La Chiesa e il nazismo. File audio ed antologia di testi di una lezione tenuta da Andrea Lonardo presso il Seminario Romano Maggiore
Il nazismo e la Chiesa (presso il Seminario Romano Maggiore)
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Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una lezione di Andrea Lonardo sulla Chiesa e il nazismo tenuta presso lil Pontificio Seminario Romano Maggiore il 17/1/2015. Per ulteriori file audio vedi la sezione Audio e video. L'audio del precedente incontro è disponibile al link La dottrina sociale della Chiesa da Leone XIII alla I guerra mondiale. File audio ed antologia di testi di una lezione tenuta da Andrea Lonardo presso la chiesa di Santa Maria di Loreto al Foro Traiano.
Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2015)
Premessa: con quali occhi guardiamo oggi la violenza del XX secolo, qual è l’ottica e la prospettiva?
1/ Nel 2015 aprirà l’Archivio Vaticano di quegli anni, secondo la giusta regola dei 70 anni trascorsi
2/ Ogni generazione pensa che il “male” appartenga al passato. Purtroppo non è difficile accorgersi che i fatti odierni ricalcano le stesse orme del genocidio degli armeni, di quello nazista, dei gulag sovietici. E con esso le stesse domande: chi ha il coraggio della denuncia? Chi ha il coraggio dell’intervento? Come denunciare senza rendere più difficile il lavoro di chi sul posto sta dando la vita per alleviare il dolore? Si va dall’evidenza assoluta di Kobane o del voltafaccia di Obama grazie alla preghiera di papa Francesco, a situazioni più sfumate…
Da Simon Wiesenthal, Per l'uomo, Jaca Book-Edizioni Casagrande Bellinzona, Bellinzona, 1990
“Ma che senso ha punire ancora, dopo tanti anni?”.
Punire è impossibile. Ma io vorrei avere questa possibilità; deve essere di avvertimento ad altri. Ogni tanto faccio un sogno, sempre lo stesso: mi vedo vicino ad un vecchio tribunale; c'è l'emblema della giustizia, con gli occhi bendati e la bilancia. Io dico al giudice: “Tolga la bilancia”. “Perché? - mi chiede - é qui da cent'anni”. E io dico: “Perché questo simbolo la obbliga a dare una sentenza equilibrata. Guardi questo ometto: ha ucciso solo cinquecento persone. E' in grado di emettere una sentenza equilibrata?” “No, signor Wiesenthal - mi dice - lei richiede l'impossibile!”.
Vede, quello che noi vogliamo è un avvertimento per gli assassini di domani, che oggi forse sono già nati. Non possiamo sapere quando nascono gli assassini delle nostre famiglie. Ma loro devono sapere che, se la storia si dovesse ripetere, contro gli ebrei o contro altri, saranno perseguiti: e non è detto che il prossimo olocausto debba essere contro gli ebrei.
Questo è l'avvertimento: né il tempo né la distanza proteggono chi ha preso parte a un assassinio di massa. Se non potessimo dare questo avvertimento, milioni di persone sarebbero morte per niente.
dal sito Vatican Insider un articolo redazionale pubblicato il 18/9/2014
Lauder ha riferito quanto gli ha detto Papa Francesco: «Nel mondo ci sono ancora grandi sofferenze, prima è stato il vostro turno, adesso è il nostro turno».
Il presidente del World Jewish Congress ha sottolineato: «Prima gli ebrei hanno sofferto selvaggi attacchi e il mondo è rimasto in silenzio. Ora sono i cristiani che vengono annientati e di nuovo il mondo dice poco. Perché - chiede Lauder - il mondo non reagisce?». Riferendo dell'incontro con Bergoglio il leader del Congresso Ebraico Mondiale ha aggiunto: «Il World Jewish Congress e il Papa sono d'accordo nel condannare i selvaggi attacchi contro i cristiani in Medio Oriente e in altre regioni del mondo».
