Astronomia, scienza e fede, di Marco Bersanelli
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Riprendiamo da C. Giuliodori – R. Sani, Scienza Ragione Fede. Il genio di Padre Matteo Ricci, pp. 35-46, Edizioni Università di Macerata (EUM), Macerata, 2012, un articolo scritto da Marco Bersanelli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (22/2/2015)
La galassia di Andromeda
Fin dall'antichità l'osservazione del cielo ha segnato profondamente la coscienza umana, suscitando domande sulla natura degli astri ed evocando al tempo stesso il senso religioso dell'uomo secondo la sensibilità delle diverse culture. L'impressione profonda che l'uomo da sempre percepisce alla vista del firmamento ha inciso profondamente sull'immaginazione dei popoli di ogni epoca e di ogni parte del mondo, ed ha ispirato rappresentazioni artistiche e mitologiche di grande intensità e bellezza. L'osservazione sistematica degli astri e del loro movimento precede di gran lunga la nascita della scienza moderna. Un tratto comune alle civiltà antiche è che, nella grande varietà espressiva, esse hanno immancabilmente percepito il cielo come segno privilegiato del divino. Quali sono dunque le caratteristiche della volta celeste che la rendono in modo così naturale e quasi inevitabile un'immagine privilegiata del Mistero?
1. Sotto lo stesso cielo
Anzitutto il cielo è unico. Popolazioni diverse si sono adattate ad ambienti terrestri assai differenti, ma sempre sotto lo stesso cielo. I tratti del territorio, dalle pianure alle coste del mare, dalle foreste al percorso dei fiumi, si presentano in modo vario a seconda del luogo. Il cielo invece è lo stesso per tutti, sicuro punto comune tra popoli diversi.
Quando P. Matteo Ricci arrivò in Cina, non solo la lingua, la scrittura e le abitudini umane, ma anche la vegetazione, il territorio, l'odore dell'aria, tutto doveva apparirgli molto diverso, quasi estraneo rispetto al mondo da cui proveniva; ma il cielo che trovò a Pechino era esattamente lo stesso che aveva lasciato a Macerata.
La volta celeste, poi, dimostra di essere enormemente vasta. Anzi, la sua immensità è qualitativamente diversa da quella di qualunque altra realtà: il cielo non è solo "grande", è intrinsecamente irraggiungibile. Anche le montagne più alte, i deserti o la distesa del mare possono forse essere alla portata dell'uomo, almeno ci si più avventurare in essi e forse un giorno li si potrà attraversare. Il cielo invece è di un altro ordine, radicalmente inaccessibile.
Ciò ha stabilito nell'animo di migliaia di generazioni quel senso di sproporzione e di contingenza della natura umana che ancora oggi ci invade quando abbiamo l'opportunità (in verità, sempre più rara...) di osservare la volta stellata in una notte buia e limpida.
La vastità del cielo è accompagnata poi dalla sua immutabilità nel tempo: le stelle e le costellazioni restano identiche a se stesse per migliaia di generazioni. La regolarità dei moti siderali contrasta palesemente con lo stile provvisorio e imprevedibile dei movimenti tipici dell'esperienza umana. I greci per primi svilupparono una descrizione geometrica dei moti celesti e furono in grado di prevedere con sorprendente accuratezza la posizione delle stelle e dei pianeti. Il loro modello più completo, quello Aristotelico-Tolemaico, era fondato sul moto circolare uniforme, riprodotto in una serie di sfere rotanti intorno alla Terra.
Ma non è tutto. La regolarità e l'immensità del cielo, la sublime e misteriosa lucentezza dei corpi celesti, da sempre hanno una forte presa estetica sullo spirito umano. Le diverse culture antiche hanno saputo esprimere la meraviglia, la vertigine, il fascino profondo per l'universo. Un fascino misto al timore, all'angoscia, alla speranza per il futuro, alla trepidazione per la vita.
I cicli del Sole e della Luna, l'alternarsi delle stagioni non solo danno ritmo al tempo ma coincidono anche con la fonte della luce e del calore, elementi essenziali alla vita dell'uomo e delle creature dalle quali la vita umana dipende. L'ambiente cosmico fu percepito dalla maggior parte delle antiche civiltà come una realtà misteriosamente e profondamente coinvolta con la concretezza della vita umana: nascita, morte, fertilità, nutrimento, destino.
