Caro Houellebecq «Sottomissione» a chi?, di Giacomo Poretti
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Riprendiamo da Avvenire dell’11/2/2015 un articolo di Giacomo Poretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2015)
Nota de Gli scritti L'articolo di Giacomo Poretti, se da un lato dimentica che "Sottomissione" fa esattamente riferimento a Dio, poiché "Islam" vuol dire letteralmente "sottomissione", d'altro canto rivela in maniera interessantissima che il vuoto "spirituale" dell'Europa cui fa riferimento Houellebecq deriva esattamente da posizioni come quelle sostenute da tempo dealo stesso autore di Sottomissione.
Normalmente nella vita mi guadagno da vivere occupandomi di comicità, però per diletto, nel tempo libero, sono attratto anche da cose tristi. Tipo i romanzi di Michel Houellebecq. Li ho letti tutti. Ho molto rispetto per i romanzi tristi. Quando si sta in compagnia con i personaggi dei suoi romanzi, diciamo all’incirca una settimana, perché se è vero che 280 pagine si leggerebbero in 5-6 ore, le atmosfere descritte da Houellebecq sono a volte così ripugnanti, fastidiosamente ciniche e ostentatamente depressive, che bisogna lasciare il libro a decantare, appoggiato sul tavolino che sta davanti alla tazza del wc. Si va in bagno, ci si gira, si insulta il libro e il suo autore, ma poi magneticamente l’inevitabile volta seguente si continua a leggere.
I personaggi di Houellebecq sono tutti affetti da una tristezza che si direbbe inevitabile, genetica, metafisicamente peculiare: la vita (per la verità l’autore ci tiene a precisare la vita in Occidente) è un accadimento senza senso alcuno, rallegrata in parte dagli amplessi sessuali, ma destinata anch’essa, la sessualità, a divenire fonte di tristezza poiché il corpo è destinato all’epilogo della vecchiaia, della malattia e della morte.
Houellebecq nei suoi precedenti romanzi ha descritto situazioni che offrissero un’alternativa a questo inferno terreno: in Particelle elementari ha provato a immaginare una mutazione genetica del genere umano, in Piattaforma addirittura il turismo sessuale come possibilità concreta di liberazione dall’infelicità, in La possibilità di un’isola il tentativo di raggiungere l’immortalità per alcuni eletti e l’estinzione per il resto dell’umanità, animalesca.
Nella sua ultima triste fatica, Sottomissione, Houellebecq apparentemente si occupa del trapasso di una civiltà, quella occidentale-cristiana, che approderebbe a una nuova era, l’islam. In realtà, il tema indagato è sempre quello: la tristezza, l’incapacità di provare emozioni o sentimenti, la casualità della vita.
Attraverso la raffinata metafora del cambio di regime politico e conseguentemente delle abitudini e della cultura, Houellebecq si interroga drammaticamente sul significato della libertà, sulla capacità di gestirla nei contesti della democrazia partecipativa a cui le masse nel Novecento sono approdate. La domanda è duplice. È ancora valido il criterio della partecipazione di tutti alla costruzione dei processi politici? Possediamo ancora una forza propulsiva e ideativa in Occidente?
La domanda sulla libertà è fondamentale per comprendere il romanzo. L’autore francese intende volontariamente farci percepire quanta angoscia e quanto disagio l’essere umano prova di fronte al peso della libertà, dove la variabile politica è solo una delle sfaccettature, e forse neanche quella più importante.
Che l’uomo sia costantemente tentato di rinunciare alla propria libertà lo aveva già annunciato Dostoevskij, ne La leggenda del Grande Inquisitore contenuta nei Karamazov, anzi è proprio il peso insopportabile del dono più grande che Dio ci ha fatto, la libertà appunto, che fa dire al Grande Inquisitore nemico del Cristo «…non c’è per l’uomo preoccupazione più ansiosa che di trovar qualcuno a cui affidare al più presto quel dono della libertà, col quale questo essere infelice viene al mondo».
