Centomila anni di fede nell’aldilà, di Julien Ries
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Riprendiamo da Avvenire un testo di Julien Ries pubblicato il 23/1/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2015)
Il cassetto dell’antropologo
Anticipiamo in queste colonne ampi stralci della riflessione inedita di Julien Ries L’homo religiosus e il suo destino, contenuta nel volume Vita ed eternità nelle grandi religioni in uscita per Jaca Book come XII volume dell’Opera omnia dello storico delle religioni. Il libro raccoglie e organizza l’“Archivio Ries per l’antropologia simbolica” presso l’Università Cattolica di Milano, diretto da Silvano Petrosino in collaborazione con Jaca Book. Si tratta di una grande sintesi manoscritta, consegnata da Ries alla Cattolica in occasione del conferimento della laurea honoris causa nel 2010, probabilmente preparata per un corso che non ebbe occasione di tenere e definita nella nota editoriale che accompagna il libro «un’opera uscita da un cassetto». Lo stesso Ries convenne sull’opportunità di pubblicare il materiale come XII volume dell’Opera omnia, inizialmente non previsto. Creato cardinale nel 2012, Ries morì l’anno successivo a Tournai.
Nella storia dell’umanità l’homo religiosus assume una modalità specifica di esistenza, che si esprime in diverse forme religiose e culturali. Lo si riconosce dal suo stile di vita: crede all’esistenza di una realtà assoluta che trascende questo mondo e vive delle esperienze che, attraverso il sacro, lo mettono in relazione con questa Trascendenza. Rileviamo che egli crede all’origine sacra della vita e al senso dell’esistenza umana come partecipazione a un’Alterità. È anche un homo symbolicus, che coglie il linguaggio delle ierofanie, attraverso le quali il mondo gli rivela delle modalità che non sono evidenti di per se stesse.
Le prime tombe che ci offrono una certezza della credenza in una sopravvivenza provengono da Qafzeh e da Skuhl, nel Vicino Oriente, grazie alla presenza di tracce di cibo e di utensili in prossimità degli scheletri: si tratta del 90000 a.C. A partire dall’80000, l’uomo di Neandertal moltiplica questi riti. Dal 35000, nel Paleolitico superiore, l’Homo sapiens sapiens applica un trattamento speciale al cadavere del defunto: ocra rossa, ornamenti attorno alla testa, conchiglie incastonate nelle orbite oculari, perle d’avorio disposte sul corpo. A partire dall’inizio del Neolitico ci si trova in presenza del culto dei crani conservati dai vivi. Nel V millennio sorge la dea. La scoperta da parte di Marija Gimbutas del sito di Achilleion in Tessaglia offre una visione della religione arcaica dell’Europa grazie alle numerose dee, tra le quali quella della vita e della morte.
Un grande passo avviene nella coscienza della sopravvivenza e dell’aldilà presso gli antichi Indoeuropei. Presso i neo-Ittiti dell’Asia Minore, le rappresentazioni del grappolo d’uva e della spiga costituiscono dei simboli escatologici che significano che l’anima umana sarà ricevuta nel mondo del dio della tempesta. Presso i Celti sono state trovate numerose tracce degli oggetti che facevano parte della vita del defunto: gioielli, armi e vasi, ma anche l’uovo rotto, segno della vita e del rinnovamento periodico della vita. Non c’è più tempo né spazio. È la dottrina escatologica dei druidi. Presso gli antichi Germani e Scandinavi, invece, la sorte dei defunti è vista in maniera meno ottimista.
Verso il 1800 a.C. troviamo i primi campi di urne, segni della cremazione del cadavere. Presso i Germani, il destino esprime il furore di vivere: onore, fama, reputazione, esistenza in ogni membro del clan (Sippe) di una forza sacra proveniente dal destino. I defunti continuano a vivere nella loro tomba, ma ritornano periodicamente tra i vivi. Hel, Halja è il soggiorno dei morti. La vita qui è triste, fatta eccezione per il Valhalla, soggiorno riservato dal dio Odino ai guerrieri caduti sul campo di battaglia. Essi bevono l’idromele sacro nel corso dei banchetti, che non hanno mai fine.