Diversi sono dunque gli elementi che hanno favorito l'accostamento della volta celeste alla realtà divina: unicità, vastità, stabilità, bellezza, nesso profondo con la vita. In questo quadro si inserisce pienamente anche la tradizione Giudaico-Cristiana, nella quale ritroviamo tutti gli elementi ora accennati. In questo contributo, ci proponiamo di documentare la sensibilità di tale tradizione nei confronti dell'immagine del cosmo, e di verificare se e come tale sensibilità risulta ancora adeguata, oppure no, alla luce dell'immagine dell'universo come emerge dalla cosmologia contemporanea.
Il periodo storico decisivo per l'incubazione della razionalità scientifica nell'Europa Occidentale fu senza dubbio quello medievale, secondo quanto un crescente numero di studiosi riconosce e sostiene[1]. In quella cultura il cosmo era percepito come la creazione di un Dio razionale, che liberamente crea l'universo e lo ordina verso uno scopo che coinvolge l'essere umano come protagonista della storia. Il mondo fisico non è autosufficiente e non può essere conosciuto se non osservando i fenomeni che in esso accadono. Ogni particolare aspetto della natura porta in sé, in modo più o meno decisivo, il segno del suo Creatore. L'ordine cosmico è accessibile alla conoscenza umana ed è traccia della paternità di Dio sul creato. Per dirla con Dante[2]:
...Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Nulla perciò è insignificante, anche il più piccolo fenomeno naturale merita di essere considerato, osservato e conosciuto in quanto porta un'immagine più o meno fulgida dell"'etterno valore''[3]:
Ne l'ordine ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Che ogni aspetto naturale ("tutte nature") abbia in sé un nesso che lo lega alla realtà cosmica ("lo gran mar dell'essere") è un'idea forte,tutt'altro che scontata, unica nel panorama culturale di allora, un'idea che fu essenziale per lo sbocciare della scienza moderna all'inizio del XVII secolo. La fede in un cosmo mosso da leggi intelligibili è ancor oggi un presupposto tacitamente assunto in ogni ricerca scientifica: quando scrutiamo gli orizzonti dell'universo lontano o indaghiamo il comportamento delle particelle sub-nucleari, con Dante ancora crediamo che «le cose tutte quante [abbiano] ordine tra loro», e crediamo che la nostra ragione sia abilitata ad accedere, in qualche misura, al segreto di quell'armonia nascosta.
Un passo decisivo dal punto di vista metodologico fu introdotto all'inizio del XVII secolo, quando Galileo Galilei si rese conto che l'ordine della natura ha una forma ben precisa: «Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico». Egli inoltre perfezionò il cannocchiale, appena inventato in Olanda da Hans Lippershey, e lo utilizzò per osservare il cielo. Per la prima volta nella storia dell'umanità la luce degli astri era raccolta da un mezzo più potente dell'occhio umano. La messe di nuove scoperte fu immediata e rivoluzionaria: i dettagli della superficie lunare indicavano che la natura fisica dei corpi celesti è analoga a quella terrestre; la scoperta dei satelliti di Giove e delle fasi di Venere davano forti indizi a favore del sistema eliocentrico proposto da Copernico; l'evidenza che la luce diffusa della Via Lattea è prodotta da una moltitudine di stelle non risolte indicava che l'universo è più vasto di quello che si pensava.
Galileo pubblicò le sue scoperte nel Sidereus Nuncius nel 1610, proprio l'anno della morte di P. Matteo Ricci. I due non si conobbero, ma i loro percorsi si sfiorarono. Ricci fu introdotto all'astronomia e alla matematica da Cristoforo Clavio, gesuita del Collegio Romano autore dei Commentarii agli Elementi di Euclide,al quale nel 1611 Galileo avrebbe fatto visita per una discussione decisiva sulle sue osservazioni con il telescopio.
