davanti al pc, credendo che per quello schermo passi la vita. Ma dopo ore ne vengo via, stanca e immalinconita. Non è vita quella, ne è solo una apparenza.
Posso leggere, certo. Ma ciò che mi manca davvero è l’aria fredda sulla faccia, alle sette del mattino; e la passeggiata col cane, e il caffè al bar dei cinesi. E il mercato rionale, di quello ho proprio nostalgia, con i banchi della frutta, e quelli dei fiori, con i ciclamini rosa. Mi manca la redazione con il suo odore di vecchi giornali, e perfino il guidare nel traffico di Milano. Mi manca il camminare. Mi pare che sarebbe fantastico semplicemente uscire, e respirare quest’aria che sa di pioggia.
Allora mi affaccio al balcone, e sto a guardare. I passanti paiono non rendersi conto della bellezza di poter andare dove vogliono, sotto ai loro ombrelli colorati; di salire liberamente sui grossi autobus gialli che vanno verso il centro, sollevando l’acqua dalle pozzanghere.
Mi piazzo su un divano. Il cane mi si accuccia accanto, i gatti si alternano al mio capezzale, consolandomi con sonore fusa. Li accarezzo: nell’immobilità, ho uno zoo che amorevolmente mi cura.
Di nuovo in carrozzella, irrequieta. Da questa inconsueta prospettiva, adagio, percorro le stanze. Ne noto l’inarrestabile casino, che però mi sembra così vivo. Vado in cucina, il cuore largo e caldo della casa, con l’orologio le cui lancette avanzano piano, e il grande crocefisso sopra al muro che porta, ancora, le tacche della crescita dei figli bambini. Mi pare di essere un’altra, che osserva una casa non sua. Provo, per la mia vita normale, nostalgia.
Sarà bello, mi dico, tornare fuori, benché con le stampelle. Sarà bellissimo poi, guarita, camminare di nuovo, e scendere per corso Sempione fino al parco. Saranno i primi di marzo, allora, e gli alberi avranno le gemme; e ci sarà nell’aria una tensione fra il freddo e un’aria nuova, impercettibilmente odorosa. Il cane mi tirerà, felice dell’erba e del fango, e io mi lascerò trascinare, contenta. Giuro: sarò contenta e grata, semplicemente della pioggia, dell’aria.
Ma so che mi dimenticherò velocemente della mia breve prigione, e tornerò normale. E nervosa, e impaziente, e mi arrabbierò per un niente, e maledirò la fretta, e l’affanno delle cose da fare.
Passiamo la vita scontenti. Ma quanto mi pare bello dalla finestra, stamane, semplicemente il camminare della gente, sotto agli ombrelli che si rivoltano nel vento, con i bambini per mano, e la borsa della Esselunga gonfia, piena di cose da mangiare.