1/ Roma e il nazismo: una prospettiva nuova. Penetrare nell’orrore senza smettere di guardare il bene
- La Bulgaria, la Danimarca, a suo modo la Spagna, non la Svezia che, neutrale, lasciò passare in nazisti perché attaccassero la Norvegia
1.1/ I salvati e il Pontificio Seminario Romano Maggiore
da C. Badalà, La scelta di accogliere. I rifugiati al Laterano: l’attività del Pontificio Seminario romano maggiore e il ruolo della Santa Sede, in Ricerche per la storia religiosa di Roma, 12 (2009), pp. 287-360 e 292-293 e 302-310
Il numero dei rifugiati in Seminario raggiunse ben presto una quantità rilevante, soprattutto dopo la metà di ottobre, comprendendo persone di varie età e categorie, che si sentivano in pericolo e che, con motivazioni diverse, chiedevano protezione al riparo dello stemma pontificio.
La presentazione (scritta o verbale) da parte di un sacerdote, spesso un alto prelato, o di una personalità autorevole era abitualmente necessaria per essere accolti tra gli ospiti del Seminario. Il senatore Domenico Bartolini, ministro delle finanze del governo Badoglio, arrivò tra i primi, accompagnato da don Mario Di Sora, parroco di Santa Maria in Domnica alla Navicella. I politici dei partiti antifascisti invece, in genere, venivano inviati al Seminario da monsignor Pietro Barbieri, la cui abitazione in via Cernaia 14, presso i padri Maristi, era divenuta rapidamente un luogo di accoglienza temporanea e di riunioni clandestine. Meuccio Ruini, ad esempio, riferisce di essere stato accolto al Laterano per iniziativa di Barbieri e con il consenso del Vaticano; anche Pietro Nenni proveniva dall'abitazione di Barbieri. Il presidente del Comitato di liberazione nazionale, Ivanoe Bonomi, fu ospitato dapprima, dal 21 al 24 ottobre 1943, in un appartamento situato nell'area extra territoriale lateranense, adiacente alla cappella Corsini della basilica di San Giovanni, nel quale abitava la madre di monsignor Ronca; non sopportando l'isolamento, però, preferì lasciare quasi subito quel rifugio. Tuttavia pochi giorni dopo, il 7 novembre, tornò al Laterano, questa volta in Seminario, sapendo che lì non sarebbe stato isolato ma avrebbe trovato altri uomini politici. Bonomi specifica di essere stato esortato a mettersi al sicuro anche dalla Segreteria di Stato. Diverso è invece il caso di Alcide De Gasperi, che trovò accoglienza dapprima presso i responsabili di organismi che avevano sede nel Palazzo lateranense: il verbita tedesco padre Michael Schulien, direttore scientifico del Museo missionario etnologico, e Carmine Caiola, direttore amministrativo dei Musei lateranensi. Tuttavia, Caiola non aveva previamente avvertito le competenti autorità vaticane e perciò «si trovò in imbarazzo e ricorse a mons. Ronca perché lo accogliesse in Seminario».
Alla luce della documentazione e dei testi citati, è evidente che la Santa Sede conosceva almeno dal mese di ottobre 1943 l'attività di accoglienza svolta dal Seminario; in alcuni casi, anzi, proprio dal Vaticano erano state inviate persone affinché fossero ospitate. Si può essere certi che ne fosse a conoscenza anche il papa, poiché gliene avevano sicuramente fatto giungere notizia le personalità menzionate nel promemoria citato: il nipote Carlo Pacelli, che ricopriva la carica di Consigliere generale dello Stato della Città del Vaticano, il sostituto della Segreteria di Stato monsignor Montini, il cardinale vicario Marchetti Selvaggiani, il cardinale Nicola Canali, presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, l'ingegner Enrico Galeazzi, persona tra le più vicine a Pio XII fin da prima dell'elezione al soglio pontificio. […]
I rifugiati
«Io non ho e non ho mai avuto un elenco delle personalità che in quel periodo ospitammo nei locali del Pontificio Seminario Romano Maggiore» dichiarò Ronca nel 1964. Un elenco completo in effetti non esiste, ma ve ne sono alcuni risalenti ai primi mesi dell'occupazione tedesca, mentre non risultano nell'archivio del Seminario liste posteriori all'inizio di febbraio del 1944.