Secondo Clavio, che apprezzò e sostenne le scoperte di Galileo, «le discipline matematiche elevano l'animo e aguzzano la mente alla contemplazione delle cose divine». Ricci e i suoi Gesuiti ebbero un contatto assai diretto con la nascente nuova scienza.Mossi da uno straordinario ardore missionario, Ricci e i suoi compagni percepirono la ricchezza e la potenzialità dell'astronomia e delle scienze in vista dell'incontro con i popoli d'oriente e, sorprendentemente, in pochi anni, le scoperte di Galileo raggiunsero la lontanissima Cina.
Nel 1618 due gesuiti (uno dei quali, padre Schreck, era stato allievo di Galileo) partirono da Lisbona e nel 1623 arrivarono a Pechino portandovi il primo cannocchiale. Nel suo trattato Yuánjing Shūo,scritto nel 1626, il gesuita Johann Adam Schall von Bell diede una descrizione accurata di tutte le principali osservazioni astronomiche galileiane ripetute con successo nel nuovo Osservatorio di Pechino[4].
2. Vastità del mondo
Dai tempi Galileo Galilei e Matteo Ricci ai nostri giorni, il progresso dell'astronomia ha permesso di indagare l'universo con crescente profondità, dalla scala stellare a quella extragalattica. Qual è dunque l'immagine di universo che la cosmologia contemporanea ci rivela? Oggi sappiamo che le innumerevoli stelle che Galileo aveva scoperto essere la fonte luminosa della Via Lattea si dispongono in una struttura ben precisa, un disco appiattito a forma di spirale, che contiene circa 200 miliardi di stelle: la nostra Galassia.
Il sole è una stella di questa enorme famiglia, posta in una zona periferica, né troppo vicina né troppo lontana dal centro. La scia luminosa della Via Lattea che vediamo in cielo è un tratto di un braccio della grande spirale. Le dimensioni della nostra galassia sono enormi: circa 100 mila anni luce.
Significa che un raggio di luce, che ogni secondo percorre 300 mila chilometri (circa la distanza tra la Luna e la Terra) impiegherebbe mille secoli ad attraversare la gigantesca girandola. Ma non è tutto: la nostra galassia non è sola nell'universo.
Nel 1922 Edwin Hubble con il telescopio di Monte Wilson di 100 pollici (il più potente allora disponibile) riuscì a misurare la distanza di una particolare nebulosa nella costellazione di Andromeda in circa 2 milioni e mezzo di anni luce[5]: fu chiaro che si trattava di un'altra galassia, del tutto simile alla nostra. La luce che oggi riceviamo da quella galassia ha viaggiato per 2,5 milioni di anni prima di arrivare a noi, e quindi ci porta una immagine di come la galassia di Andromeda era 2 milioni e mezzo di anni fa.
Più guardiamo lontano nello spazio cosmico, più vediamo le cose come erano indietro nel tempo. Questo fatto ha conseguenze profonde sulla nostra possibilità di conoscere l'universo. Per i cosmologi è una grande fortuna: non solo possiamo osservare il cosmo a grandi distanze, ma possiamo ricevere informazioni su come le cose stavano nel lontano passato. Lo spazio, il tempo e la velocità della luce sono intimamente intrecciati insieme quando discutiamo di fenomeni su dimensioni cosmiche: spazio, tempo e velocità della luce sono proprio gli ingredienti alla base della teoria generale della relatività di Einstein che costituisce l'ambito fisico-geometrico, di una eleganza straordinaria, nel quale possiamo descrivere in termini rigorosi l'universo fisico.
Ma quante sono le galassie nell'universo? Alcune recenti survey[6] hanno misurato diverse centinaia di migliaia di galassie, scandagliando regioni relativamente ristrette del cielo. Ognuna di esse contiene in media un centinaio di miliardi di stelle. Per ciascuna galassia è stata misurata la posizione angolare e la sua distanza, il che ci permette di costruire mappe tridimensionali della distribuzione della materia nell'universo.
Questo è di grande interesse perché consente di verificare le nostre idee fisiche sulla formazione delle strutture su larga scala. Future missioni spaziali, oggi in fase di studio[7], si prefiggono lo scopo di aumentare la statistica e di mappare oltre 500 milioni di galassie. Si calcola che nell'universo osservabile il numero totale di galassie sia dell'ordine di cento miliardi.
