L’ora più buia per i gesuiti. La compagnia venne soppressa nel 1773 anche per il suo impegno antischiavista, di Paolo Mieli
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 20/1/2015 un articolo scritto da Paolo Mieli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sulle Reducciones ed il film Mission, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (8/3/2015)
La Compagnia di Gesù fu soppressa il 21 luglio del 1773 da papa Clemente XIV, al secolo Lorenzo Ganganelli, con il breve Dominus ac Redemptor. Quando, quattro anni prima, papa Ganganelli era stato eletto, qualcuno volle ricordare che quell’uomo - nato a Sant’Arcangelo di Romagna e appassionato di cavalli - prima di diventare francescano era stato buon amico dei seguaci di Sant’Ignazio.
Ma il letterato gesuita Giulio Cesare Cordara - storico ufficiale della Compagnia nonché testimone diretto degli eventi - così ricordò l’atmosfera che avvolse l’ascesa al soglio di Clemente: «Il popolo si rallegrò, la nobiltà si stupì, gli eruditi si astennero dall’esprimere giudizi, i conventuali trionfarono, soltanto i gesuiti si rattristarono sprofondando in un cupo presentimento, perché sapevano che il Papa era totalmente di sentimenti spagnoli».
E la Spagna, quegli uomini della Compagnia - fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola e riconosciuta nel 1540 da Paolo III con l’intenzione di farne la punta di lancia della lotta contro Lutero - li aveva cacciati già nel 1767 (dopo che lo stesso avevano fatto il Portogallo nel 1759 e la Francia nel 1764). L’Austria si era poi adeguata alla decisione di papa Clemente. Prussia e Russia, no.
Lì, soprattutto in Russia, i gesuiti sopravvissero fino al 1814, quando, al tracollo di Napoleone Bonaparte, la Compagnia fu ricostituita ad opera di Pio VII. Nel frattempo papa Ganganelli era morto un anno dopo la soppressione dell’ordine, nel 1774, e si era sparsa la voce (priva di alcun fondamento) che fosse stato avvelenato da sicari ignaziani.
L’ultimo generale dell’ordine, Lorenzo Ricci, morì l’anno successivo, nel 1775, mentre era ancora prigioniero a Castel Sant’Angelo. Il mondo illuminista visse questi eventi come un trionfo della ragione sulla superstizione e sull’oscurantismo, a danno di un ordine che già da tempo era in declino. E come tali quei fatti e queste valutazioni si sono depositati nei testi di storia.
Ma adesso - in un libro che sta per essere pubblicato dal Mulino, I gesuiti - Claudio Ferlan approfondisce le remote cause della decisione di Clemente XIV e giunge alla conclusione che «l’immagine del declino sia piuttosto stata costruita a posteriori, al fine di trovare una spiegazione alla soppressione del 1773». Declino? In Francia, ricorda Ferlan, «i padri della Compagnia avevano ricoperto il ruolo di consiglieri dei re dalla fine del Cinquecento e lo avrebbero mantenuto fino alla dissoluzione».
In questo lungo periodo «i loro collegi furono luoghi privilegiati per la formazione di buona parte delle élite nazionali, culturali e politiche». Ad esempio, frequentarono il Collegio Louis-le-Grand Molière, Voltaire, Diderot e Robespierre; in quello di La Flèche studiò Cartesio. Luigi XIV, scrive Ferlan, «aveva riposto una notevole fiducia nei confronti di due ignaziani, François Annat e François de La Chaize, scegliendoli come confessori».
Inoltre alcuni professori del Collegio Louis-le-Grand pubblicarono tra il 1701 e il 1762 l’importantissimo mensile «Mémoires pour l’Histoire des Sciences et des Beaux-Arts» (noto come «Journal de Trévoux» dal nome della località della Borgogna in cui aveva sede la sua stamperia), che raggiunse l’obiettivo di mettere a disposizione di chiunque fosse interessato dettagliati commenti sulle principali opere che erano state pubblicate nella prima metà del Settecento.
La verità è che la guerra ai gesuiti era iniziata e si era sviluppata già un secolo prima in un altro continente, l’America Latina. In ragione della loro ostilità alla schiavismo. Come hanno ben documentato Jean Andreau e Raymond Descat in Gli schiavi nel mondo greco e romano (Il Mulino) «è nel corso dell’alto Medioevo che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista».
E la Chiesa, scrive Rodney Stark in A gloria di Dio (Lindau), è stata in prima fila nella battaglia contro la schiavitù. Lo fu ai tempi di Carlo Magno. Nel IX secolo con il vescovo Agobardo di Lione. Nell’XI con Sant’Anselmo. Nel XIII con Tommaso d’Aquino. Nel 1435 con papa Eugenio IV.