La documentazione non consente di stabilire il numero dei rifugiati nel Seminario romano se non con approssimazione. Palazzini ritiene che fossero circa duecento: se si intende il numero massimo di presenze ad una certa data, è certamente attendibile; se invece si considera il totale delle persone che vi hanno trascorso un periodo, lungo o breve, nei mesi dell'occupazione tedesca, il numero dovrebbe essere più elevato. Oltre al Seminario, vi erano persone rifugiate anche negli altri edifici dell'area extraterritoriale: il Pontificio Ateneo lateranense, il palazzo dei canonici di San Giovanni, il convento dei penitenzieri della basilica (i frati francescani addetti ai confessionali) e il convento dei passionisti alla Scala Santa. Secondo i calcoli di Palazzini, comprendendo anche tali edifici, il numero dei rifugiati nella zona del Laterano ammontava a circa ottocento, ma talvolta giunse a superare i mille. Si tratta di una cifra molto elevata, sulla cui esattezza è impossibile compiere verifiche.
Molti nomi di persone rifugiate sono stati già pubblicati da Venier e da Palazzini; pertanto, in questo paragrafo l'attenzione verrà dedicata piuttosto ad individuare le principali categorie nelle quali è possibile raggruppare coloro che vennero accolti, facendo qualche nome solo a titolo di esempio.
Un gruppo molto numeroso (oltre cinquanta persone, su circa duecento rifugiati dei quali sono noti i nomi) è costituito dai giovani, non di rado studenti universitari, dei quali spesso è indicato l'anno di nascita (generalmente compreso tra il 1921 e il 1925). Si tratta, per la maggior parte, di persone che intendevano sottrarsi al servizio militare nelle forze armate fasciste che la Repubblica sociale italiana tentava di organizzare e, in minor misura, di giovani ebrei, che dopo la razzia tedesca del 16 ottobre 1943 erano consapevoli di rischiare la deportazione.
Cospicuo è anche il numero dei militari, comprendente ufficiali di vari gradi, dai tenenti ai generali: anch'essi non intendevano prendere le armi agli ordini della nuova entità statale fascista. I nomi più illustri sono quelli dell'ammiraglio Angelo Iachino, già comandante in capo delle forze navali italiane dal dicembre del 1940 all'aprile del 1943, e del generale Giovanni Zanghieri, già comandante del II corpo d'armata (che aveva combattuto in Russia dal giugno del 1942 al maggio del 1943).
L'accoglienza dei militari e dei giovani renitenti alla leva "repubblichina" dovette far sorgere qualche obiezione o difficoltà di ordine morale, se a distanza di molti anni alcuni dei responsabili del Seminario ritennero ancora necessario soffermarvisi. Al riguardo Ronca osserva:
Non si trattava di cooperare ad una fuga dal proprio dovere, di tendere una mano ad una debolezza umana, che sembrava rasentare i limiti della viltà. Per la maggior parte, soprattutto degli ufficiali, si trattava invece di un caso di coscienza: non la paura della deportazione, ma il rispetto, la fedeltà al proprio giuramento, l'adesione al governo legittimo. Per questo si può affermare che l'azione della Chiesa, lungi dall'infirmare le proprie tradizioni di lealtà alla coscienza e all'autorità costituita, ne è una ulteriore testimonianza.