L'immensità dell'universo che si dispiega sotto i nostri occhi è sbalorditiva. Ma già lo sguardo attento degli antichi, al cospetto del cielo stellato, avvertiva acutamente la sproporzione tra la natura umana e l'immensità del cosmo. La scienza moderna, ben lungi dal mitigare quella ancestrale percezione, ci fa entrare in dimensioni ancor più vertiginose di quella sproporzione. Ancora oggi, e forse con più profonda consapevolezza, possiamo sentire nostre le parole scritte 3000 anni fa dall'antico salmista ebreo:
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cos'è l'uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell'uomo perché te ne curi?[8]
L'uomo è quasi nulla nella compagine sconfinata del cosmo. L'immensità degli spazi e dei tempi sembra soverchiare la nostra esistenza, quasi rendendola marginale, insignificante. Ma il salmo non si ferma qui, prosegue:
Eppure lo hai fatto poco meno di Te,
di gloria e di onore lo hai coronato.
L'uomo è quasi nulla, eppure... l'io di ogni uomo è quel punto nella vastità del cosmo che ha "l'onore e la gloria" di essere luogo dell'autocoscienza dell'universo. Che paradosso! L'essere umano è un punto invisibile, ma coincide con la possibilità, gratuitamente data, di contemplare coscientemente il reale, lo spettacolo dell'universo, e di cercare il significato di sé e di tutto ciò che esiste. L'uomo, ogni singolo essere umano, nella sua piccolezza è fatto per qualcosa che travalica qualunque misura, è rapporto con l'infinito.
La sproporzione tra cielo e terra nell' Antico testamento è usata ripetutamente per significare emblematicamente la grandezza di Dio, l'inarrivabilità del Suo giudizio a confronto con la misera misura umana. Tanto più oggi possiamo sentire adeguato e potente il paragone[9]:
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
3. Verso l'alba del tempo
Recentemente il telescopio spaziale Hubble[10] ha prodotto un'immagine di una piccola regione di cielo[11] (pari a circa l'1,5% del disco lunare), la quale contiene migliaia di galassie tra le quali alcune delle galassie più distanti mai osservate. In quella immagine vediamo un campione significativo di galassie a distanza di oltre 10 miliardi di anni luce. Come abbiamo visto, più le galassie che osserviamo sono distanti, più ci parlano di un universo remoto nel passato.
Sorge naturale la domanda: l'universo di 10 miliardi fa, era uguale a quello attuale oppure era diverso? L'oceano cosmico delle galassie è una realtà statica oppure muta nel tempo? Oggi abbiamo una risposta chiara a questa domanda: l'universo muta nel tempo. Il cosmo è protagonista di una storia. Non assomiglia a un cristallo, bello ma sempre uguale a se stesso; assomiglia piuttosto a un fiore che nasce, sboccia e si apre.
La prima evidenza fondamentale in questa direzione fu la scoperta, emersa da vari astronomi negli anni 1920, che le galassie si allontanano sistematicamente le une dalle altre. Nel 1929 fu ancora Hubble ad accorgersi che la velocità di allontanamento delle galassie è proporzionale alla distanza reciproca. Questo significa che l'universo si dilata in una espansione regolare e isotropa, proprio come la superficie di una sfera che si gonfia, o come un piano elastico che si stira in modo uniforme.
Da allora, osservazioni sempre più precise e profonde hanno confermato il carattere cosmico dell'espansione, fino a scale migliaia di volte più grandi. Lo spazio, dilatandosi, diviene sempre più rarefatto, perché l'energia e la materia (la materia è una forma di energia, secondo la celebre equazione di Einstein, E = mc2) sono sempre più diluite in un volume che diviene sempre più grande.
Ciò significa che l'universo nel passato doveva essere più denso e perciò, come la fisica ci insegna, più caldo di oggi. Misurando il ritmo dell'espansione e la densità delle varie forme di energia nell'universo, possiamo risalire a un tempo remoto nel quale tutti i punti dell'universo dovevano trovarsi molto vicini tra loro, a una distanza che tende a zero: questo avveniva circa 14 miliardi di anni fa. Per la precisione, le stime più recenti[12] danno 13, 72 ±0,12 miliardi di anni: è questa l'età dell'universo.