E lo fu soprattutto quando il tema degli schiavi riemerse nel nostro continente dopo la scoperta dell’America. Il 2 giugno 1537, papa Paolo III emanò la bolla Veritas Ipsa (nota anche come Sublimis Deus) nella quale minacciò di scomunica coloro che avessero ridotto in schiavitù i nativi. Nel 1639, Urbano VIII con la bolla Commissum nobis avrebbe ribadito le posizioni di Paolo III.
La Chiesa riuscì anche a influenzare l’imperatore Carlo V, il quale nel 1542 promulgò le «Leyes Nuevas», che vietavano di ridurre gli indigeni a schiavi nelle regioni spagnole del Nuovo Mondo. In quello stesso periodo, vescovi locali riuscirono a far accettare alla corte spagnola il «Código Negro Español» che mitigava le condizioni dei primi africani trasportati in Brasile dai negrieri.
Fu in quell’epoca che i gesuiti iniziarono a costruire i primi insediamenti, le «missioni», per dedicarsi all’evangelizzazione degli indios guaraní. Ma all’inizio del Seicento i coloni bianchi presero a organizzare delle bandeiras, vere e proprie spedizioni per catturare indios da ridurre in schiavitù. Fu in questa fase che alcuni gesuiti con un passato militare (Juan Cardenas, Antonio Bernal, Domingo Torres) aiutarono i guaraní a formare un vero e proprio esercito per resistere alle incursioni dei bandeirantes.
L’11 marzo 1641 le due milizie si trovarono di fronte una all’altra nella battaglia del fiume Mbororé e i bandeirantes, in massima parte portoghesi, ebbero la peggio. A questo punto i gesuiti costruirono sulle missioni qualcosa che assomigliava ad una grande Repubblica cristiana.
Tali istituzioni, scrive Ferlan, si localizzarono nella provincia del Paraguay, un territorio molto più vasto di quello occupato dall’omonima repubblica contemporanea, che comprendeva zone appartenenti oggi anche ad Argentina, Brasile e Uruguay. Fu così che nelle città schiaviste in mano ai portoghesi le missioni divennero assai impopolari.
«Quando, a Rio de Janeiro, i gesuiti lessero pubblicamente una bolla papale contro la schiavitù», riferisce Stark, «una folla inferocita attaccò il loro collegio e ferì molti sacerdoti. Quando poi un tentativo analogo di pubblicizzare la condanna papale della schiavitù venne fatto a Santos, i gesuiti furono espulsi dal Brasile».
Ma procediamo con ordine. Entra in scena qui Gabriele Malagrida, un gesuita nato a Menaggio sul lago di Como alla fine del Seicento. Nel 1721, Malagrida ottiene di essere inviato come missionario in Sudamerica, nello Stato del Maranhão sotto il controllo della corona portoghese. Qui si batte con decisione contro la schiavitù, si fa una fama immensa e gli vengono addirittura attribuiti miracoli.
Nel 1749 il re del Portogallo, Giovanni V, lo vuole a Lisbona perché gli faccia da padre spirituale. Lo ammira, gli è devoto, così come sua moglie, Maria Anna d’Austria. Di lì a poco, però, Giovanni muore (1750) e suo figlio, Giuseppe I, nomina Malagrida consigliere per i possedimenti d’oltremare e lo rispedisce in Brasile.
Giuseppe chiama al suo fianco, come primo ministro, Sebastião José de Carvalho, marchese di Pombal. E fu su una nave di Stato che, assieme al fratello del Pombal, nominato governatore del Maranhão, Malagrida fece ritorno in Brasile.
Durante il viaggio i due non si piacquero, da quel momento i loro rapporti furono sempre più tesi e tali restarono al tempo del loro soggiorno in terra brasiliana. Nel frattempo il Pombal a Lisbona varava una serie di provvedimenti antigesuitici, «preceduti», scrive Ferlan, «da un’articolata campagna diffamatoria alimentata da libelli accusatori pubblicati e diffusi in buona parte d’Europa proprio con il sostegno del primo ministro portoghese».
E quando, nel 1753, Malagrida decide di tornare in Portogallo, l’accoglienza è ben diversa da quella che gli aveva riservato Giovanni V: il gesuita taumaturgo viene esiliato a Setúbal.
Nel 1755, Lisbona è sconvolta da un terremoto: le vittime sono decine di migliaia, la città è distrutta quasi per intero. Fu allora, ha scritto il gesuita Guido Sommavilla in La compagnia di Gesù (Rizzoli), «che quel santuomo di Malagrida, e ci dispiace tanto, sbagliò, dando luogo ad una tipica controversia oscurantistico-illuministica, nientemeno che tra lui e Pombal in persona».
Predicò nelle chiese superstiti e nei campi dei rifugiati che il sisma era un castigo di Dio sulla città peccatrice. Gli illuministi lo presero a bersaglio, facendone l’emblema di una Chiesa oscurantista e superstiziosa.
Quel mondo illuminista che, ha fatto notare Stark, era stato indifferente alla battaglia antischiavista di Malagrida, e anzi da John Locke a Voltaire, da David Hume a Denis Diderot, aveva accettato la schiavitù, quando non aveva addirittura «investito i propri risparmi nel commercio degli schiavi».
