L’islam aspetta ancora la sua rivoluzione culturale. Un’intervista a Samir Khalil Samir di Giorgio Paolucci
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Riprendiamo da Avvenire del 28/1/2015 un’intervista a Samir Khalil Samir di Giorgio Paolucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/2/2015)
La cultura dell’incontro proposta da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium è la chiave per un rapporto fecondo tra islam e Occidente. Ma il mondo musulmano è chiamato a fare una rivoluzione culturale per riconciliarsi con la modernità e a rifiutare con nettezza le sirene del fondamentalismo e della violenza. Parola di Samir Khalil Samir, egiziano, anch’egli gesuita, islamologo di fama internazionale, docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma, da sempre impegnato sul fronte di un dialogo autentico.
Il terrorismo di matrice islamista sta usando con grande efficacia la Rete come strumento di arruolamento di nuovi adepti. Qualcuno osserva che Internet sta sostituendo le moschee...
«Nel mondo musulmano le moschee continuano a svolgere un ruolo fondamentale nella formazione delle coscienze. La stragrande maggioranza considera dirimente quello che viene detto durante la khutba, la predica del venerdì che – detto per inciso – generalmente pesa molto di più delle omelie pronunciate dai parroci nelle chiese. E purtroppo molti imam propongono una lettura fondamentalista del Corano, che arriva a giustificare il ricorso alla violenza in nome di Dio. Tutto questo è figlio di un’impostazione radicale che viene proposta nella maggior parte delle università islamiche, dove da decenni si è diffuso come un virus il pensiero wahhabita nato in Arabia Saudita e poi propagato – anche grazie a ingenti finanziamenti – in altri Paesi islamici e anche in Occidente».
Perché parla di «virus»?
«Perché il grande problema del mondo musulmano sta nell’incapacità di coniugare la fede e la modernità. Quando si legge il Corano è necessario usare la ragione, e quindi dare spazio all’interpretazione, all’esegesi, allo spirito critico, come ha saputo fare la Chiesa nel corso dei secoli. Nell’islam invece continua a prevalere un approccio "meccanicista", che porta a praticare una specie di "copia e incolla", per cui certi versetti del libro sacro dei musulmani, scritte nel VII secolo, vengono riproposti come se fossero ricette per rispondere alle domande poste dall’attualità. E così il ricorso alla violenza, che ai tempi di Maometto era largamente praticato – come dimostra la storia dell’espansione islamica nei primi decenni seguiti alla sua predicazione – viene legittimato e addirittura esaltato. Ma questo corrispondeva alla mentalità del tempo!».
C’è però chi nel mondo islamico si oppone a questa impostazione…
«È vero, ma i pensatori illuminati sono ancora troppo pochi, isolati, spesso criticati e scarsamente influenti sulle masse. Le quali – non possiamo dimenticarlo – scontano una diffusa ignoranza (in Egitto il 40% è analfabeta) e quindi si affidano alle interpretazioni proposte dagli imam. Per questo sono convinto che la questione fondamentale è la necessità di una nuova ermeneutica, di un nuovo approccio al Corano e alla tradizione, che dovrebbe essere insegnato agli imam. Qualcosa sta accadendo, e in questo senso ritengo molto importanti le parole pronunciate dal presidente egiziano Al-Sissi all’università di Al-Azhar, che è il principale centro di irradiazione del pensiero sunnita a livello mondiale, e forma ogni anno migliaia di imam che operano in Egitto e in molti altri Paesi. Al-Sissi ha sollecitato uno sforzo diretto contro le cattive interpretazioni dell’islam, che incitano alla violenza e alla chiusura rispetto alle altre comunità, e si è domandato come sia possibile che la religione islamica venga percepita come "fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione" dal resto del mondo. O come ci possa essere fra i musulmani chi pensa che la sicurezza possa essere raggiunta solo eliminando gli altri 7 miliardi di abitanti del mondo. Parole pesanti, anche se temo che ci vorrà molto tempo perché diventino pensiero diffuso, e arrivino a forgiare la mentalità e i comportamenti della gente. Ma l’islam deve fare la sua rivoluzione culturale, anziché continuare a guardare indietro».
Come si spiega la forte capacità di attrazione che stanno esercitando le tendenze fondamentaliste anche tra i musulmani che vivono da tempo in Europa?
«Credo sia giusto precisare anzitutto che la maggioranza della comunità non si riconosce in queste tendenze. La forza di attrazione esercitata dagli estremisti dipende principalmente da due fattori: la debolezza di proposta ideale da parte dell’Occidente, che viene visto come una civiltà decadente, sempre più lontana da un vero sentimento religioso, e il fascino esercitato da parole d’ordine essenziali, che veicolano slogan ad effetto, promettono paradisi (inesistenti), veicolano l’illusione di una rigenerazione personale e collettiva. E allora anche la violenza viene accettata per arrivare allo scopo. Quando una promessa a buon mercato si innesta su una ragione indebolita, lo scivolamento verso il fondamentalismo diventa più facile».
Con i tempi che corrono il dialogo sembra essere un’utopia, o qualcosa che appartiene più ai circoli intellettuali che alla realtà quotidiana. Eppure c’è una compenetrazione sempre più stretta tra islam e Occidente, che sono obbligati alla coesistenza. A partire da cosa è possibile costruire una vera convivenza?
«Il punto di partenza è la comune umanità che ci costituisce. Siamo anzitutto persone, e nella vita quotidiana sono tante le occasioni in cui cristiani e musulmani si trovano fianco a fianco e imparano dall’esperienza come si può vivere insieme. Pochi giorni fa il Papa lo ha ridetto a chiare lettere, ricevendo i membri del Pisai (Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica): "Al principio del dialogo c’è l’incontro. Da esso si genera la prima conoscenza dell’altro". Trovo che una delle indicazioni più ricorrenti di questo pontificato, la cultura dell’incontro, sia la chiave su cui fondare la costruzione di una convivenza solida. Partendo dalla riscoperta dell’io, della propria identità vissuta come risorsa per incontrare l’altro, piuttosto che come "arma" per contrapporsi. È una sfida vertiginosa, ma mi sembra l’unica strada che può portare frutti. Chi ripropone la contrapposizione frontale fa il gioco dei carnefici dello Stato islamico».