Oltre all'evidenza della recessione delle galassie abbiamo oggi una seconda, straordinaria traccia osservativa che guida la nostra ricostruzione della storia cosmica. Nel 1965 Arno Penzias e Robert Wilson, del Bell Telephone Laboratory, si accorsero in modo fortuito (come talvolta avviene per le grandi scoperte scientifiche) che il loro radiotelescopio registrava un debole ma persistente residuo di energia luminosa proveniente in modo uniforme da ogni parte del cielo.
Oggi sappiamo che si tratta di luce che ci raggiunge dalle regioni più remote dell'universo osservabile e ci porta un'immagine del cosmo appena nato, quando la sua temperatura era di migliaia di gradi e la sua età appena lo 0,003% di quella attuale. È letteralmente della prima luce dell'universo: dopo un viaggio di 14 miliardi di anni ci mostra un'immagine di com'era l'universo prima della formazione delle galassie, delle stelle e di qualunque altra cosa.
Oggi possiamo osservare con estrema precisione le proprietà di questa luce primordiale, detta "fondo cosmico di microonde"[13], grazie a osservazioni quali quelle ottenute dai satelliti COBE[14] e WMAP[15], lanciati della NASA rispettivamente nel 1989 e nel 2000. Il 14 maggio 2009 è stato lanciato il satellite Planck[16] dell'Agenzia Spaziale Europea in un'orbita a 1,5 milioni di km dalla Terra con lo scopo di realizzare una mappa dell'universo primordiale con una precisione senza precedenti. Gli strumenti[17] di Planck stanno attualmente raccogliendo la "luce fossile" con estrema accuratezza. L'analisi di questi dati promette di gettare nuova luce sulla struttura, la composizione, la geometria e l'evoluzione dell'universo, e di verificare le condizioni fisiche fino alle primissime frazioni di secondo dopo il big bang.
L'universo primordiale, come ci appare "in diretta" grazie a queste osservazioni, si presenta come un mare incandescente di luce e materia distribuite in modo estremamente uniforme. L'uniformità però non è assoluta: vi sono regioni in cui la densità si discosta dal valor medio di circa una parte su 100 mila. Queste zone di sovra-densità sono nientemeno che i "semi" delle galassie, che si formeranno sotto l'azione della gravità nei miliardi di anni a venire. È notevole constatare che l'intera storia dell'universo, compresa la sua capacità di accogliere la vita, è delicatamente legata alla natura di questi "semi" primordiali.
Se le sovra-densità fossero state un poco più deboli, l'universo avrebbe continuato la sua espansione senza che la gravità potesse agire per formare galassie, stelle, pianeti e strutture complesse come quelle che osserviamo nel presente. Se invece i semi fossero stati troppo marcati, la gravità avrebbe sì formato strutture, ma soltanto sotto forma di materia degenere, come stelle di neutroni o buchi neri: oggetti molto interessanti ma incompatibili con la complessità e la vita.
4. L'universo e noi
Possiamo quindi tracciare per sommi capi la storia cosmica. L'espansione dell'universo prende il via da uno stato ad altissima densità e temperatura, e anche di estrema semplicità, circa 13,7 miliardi di anni fa. Lo spazio si dilata e si raffredda. Dopo una manciata di secondi, a temperature di circa un miliardo di gradi, inizia il processo di formazione di nuclei di elio (e tracce di altri elementi leggeri) dai protoni presenti nel plasma primordiale.
Il processo termina quando, dopo circa 3 minuti, la temperatura è scesa troppo per mantenere le reazioni termonucleari. Quando la temperatura scende sotto i 3000 gradi, gli elettroni liberi possono legarsi ai nuclei di idrogeno e di elio, e formare per la prima volta gli atomi. In quel momento, quasi d'improvviso, l'universo diventa trasparente. La nebbia cosmica si dirada e la luce, fino a quel momento intrappolata nella materia, può finalmente attraversare liberamente lo spazio: è la prima luce, che noi oggi osserviamo come fondo cosmico di microonde.
Grazie ai "semi" dati dalle sovra-densità iniziali inizia la formazione delle galassie. All'interno delle galassie, le stelle attraversano il loro ciclo vitale bruciando nei loro nuclei l'idrogeno e l'elio primordiali in elementi più pesanti: è qui che si formano il carbonio, l'azoto, l'ossigeno, e via via tutti gli elementi pesanti necessari per la complessità e la vita. Le stelle più massicce esplodono come supernovae, e rilasciano nello spazio interstellare gli elementi sintetizzati nei loro nuclei, dai quali nasceranno nuove stelle.