Palazzini si esprime in modo ancor più deciso: «La resistenza passiva [...] ad un governo illegittimo, quale era la Repubblica di Salò, tenuto in pugno da un esercito usurpatore, eticamente era legittima ed in alcuni casi per alcune persone (ad es. funzionari dello Stato, ufficiali dell'esercito, ecc.) era anche doverosa».
Oltre ai militari, vi sono, per motivi analoghi (essenzialmente il rifiuto di mettersi al servizio del nuovo governo fascista repubblicano) anche diplomatici e alti funzionari statali, insieme a impiegati ministeriali. Nel paragrafo precedente sono già stati citati i nomi di due importanti esponenti di tali categorie, Gino Buti, già ambasciatore a Parigi, e Alfonso Gaetani, già prefetto di Firenze.
Un'altra categoria è quella dei professionisti, soprattutto avvocati e ingegneri. Tuttavia, non essendo generalmente specificata la loro età e in mancanza di altre indicazioni, è difficile ricostruire i motivi per i quali scelsero di cercare rifugio; per i più giovani potrebbero essere stati gli stessi delle categorie precedenti: evitare la chiamata alle armi, o ad altri servizi, della Repubblica sociale italiana. Solo in alcuni casi la ragione che li portò a nascondersi al Laterano è evidente, poiché accanto al nome vi è l'indicazione «israelita» o «ebreo».
Sono presenti anche un importante industriale, il senatore Leopoldo Parodi Delfino, e l'amministratore delegato di una nota impresa romana come la Pantanella, Gino Cohen; nel maggio del 1944, poco prima della liberazione di Roma, viene accolto anche il giovanissimo Giangiacomo Feltrinelli, erede di una vasta fortuna basata su grandi imprese e finanza. Non mancano alcuni commercianti, quasi tutti ebrei.
Un piccolo ma qualificato gruppo è quello dei docenti ed ex docenti universitari, alcuni dei quali ebrei: spiccano i nomi del filosofo del diritto Giorgio Del Vecchio, del geografo Roberto Almagià, del matematico Federico Enriquez, del radiologo Luigi Turano, dei giuristi Emilio Albertario (professore di diritto romano) e Paolo Biscaretti di Ruffia (docente di diritto costituzionale). «L'Osservatore Romano» all'inizio del 1944 reca in prima pagina un articolo di Del Vecchio, siglato soltanto con le iniziali: un caso singolare di pubblicazione sul quotidiano vaticano di uno scritto il cui autore era rifugiato, per sfuggire alle persecuzioni razziali, in un edificio sotto la sovranità della Santa Sede.
Tra i giovani e i militari, o talora senza alcuna qualifica, compaiono alcuni appartenenti alle più note famiglie principesche romane: Colonna, Massimo Lancellotti, Odescalchi, Torlonia. Molti di costoro risultano presentati dal giovane conte Rizzardi, il parente del papa citato nel paragrafo precedente.
Gli ebrei rifugiati in Seminario sono segnalati specificamente negli elenchi soltanto in una decina di casi, mentre per altre persone, pure certamente ebree, è indicata solo la professione; è il caso, tra gli altri, dei fratelli Paolo e Massimo Padovani e di Raniero Panzieri (poi divenuto un teorico del marxismo e un dirigente del Partito socialista), qualificati soltanto come studenti; Panzieri già dal 1940 era stato ammesso tra gli alunni del Pontificium Institutum utriusque iuris del Pontificio Ateneo lateranense, consentendogli così di seguire studi universitari, a lui preclusi nelle facoltà italiane dalle leggi razziali. Secondo un elenco consultato da Venier, i rifugiati ebrei erano in totale quarantotto. Uno dei politici rifugiati, Soleri, ne parla come di un gruppo numeroso: «Gli Ebrei hanno ricevuto dal Vaticano il più fraterno aiuto e assistenza, e molti ne sono qui rifugiati». Erano presenti anche alcune donne ebree, come ricorda Michael Tagliacozzo:
Riguardo le donne ospitate nel Seminario, oltre la moglie del professore [Del Vecchio], v'era la moglie di Simone Piperno; la giovane dottoressa (di cui non seppi il nome e che mi portò la notizia dello sbarco a Anzio - Nettuno mentre ero a letto colpito da bronchite), studentessa in medicina, in fase di perfezionamento pressola Clinica neuropsichiatrica dell'Università di Roma; la moglie e le due figlie di Salvatore Tesoro. Inoltre, ospitata presso un religioso della canonica, vi era la madre di Mario Frankfurter.