Non è venata da queste preoccupazioni la conversione che il professore universitario, figura centrale del romanzo da Houellebecq, compie nei confronti dell’islam? Quella scelta di conversione non è per niente religiosa ma si riferisce all’incapacità di gestire il proprio libero arbitrio, e di conseguenza la scelta di abbandonarsi a un sistema sociale che si farà carico di tutti i cittadini e che provvederà al benessere e alla serenità dei propri sudditi, anche dei proprie insopprimibili aneliti di trascendenza.
Dio in questo romanzo manca totalmente, pur se cercato, nominato, evocato intellettualmente in continuazione. Si noti che il professore di Houellebecq dialoga in continuazione con Joris Karl Huysmans, lo scrittore francese che nell’ultimo tratto della sua esistenza abbracciò la fede cattolica: il confronto avviene perché il giovane professore si era laureato con una monumentale tesi sullo stesso Huysmans, e nel dipanarsi del romanzo, quella figura diviene di volta in volta mentore, maestro contraddittorio, flebile – quasi illeggibile – faro.
Si ha l’impressione, leggendo Sottomissione che l’uomo occidentale, nella sua più raffinata evoluzione, l’intellettuale, non possa considerare il concetto di Dio all’altezza della propria logica e intelligenza, e che quindi non rimanga che rassegnarsi all’idea di essere dei nichilisti certi che Dio è morto. Volendo fare gli spiritosi, potremmo pensare che il problema dell’uomo occidentale evoluto è che si è convinto che Dio stesse poco bene e dopo lenta agonia abbia subito la nostra stessa sorte, o che, tediato lui stesso dalla vita, abbia deciso orgogliosamente di suicidarsi.
Ho molto rispetto dello scrittore Houellebecq, ho molto rispetto delle tristezze dei suoi personaggi e penso che sia molto onesta l’angoscia che essi provano nel tentativo di scacciare il non senso e la terribile vacuità di un corpo che invecchia e scompare nel nulla. Io stesso rimango molto turbato ogni volta che leggo un romanzo di questo autore, perché credo che lui sappia toccare le questioni essenziali dell’esistenza: un’interrogazione spietata sulla vita che diviene lirismo della disperazione. Quando leggi Houellebecq è come aver ascoltato un amico che è depresso perché è arrivato alla conclusione che la vita è inesorabilmente triste: non sai mai cosa dire, ogni risposta sembra fuori luogo.
Mi sono fatto una fantasia: mi piacerebbe una volta incontrare il professore universitario di Houellebecq, dentro alle pagine del libro, così per fare quattro chiacchiere, e se non ci sbronziamo prima, e se lui non si distrae pensando ad avventure erotiche, mi piacerebbe parlare della libertà che è quella cosa tremenda che ci consente di uccidere persino Chi ce l’ha regalata.
E poi mi sono fatto una fantasia più azzardata: mi piacerebbe incontrare l’autore stesso in un bistrot a Parigi lungo la Senna e domandargli che cosa intendesse dire quando ha dichiarato che uno dei motivi che lo hanno spinto a scrivere questo romanzo è che comincia a essergli insopportabile essere ateo.
E poi, se trovassi il coraggio, vorrei dirgli un’altra cosa, a Houellebecq: ma ti rendi conto che razza di titolo hai escogitato?! (chissà perché mi viene da dargli del tu). Sottomissione. Sembra brutta l’azione che suggerisce il verbo del titolo, evoca fantasmi dittattoriali, regimi illiberali, e ben sappiamo noi occidentali quanto sia fastidioso rinunciare alla libertà che è nostro idolo e vitello d’oro intoccabile; e poi, forse, sotto qualsiasi punto cardinale, l’atto del sottomettersi è un’azione che l’orgoglio dell’uomo fatica ad accettare. Innumerevoli sono le sottomissioni: ci si sottomette a uno che ci costringe con la forza, ci si sottomette all’indifferenza, ci si sottomette alla comodità borghese del benessere, ci si sottomette al caso, e ci si sottomette a una autorità superiore. Ma anche a qualcuno di più affascinante, di più sommamente intelligente, di più incomprensibilmente creativo: il nostro Datore di vita. E forse tra le tante accezioni del verbo sottomettersi vi è anche contenuto il primo gesto di riconoscenza, quello verso il Padre.
Per avere il coraggio di dire a Houellebecq questa ultima frase però dovrei bere molto più di lui: impresa ardua.