Era necessario che accadessero tutte queste cose perché cinque miliardi di anni fa, alla periferia di una bella galassia a spirale, da una nube ricca di gas e polvere interstellare potesse prendere forma, insieme alla stella centrale e a una manciata di altri pianeti, un piccolo pianeta roccioso come il nostro. Un pianeta capace di ospitare la vita, e di accompagnarne l'evoluzione per oltre 3 miliardi e mezzo di anni. Per poi giungere, con una discontinuità misteriosa, alla comparsa di quella creatura nella quale il cosmo intero prende coscienza di sé.
Nelle antiche civiltà, in modi diversi, era diffuso il presentimento di uno stretto rapporto tra l'ambiente cosmico e la vita. La scienza moderna non smentisce, anzi rilancia questa intuizione: ci mostra infatti che la nostra esistenza fisica ha le sue radici nelle profondità della storia cosmica, finemente intessuta in un cammino durato 14 miliardi di anni. La vita, inaspettatamente, non dipende solo dal favore di ben precise condizioni locali (dal sole e dalla pioggia, dall'acqua e dall'atmosfera terrestre, etc.), ma anche da condizioni assai stringenti a livello cosmico: l'intensità delle sovra-densità primordiali, la formazione degli elementi pesanti nelle stelle... e moltissime altre[18]. Il rapporto tra la nostra esistenza e la struttura globale dell'universo è forse ancor più profondo di quanto gli antichi avessero potuto immaginare. Come ha sinteticamente osservato Luigi Giussani[19]: «Il cosmo intero è come la grande periferia del mio corpo senza soluzione di continuità». E di nuovo, troviamo una risonanza notevole nel testo biblico:
Egli stende il cielo come un velo,
Lo spiega come una tenda ove abitare.
È commovente, e assai adeguata alla luce delle conoscenze attuali, questa immagine del cosmo come una tenda che ospita la vita, nella quale la creatura umana può trovare dimora.
Ma c'è un altro aspetto sorprendente del nostro rapporto con l'universo: il fatto che a noi sia dato di poterlo conoscere. Galileo aveva intuito che il linguaggio adatto a descrivere il mondo fisico è la matematica. I progressi della fisica ci hanno condotto a verificare tale corrispondenza tra linguaggio matematico e struttura della natura su territori sempre più vasti e distanti dalla nostra esperienza diretta.
Non solo: la matematica sostiene la nostra capacità di descrivere l'universo reale anche oltre la nostra capacità di immaginare e visualizzare. La teoria della relatività e la meccanica quantistica, in particolare, si spingono a descrivere situazioni fisiche completamente contro-intuitive, ma corrispondenti alla realtà sperimentale con una precisione incredibile. È questo un fatto assai notevole, anche perché noi potremmo vivere benissimo senza questa possibilità.
Non vi è alcun "vantaggio evolutivo" nell'essere in grado di concepire l'equazione di Schrödinger o la metrica di Schwarzschild. Perché mai quel "quasi nulla" che siamo noi nell'universo è stato dotato di una ragione capace di leggere l'ordine insito nella realtà tutta? Chi siamo noi a cui è dato di entrare in rapporto con le leggi che regolano il movimento della natura fino a rive così lontane?
Come diceva Einstein, «l'eterno mistero del mondo è la sua comprensibilità». Il fisico Eugene Paul Wigner, premio Nobel nel 1963, in un libro dal titolo significativo L'irragionevole efficacia della matematica,affermava: «Il fatto miracoloso che il linguaggio della matematica sia appropriato per la formulazione delle leggi della fisica è un regalo meraviglioso che noi non comprendiamo né meritiamo»[20]. Proprio su questo tema in anni più recenti, è intervenuto Benedetto XVI:
La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell'universo [...]suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. [...] Diventa inevitabile chiedersi se non debba esservi un'unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell'una e dell'altra[21].