Tra le grandi religioni del Vicino Oriente antico, l’Egitto faraonico ha una visione molto ottimista dell’aldilà. L’homo religiosus dell’Egitto faraonico viveva nella meraviglia: il Nilo è il dio della vegetazione. Ankh è il segno della vita, onnipresente e sacra. Per l’egizio, la vita umana non deve cessare con la morte. Come simbolo della sopravvivenza, l’ankh è presente nelle tombe e su tutti i documenti funebri: fa parte del rituale dell’imbalsamazione.
La prima preoccupazione dell’egizio era la costruzione della sua tomba, la sua «casa d’eternità». Una seconda preoccupazione concerneva la conservazione del suo corpo grazie alla mummificazione. Nella religione di Zarathustra il destino umano è molto diverso: un’antropologia dualista oppone l’anima al corpo, che è considerato malvagio e da disprezzare, da cui il rito della scarnificazione del cadavere da parte degli avvoltoi per impedire di insozzare l’acqua e la terra.
Una corrente spiritualista – lontana eredità del pensiero indoeuropeo – dà grande importanza all’anima. La vita è una scelta tra il bene e il male. La salvezza dell’uomo passa per un giudizio consecutivo alla morte, durante il passaggio del ponte di Chinvat, il ponte della separazione tra salvati e dannati, in conformità alla vita condotta dall’uomo sulla terra. Si tratta di una dottrina escatologica ottimista, che perdura ancora oggi tra i parsi dell’India e i guebri in Iran.
Ora il nostro sguardo si volge all’Asia Centrale e all’Estremo Oriente, in modo da esaminare brevemente i testi dell’India, della Cina e del Tibet. Nell’India vedica, il sole appare come la sostanza del ringiovanimento e costituisce il prototipo del fuoco sacrificale. Nell’uomo ciò che sopravvive dopo la morte è l’essenza del suo essere, inserito in un prolungamento della durata legata al cosmo. I Brahmana sistematizzeranno questa nozione di durata dando al rito la forza di un oltrepassamento della morte.
Il pensiero upanishadico strappa l’India al ritualismo brahmanico e conferisce all’atto umano una forza che porta i suoi frutti al di là della morte e presenta due cammini: il primo è la trasmigrazione, il ritorno in un corpo, il secondo è la strada degli dei, l’identificazione definitiva tra atman e Brahman. Nella sua reazione alla religione vedica e brahmanica, il Buddha nega l’esistenza dell’atman. Tuttavia non sopprime l’immortalità, ma afferma il nirvana, che è liberazione dalle rinascite e dalla morte, beatitudine per eccellenza, rinfrescarsi, felicità perfetta e salvezza.
Ritroviamo questa dottrina, leggermente modificata, presso i buddhisti del Tibet e della Cina. In questo immenso Paese, accanto al buddhismo esistono due religioni originarie: il taoismo e il confucianesimo, che sono anche filosofie e vie di saggezza. È all’inizio della nostra era che appare una religione taoista di salvezza, con le sue scuole, i suoi templi e il suo clero, che propone ai fedeli di condurli all’immortalità spiritualizzando il corpo: la loro ricerca è un’esaltazione della condizione umana primordiale. Confucio instaura un umanesimo, ma richiede ai suoi adepti di rendere un culto ai defunti, in particolare agli antenati.