Pombal - che per molti degli illuministi di cui sopra era ora un politico di riferimento - ritenne fosse venuta l’ora di mettere i gesuiti fuori gioco. Li fece indicare come responsabili di un’agitazione di viticoltori ad Oporto. Fece insinuare all’orecchio del Papa che fossero dediti alla «mercatura».
Benedetto XIV abboccò all’amo, mandò un visitatore pontificio a compiere indagini e subito dopo morirono all’improvviso sia il Papa che il patriarca di Lisbona. In un attimo si diffuse la voce che entrambi fossero stati «avvelenati dai gesuiti», registra Sommavilla, puntualizzando che si trattava di dicerie senza fondamento.
Ma il 3 settembre 1758 accadde qualcosa di decisivo. Quel giorno si registrò un attentato (fallito) a Giuseppe I. Ne nacquero innumerevoli mormorii e, scrive Ferlan, «ci fu con ogni probabilità lo zampino del primo ministro Pombal nel diffondersi in tutta Lisbona della notizia che i gesuiti fossero seriamente coinvolti nel complotto». Molti gesuiti furono tratti in arresto. Tra loro, Malagrida. Che rimase in carcere anche quando molti suoi confratelli furono rimessi in libertà. Ciò che avvenne dopo la scoperta che la congiura era stata organizzata dalla famiglia dei marchesi di Tavora.
Malagrida, che all’epoca dei fatti aveva settant’anni, venne addirittura accusato, sottolinea Ferlan, di aver «sedotto l’attempata marchesa di Tavora». E fu mandato al rogo, come eretico e ciarlatano, il 21 settembre 1761. Nel frattempo, due anni prima, Giuseppe I aveva firmato un decreto di espulsione dei gesuiti dal Portogallo.
Così Sommavilla ne ha descritto l’esodo: «I seguaci di Sant’Ignazio furono subito arrestati, imbarcati e gettati sulla spiaggia di Centocelle (Civitavecchia) nello Stato pontificio. La stessa sorte toccherà poi, a ondate, agli altri in tutto l’impero portoghese. Da Macao, India, Africa, Brasile, i gesuiti, portoghesi e non, furono stivati dentro navi, condotti a Lisbona e incarcerati. Durante la navigazione i morti furono almeno un centinaio».
Rispetto a quelli che erano stati mandati a Centocelle, molti di loro «ebbero una sorte ben più atroce, quella di marcire (è la parola) nelle carceri di San Giuliano alle foci del Tago o della cittadina di Azeitão, vere camere di tortura». Ancor oggi non si conosce il numero esatto di quanti furono quei sepolti vivi (forse trecento).
Si sa unicamente che ne sopravvissero quarantacinque. Solo quarantacinque.
Poi fu la volta della Francia a seguito del «caso Lavallette». Il gesuita Antoine Lavallette, a metà Settecento, si impegnò in affari per risolvere una crisi economica della sua missione. Il generale dell’ordine, Ignazio Visconti, gli impose di cessare quelle attività, ma Lavallette ignorò la disposizione. Non si trattava certo di un comportamento riconducibile al criterio della «obbedienza negoziata», osserva Ferlan, ma di «disobbedienza vera e propria».
Finché Lavallette finì in bancarotta, e poco tempo dopo, nel 1762, fu costretto a lasciare la Compagnia. Trascorsero due anni e Luigi XV che, in cambio del ripianamento del debito, avrebbe voluto il riconoscimento dell’indipendenza della Chiesa nazionale, il 26 novembre 1764 abolì l’ordine nel territorio francese. E fu il momento della scelta: gran parte dei gesuiti francesi scelse l’esilio, alcuni abiurarono. Tra loro quel Lavallette che era stato all’origine dell’incidente .
Infine fu la volta della Spagna di Carlo III. Qui il casus belli fu una sommossa popolare contro il ministro riformatore siciliano Leopoldo de Gregorio, marchese di Squillace. Il re affidò al ministro Pedro Rodriguez de Campomanes il compito di indagare sull’origine di quei moti e Campomanes raccolse una serie di «presunte evidenze» che conducevano ai seguaci di Sant’Ignazio. Il 3 aprile del 1767 anche la Spagna espulse i suoi cinquemila gesuiti. Seguita, quello stesso anno, dal Regno di Napoli e, nel successivo, dal Ducato di Parma.
Papa Clemente XIII, a cui fu chiesta una bolla di soppressione universale, disse che si sarebbe tagliato una mano piuttosto che concederla. Ma di lì a breve, nel 1773, il suo successore, Clemente XIV, dopo aver tergiversato per quattro anni, acconsentì. Il generale dei gesuiti, Lorenzo Ricci, fu rinchiuso a Castel Sant’Angelo dove morì nel 1775. Non al rogo come Malagrida, ma pur sempre in carcere. E lo schiavismo poté imperversare fino al secolo successivo.
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