L'ordine e la bellezza del cosmo furono pienamente colti dallo sguardo del popolo ebraico. Il firmamento appariva ai loro occhi come qualcosa di grandioso, mosso da leggi sublimi, tanto da presentare un segno potente della mano del Signore dell'universo[22]:
È Lui che invia la luce ed essa va,
che la richiama ed essa obbedisce con tremore.
Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono;
Egli le chiama ed esse rispondono: "Eccoci!"
E brillano di gioia per Colui che le ha create.
Per contrasto, emerge qui un altro connotato della sproporzione della creatura umana nei confronti del Creatore[23]:
Puoi tu annodare i legami delle Pleiadi
O sciogliere i vincoli di Orione?
Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino
O puoi guidare l'Orsa insieme con i suoi figli?
Si potrebbe pensare che l'ammirazione per il creato che vibra in questi versi sia il riflesso di una sensibilità ormai sorpassata, estranea alla razionalità della indagine scientifica attuale. Ma non è così. Anche nei grandi scienziati moderni è proprio la capacità di stupore per il mondo che accende il percorso della ricerca[24].
Il grande fisico tedesco Max Planck ha scritto[25]: «Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l'arte del ragionare e del riflettere». La ragione umana, anche nella sua capacità scientifica, si mette in moto perché riceve un "colpo affettivo" dalla realtà. Noi decidiamo di studiare un certo fenomeno quando esso in qualche modo ci colpisce, ci promette un di più di conoscenza.
Diceva un altro gigante della fisica, Richard Feynman[26]: «A una maggiore conoscenza si accompagna un più insondabile e meraviglioso mistero, che spinge a penetrare ancora più in profondità». Spesso s'intende la scienza come quel modo di conoscere la realtà che, via via che avanza, abolisce la nostra possibilità di meravigliarci, di apprezzare la bellezza, di percepire l'ombra del mistero sul mondo. Feynmar afferma esattamente il contrario: più avanza la conoscenza, e più il mistero diventa grande, "meraviglioso", e ci invita verso nuovi territori inesplorati.
5. Conclusione
La cosmologia scientifica appare come una delle più notevoli imprese dello spirito umano nell'epoca moderna. Essa ci consente di ricostruire con sorprendentemente efficacia le tappe dell'evoluzione cosmica, e nuovi passi avanti sono attesi nel prossimo futuro. I risultati ottenuti negli ultimi decenni hanno stabilito la natura storica dell'universo, mostrando che esso ha avuto inizio circa 14 miliardi di anni fa da uno stato di altissima densità e temperatura. L'espansione ha quindi gradualmente raffreddato lo spazio consentendo la formazione delle strutture sotto l'azione della gravità, e preparando nel corso del tempo condizioni locali adatte per l'emergere della complessità e della vita.
L'osservazione del cielo costituisce un terreno privilegiato di contemplazione del creato e di incontro tra gli uomini: fu questa una geniale intuizione di P. Matteo Ricci, la quale mantiene grande attualità nell'ambito culturale post-moderno. Oggi più che mai la bellezza e la vertigine del cosmo ci interroga e può far riscoprire all'uomo contemporaneo l'esigenza di un senso ultimo dell'esistenza con inaspettata urgenza e profondità.
Le scoperte scientifiche non indeboliscono il senso del mistero e della meraviglia, che già gli antichi percepivano, ma piuttosto lo esalta e lo rinnova. In particolare, l'immagine dell'universo che emerge dalla cosmologia attuale conserva e approfondisce quelle caratteristiche che la tradizione Giudaico-Cristiana aveva individuate fin dall'antichità come segni emblematici del Creatore e del suo rapporto con l'uomo e con tutta la creazione. Come ha osservato Benedetto XVI in occasione dell'inaugurazione dell'Anno dell'Astronomia:
Se i cieli, secondo le belle parole del salmista, 'narrano la gloria di Dio'[27], anche le leggi della natura, che nel corso dei secoli tanti uomini e donne di scienza ci hanno fatto capire sempre meglio, sono un grande stimolo a contemplare con gratitudine le opere del Signore[28].
Note al testo
[1] P. Hodgson, The Roots of Science of Its Fruits, London, Saint Austin Press, 2002; E. Grant, The foundations of modern science in the middle ages. Their religious, institutional and intellectual contexts, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1996; S. Jaki, The Origin of Science and the Science of its Origins, Edinburgh, Scottish Academic Press, 1978.