Infine, i due gruppi più noti. Il primo è costituito da quattro ministri del governo Badoglio che, non essendo stati invitati a seguire il re e il capo del governo nella fuga a Brindisi nella notte tra l'8 e il 9 settembre 1943, erano rimasti a Roma, in una situazione per loro molto pericolosa, mentre i tedeschi prendevano il controllo della città; formalmente rimasero in carica fino al febbraio 1944, anche se ormai privi della possibilità di esercitare i rispettivi compiti di governo. Si tratta di Umberto Ricci, ministro dell'interno; Leonardo Severi, ministro dell'educazione nazionale; Domenico Bartolini, ministro delle finanze; Giovanni Acanfora, ministro degli scambi e delle valute (e già direttore generale della Banca d'Italia dal maggio del 1940 al 26 luglio 1943). Vi era anche il figlio di un altro ministro, il giovane Eugenio De Courten, il cui padre Raffaele era ammiraglio e riuniva le cariche, di ministro e capo di stato maggiore della Marina. Il secondo gruppo include invece i principali esponenti politici antifascisti, compresa la maggior parte dei componenti del Comitato di liberazione nazionale, il massimo organo politico clandestino esistente nell'Italia non ancora liberata: a quelli già citati nei paragrafi precedenti - Bonomi (presidente del Comitato), Ruini, Nenni, De Gasperi, Soleri (questi ultimi due rimasero in Seminario solo fino ai primi di febbraio) - vanno aggiunti Alessandro Casati, arrivato in Seminario il 7 novembre 1943 insieme a Bonomi, Alberto Bergamini, giunto il 3 febbraio 1944, e Giuseppe Saragat, presente dall'inizio di aprile del 1944. Gli ultimi due erano evasi: Bergamini dall'edificio presso San Gregorio al Celio dove erano rinchiuse (anche se con agi impensabili in una normale prigione) molte personalità, e Saragat il 24 gennaio dal carcere di Regina Coeli, insieme a Sandro Pertini.
Risultano rappresentati quattro dei sei partiti che costituivano il Comitato di liberazione nazionale: democratico cristiano (De Gasperi), socialista (Nenni e Saragat), liberale (Casati e Soleri) e democratico del lavoro (Bonomi e Ruini). Mancano i dirigenti comunisti e azionisti, che preferivano non rifugiarsi in istituti religiosi. Molti dei politici antifascisti nascosti in Seminario divennero ministri del governo che si formò subito dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944, ad iniziare da Bonomi che fu nominato presidente del Consiglio, mentre Casati divenne ministro della difesa e Ruini, De Gasperi e Saragat ministri senza portafoglio.
Non mancano persone la cui presenza appare sorprendente: tra novembre e dicembre del 1943 infatti furono accolti nella zona extraterritoriale del Laterano - in un edificio diverso dal Seminario - anche la figlia, il genero e i nipoti del maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della difesa del governo fascista; vi rimasero fino all'arrivo a Roma delle truppe angloamericane. Inoltre, secondo le memorie di un ex rifugiato, era nascosto nel Seminario romano anche un giovane ufficiale dell'esercito tedesco, Norbert von Trauttmansdorff, di famiglia aristocratica austriaca, che aveva disertato dopo che il suo reparto era stato quasi interamente annientato da un bombardamento.