Alla fine dell’era antica e nei primi secoli della nostra era si dispiegano due religioni dualiste e iniziatiche, che veicolano un’antropologia fondata su un’opposizione radicale tra il bene e il male, tra il corpo e lo spirito, cosa che conduce l’uomo all’obbligo di liberare l’anima dalla prigione del corpo. Queste due correnti sono l’orfismo e lo gnosticismo; quest’ultimo sfocia nel manicheismo. Fondata da Mani sul mito iranico dei due regni, la sua religione concepisce l’uomo come un miscuglio di luce e di tenebre: la sua anima è una scintilla divina prigioniera della materia. Votato alla distruzione come nel mazdeismo, il corpo deve essere abbandonato alle tenebre, mentre l’anima, illuminata dalla gnosi, procede a una katharsis permanente. Alla morte, l’anima dell’eletto inizia la sua salita trionfale verso il regno della Luce. Coloro che hanno rifiutato il messaggio gnostico sono gettati nella massa dannata per l’eternità.
Nella credenza comune dei Greci, le anime dei morti discendono nell’Ade senza speranza di ritorno. Tuttavia, la tradizione dei pasti funebri contraddice l’idea dell’anima imprigionata per sempre nell’Ade. In Attica, nel VI secolo, le tombe più lussuose sono ornate con l’immagine del defunto idealizzato, rappresentato nella pienezza della forza e della bellezza, come se la morte gli avesse conferito una nuova giovinezza. A Roma la credenza più vecchia ammetteva che l’anima risieda nella tomba con il cadavere, da cui la protezione e la venerazione della tomba affinché il defunto vi resti in quiete.
Dopo questo percorso attraverso le religioni preistoriche e le religioni d’Oriente e d’Occidente resta un ambito specifico da considerare: la sopravvivenza e l’immortalità nei tre monoteismi abramitici, nei quali lo storico delle religioni è messo a confronto con una dottrina rivelata, il che significa un nuovo apporto legato a un’ermeneutica teologica. In queste tre religioni siamo in presenza della fede dei credenti in un Dio unico, autore di una rivelazione che dirige la loro vita e che si trova consegnata in due libri sacri, la Bibbia e il Corano. Gli ebrei credevano primitivamente che il defunto risiedesse nella sua tomba, ma a questa visione è venuta a sovrapporsi l’idea di un soggiorno nello sheol, un luogo sotterraneo e oscuro.
Nell’Antico Testamento la dottrina della resurrezione appare tardi, in Giobbe, nei Salmi, in Ezechiele, in Daniele e in modo preciso nel secondo libro dei martiri d’Israele. Nel Libro della Sapienza, scritto in greco verso il 50 a.C., si trova il vocabolo aphtarsis, «immortalità».
Nel Nuovo Testamento Gesù afferma che coloro che entreranno nel Regno riceveranno in cambio un’esistenza di pace e di felicità (Mc 1,15). In Fil 1,19-26 Paolo afferma la sua certezza di non essere mai separato da Cristo. La dottrina del Nuovo Testamento sull’immortalità e sulla resurrezione dei cristiani sulla scia del Cristo resuscitato e glorioso fonda ormai da venti secoli l’escatologia cristiana. Secondo il Corano, l’annuncio del giorno del giudizio si situa all’inizio della predicazione di Muhammad e si pone nella prospettiva della resurrezione, che sarà la riunione della razza adamitica. I credenti saranno chiamati a gioire del paradiso, mentre gli empi saranno condannati ai tormenti.
In conclusione constatiamo che l’homo religiosus, dalla Preistoria fino alla nostra epoca, ha lungamente riflettuto sul suo destino finale. Ha inventato una serie notevole di riti funebri per accompagnare la sua credenza in una sopravvivenza e ha fatto costruire la sua «casa d’eternità» come l’egizio dell’epoca faraonica.
L’homo christianus, ancorato alla sua fede nel Cristo resuscitato e glorioso, vive nella speranza di una felicità eterna e della resurrezione nell’«ultimo giorno». Tornato alla fede cristiana dei suoi anni giovanili, il grande storico delle religioni Franz Cumont intitolò il suo ultimo libro Lux perpetua.