[2] Dante, Commedia. Paradiso, I, vv. 103-108.
[3] Dante, Commedia. Paradiso, I, vv. 109-114.
[4] Johann Adam Schall von Bell, (Yuánjing shūo - Explanation of the Telescope), 1626.
[5] K.Z. Stanek e P.M. Garnavich, Distance to M31 with the Hubble Space Telescope and HIPPAR-COS Red Clump, in «Astrophysical Journal Letters», 503 (1998), L131.
[6] Sloan Digital Sky Survey (SDSS): D.G. York et al., The Sloan Digital Sky Survey: Technical Summary, in «The Astronomical journal», 120 (2000), p. 1579; 2dF Redshift Galaxy Survey (2dFRGS): W.J. Percival et al., Parameter constraints for flat cosmologies from cosmic microwave background and 2dFGRS power spectra, in «Monthly Noices of the Royal Astronomical Society», 337 (2002), pp. 1068-1080.
[7] Si veda la proposta EUCLID, presentata all'ESA Cosmic Vision Program, 2009 (http://www.esa.int).
[8] Salmo 8,3-5.
[9] Isaia 55,9.
[10] Si veda il sito: http://www.stsci.edu/hst/
[11] S.V.W. Beckwith et al., The Hubble Ultra Deep Field, in «The Astronomical Journal», 132 (2006), pp. 1729-1755.
[12] G. Hinshaw et al., Five-Year Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (WMAP) Observations: Data Processing, Sky Maps, and Basic Results, in «Astrophysical Journal Supplement Series», 180 (2009), pp. 225-245.
[13] La luce primordiale, quando prese a viaggiare liberamente nello spazio, si trovava inizialmente a lunghezze d'onda dell'ordine di un micron, quindi nella regione spettrale della luce visibile e del vicino infrarosso. Da allora, tuttavia, l'espansione cosmica ha "stirato" la sua lunghezza d'onda di un fattore 1000, portandola a circa un millimetro, nel regime delle microonde. Da qui il nome "fondo cosmico di microonde" (Cosmic Microwave Background, CMB). L'aumento della lunghezza d'onda della luce primordiale comporta una perdita di energia dei fotoni dello stesso fattore. Per questa ragione la temperatura equivalente del fondo cosmico di microonde è estremamente bassa (2,75 Kelvin) e il fondo del cielo, osservato nel visibile, ci appare oscuro.
[14] Cfr. http://lambda.gsfc.nasa.gov/product/cobe.
[15] Cfr. http://map.gsfc.nasa.gov.
[16] Cfr. http://www.esa.int/Planck. Si veda anche: J. Tauber et al., Planck pre-launch status: The Planck Mission, in «Astronomy and Astrophysics», in corso di stampa (2010).
[17] J.-M. Lamarre et al., Planck pre-launch status: the High Frequency Instrument, in «Astronomy and Astrophysics», in corso di stampa (20l0); M. Bersanelli et al., Planck pre-launch status: Design and description of the Low Frequency Instrument, in «Astronomy and Astrophysics», in corso di stampa (2010).
[18] J.D. Barrow and F.J. Tipler, The Anthropic Cosmological Principle, New York, Oxford University Press, 1986.
[19] L. Giussani, Il senso religioso, Milano, Rizzoli, 1997.
[20] E.P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, in «Communications on Pure and Applied Mathematics», 13/1 (1960), pp. 3,7,14.
[21] Benedetto XVI, Discorso di sua santità ai partecipanti al IV convegno nazionale della chiesa italiana, Verona, 19 ottobre 2006.
[22] Baruc 3,9-15.
[23] Giobbe 38,31-32.
[24] M. Bersanelli e M. Gargantini, Solo lo stupore conosce, Milano, Rizzoli, 2003.
[25] M. Planck, Scientifìc Autobiography and Other Papers (1948), Engl. trans. F. Gegnor, New York, Philosophical Library, 1949.
[26] R.P. Feynman, The Value of Science, in E. Hutchings Jr. (ed.), Frontiers in Science: A Survey, New York, Basic Books, 1958, pp. 262-263.
[27] Salmo 19,2.
[28] Benedetto XVI, Angelus del 21 Dicembre 2009.