Col trascorrere dei mesi, l'ospitalità viene concessa anche ad altre persone. In mancanza di elenchi posteriori all'inizio di febbraio, si possono menzionare solo coloro della cui presenza al Laterano esistono notizie sicure. La personalità più importante è il generale Roberto Bencivenga, incaricato dal governo regio nel febbraio del 1944 di coordinare le forze del Fronte clandestino di resistenza operanti a Roma. Fu accolto a causa di circostanze impreviste: recatosi in Seminario per incontrare Bonomi, il generale uscendo scivolò sul marmo del pavimento e si ruppe un femore. Poiché non era possibile farlo ricoverare in ospedale senza rischiare che fosse catturato dalla polizia o dai tedeschi, il rettore decise di farlo restare. Bencivenga fu operato in Seminario e poi venne seguito nella convalescenza da vari medici, rimanendo al Laterano fino alla liberazione di Roma.
Il 20 maggio 1944 trovò ospitalità anche Franco Calamandrei, unico comunista del quale sia nota la presenza in Seminario; partigiano dei Gruppi di azione patriottica (GAP), il 23 marzo, aveva partecipato all'attentato in via Rasella contro un reparto germanico. E da supporre che, al momento dell'ingresso, i responsabili ecclesiastici ignorassero la sua partecipazione a quell'azione, in seguito alla quale i tedeschi attuarono per rappresaglia la strage delle Fosse Ardeatine.
Negli ultimi giorni prima della liberazione di Roma vennero accolti in edifici dell'area lateranense anche alcuni familiari del maresciallo Pietro Badoglio, anche se sembra che tra questi non vi fosse la figlia, contrariamente a quanto affermato da vari autori. Così, sia pure per pochi giorni, si giunse alla paradossale situazione di avere tra i rifugiati sia i parenti di un maresciallo d'Italia, capo del governo regio di Salerno che combatteva accanto agli angloamericani, sia i parenti di un altro maresciallo d'Italia, ministro della difesa nazionale nel governo repubblicano fascista di Salò, che combatteva insieme ai tedeschi.
Infine, nelle ultime ore prima dell'ingresso a Roma delle forza alleate, si diressero verso i cancelli dell'area extraterritoriale anche alcune persone appena uscite dal vicino carcere tedesco di via Tasso. Coloro che non erano stati caricati sugli autocarri per essere trasferiti al Nord (alcuni dei quali vennero fucilati dai tedeschi alla Storta, come Buozzi) si trovarono infatti inaspettatamente liberi la mattina del 4 giugno 1944. Alcuni andarono verso le loro case, altri si recarono al Laterano, sapendo che lì si trovava il generale Bencivenga e confidando di poter ricevere aiuto e accoglienza: tra costoro il generale Angelo Odone, che portava i segni evidenti delle torture subite fino al giorno prima.
1.2/ Le suore di clausura dei Santi Quattro Coronati e gli ebrei
Il testo del Memoriale del monastero dei Santi Quattro Coronati
VENERABILE MONASTERO DEI SANTI QUATTRO CORONATI
Roma
[Ultime nove righe dell’anno 1942]
Durante l’anno nessuna novità di rilievo. Si va avanti colle ansietà procurateci dalla grande guerra. Spaventi continui per allarmi notturni. Privazioni di cose necessarie. Pane, pasta, olio ecc.
Si celebra lo stesso con la consueta solennità la stazione quaresimale. Le funzioni della Settimana Santa per mezzo degli studenti irlandesi. Così la solennità del santo padre Agostino, poi dei Santi Quattro e si giunge a chiudere l’anno benedicendo il Signore che ci ha salvato da tanti pericoli, per l’immane guerra, per le privazioni e preoccupazioni di ogni genere. Il Te Deum fu cantato ringraziando Dio che ci ha protette.
Anno Domini 1943
Con la consueta funzioncina della processione col Santo Bambino, pia pratica che per noi ci assicura le benedizioni divine, si inizia questo anno fra gli orrori della guerra, fra le privazioni di ogni genere, e l’incertezza dell’esito della guerra stessa.
La Provvidenza ci assiste, e ci è dato di far fronte a tutte le difficoltà, mediante il lavoro di parati sacri, e il lavaggio di biancheria di chiesa della Pontificia Università Gregoriana, del Pontificio Istituto Biblico, del Collegio Borromeo, e altre chiese. Monsignor Respighi si adopera come al solito perché la liturgia della stazione quaresimale riesca solenne come sempre. La comunità può fare gli esercizi spirituali, e avere le due prediche ogni settimana durantela Quaresima. Intanto ci avviciniamo alla Settimana Santa, e si svolgono le funzioni del Triduo. Il Santo Sepolcro è visitato da molti fedeli. Si procede col medesimo ritmo fino alla solennità di sant’Agostino che viene celebrata con intenso fervore. Ci avviciniamo alla festa titolare dei Santi Quattro che è celebrata coi vespri pontificali e la messa pontificale la mattina del giorno8, in cui sono celebrate parecchie sante messe lette.
Arrivate a questo mese di novembre dobbiamo essere pronte a rendere servigi di carità in maniera del tutto inaspettata. Il santo padre Pio XII, dal cuore paterno, sente in sé tutte le sofferenze del momento. Purtroppo con l’entrata dei tedeschi in Roma, avvenuta nel mese di settembre, si inizia una guerra spietata contro gli ebrei che si vogliono sterminare mediante atrocità suggerite dalla più nera barbarie. Si rastrellano i giovani italiani, gli uomini politici, per torturarli e farli finire tra tremendi supplizi. In queste dolorose situazioni il Santo Padre vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati, e anche le clausure debbono aderire al desiderio del Sommo Pontefice, e, col giorno 4 novembre, noi ospitiamo fino al 6 giugno successivo le persone qui elencate:
dal 4 novembre al 14, la signora Bambas moglie di una personalità politica. Il marito era nascosto in altra casa religiosa, e lo volle raggiungere.
Dal 1° dicembre al 27, tutta la famiglia Scazzocchio di 9 persone.
Dal 1° dicembre a tutto il febbraio successivo, la mamma del dottor Scazzocchio. Queste persone furono sistemate nella sala del Capitolo, con l’annessa stanzetta, e l’adiacente corridoio. I pasti li consumano in refettorio.
Dal 7 dicembre al 23 gennaio, il Ravenna ebreo (rabbino) dai paliotti.
Dal 15 dicembre al 18 gennaio, il signor Viterbo col suocero, ebrei, solo dormire.
Anno Domini 1944
Dal 1° gennaio al 21, la signora Dora ebrea – cameretta del salone.
Dal 5 gennaio al 9 maggio il signor Alfredo Sermoneta (ebreo) dai paliotti.
Dal 2 febbraio al 7 maggio, il signor Salvatore Mastrofrancesco (politico) nipote di suor Maria Veronica Del Signore.
Dal 2 febbraio al 5 giugno, il signor Eugenio Sermoneta (ebreo) dai paliotti.
Dal 2 febbraio al 5 giugno, il signor Fernando Pisoli (politico) dai paliotti.
Dal 2 febbraio al 9 maggio, il signor Fernando Talarico (di leva).
Dal 13 dicembre al 6 giugno, il giovane Francesco Caracciolo.
Dal 15 dicembre al 6 giugno, suo fratello Alberto, figli del generale Caracciolo.
Dall’8 marzo al 7 maggio, Piero De Benedetti (patriota).
Nel mese di marzo, per otto giorni, Franco Talarico.
Nel medesimo tempo abbiamo nascosto in refettorio cento tonnellate di carta di Fabriano e abbiamo sostenuto per questo delle rappresaglie dai parenti del proprietario.
In un grande locale adiacente all’orto, abbiamo nascosto undici automobili, compresa quella del generale Badoglio, e del generale Tessari, due camion portati qui da militari subito dopo l’8 settembre ’43.
Un autotreno, una motocicletta del capitano di Trapani, un triciclo, dieci biciclette.
Dell’azienda Gianni abbiamo nascosto sette cavalle, quattro mucche, quattro buoi, tutte le macchine agricole, e mezzi di trasporto. Il chiostro, chiuso ai visitatori per far passeggiare i rifugiati, era pieno di paglia e fieno. Il mobilio e biancheria di varie famiglie sfollate, oggetti di valore e titoli bancari.
6 giugno. Finalmente si aprirono le porte a questi poveri rifugiati, e restammo di nuovo nella nostra libertà, ma per poco tempo, poiché il giorno 4 ottobre successivo ci fu ordinato di ospitare con la più scrupolosa precauzione il generale Carloni che era cercato per essere condannato a morte. Dalla Segreteria di Stato del Vaticano ci è ordinato di ospitarlo, imponendoci solenne segreto. E fu accomodato alla meglio nella piccola stanza sotto il salone, ma però era costretto a passare nel centro della comunità. Con lui fu ospitata la signorina direttrice di casa sua perché, malato di fegato, aveva bisogni di riguardi per il vitto. Detta signorina cucinava nella nostra cucina. Di questo i superiori erano al corrente. Si sperava che anche questo ospite in pochi mesi si sarebbe liberato. Purtroppo nel mese di marzo successivo fu scoperto che era presso di noi, e con tutta fretta monsignor Respighi con monsignor Centori lo condussero in auto in Vaticano presso le sacre Congregazioni in casa di monsignor Carinci e ivi si trattenne fino al 15 settembre, che dovemmo riceverlo di nuovo. E per ben cinque anni fu nostro ospite.§
A tutte le persone su elencate, oltre l’alloggio, si dava anche il vitto facendo dei miracoli per il momento che si traversava, che tutto era tesserato. La Provvidenza è sempre intervenuta. Negli ultimi mesi ci davano L. 40... In tal modo proseguimmo l’anno. Per la Quaresima anche gli ebrei venivano ad ascoltare le prediche, e il signor Alfredo Sermoneta aiutava in chiesa. La madre priora, suor Maria Benedetta Rossi, gli faceva fare tante cose all’altare del Santissimo preparato per il Giovedì Santo, sperava che quell’anima ne restasse impressionata. Ma purtroppo non ci fu data questa santa soddisfazione. Abbiamo avuto anche degli spaventi, specialmente un giorno che si presentarono due agenti delle SS, Servizio speciale per rintracciare ebrei e giovani. Uno dei due era italiano e fu maggiore la dolorosa impressione ricevuta. Però non ci lasciammo vincere né dalle minacce né dalle persuasioni, e se ne andarono.
A guerra finita, si parlava della bontà del Santo Padre che aveva aiutato, e fatti salvare tanti, sia ebrei che giovani e intere famiglie. La stampa riempiva le colonne e in un giornale cattolico, L’Osservatore Romano, leggemmo questo articolo del professor Tescari che conosceva bene quanto si era fatto nei monasteri di clausura per la salvezza di tanti perseguitati.
Partigiani pacifici
«Chi scriverà la storia della più recente oppressione tedesco-fascista in Roma dovrà dedicare un capitolo speciale all’opera generosa, vasta, multiforme, spiegata in pro dei perseguitati dai religiosi. Uffici parrocchiali trasformati in veri e propri uffici di collocamento-rifugio (ne frequentavo uno dove, nei pochi minuti in cui mi trattenevo, vedevo affluire una moltitudine di uomini e donne di ogni classe, di ogni età, e il parroco ascoltare, prendere nota, indirizzare, promettere, elargire con generosità), case di sacerdoti diventate alberghi di fuggitivi (odo ancora la governante di uno di questi brontolare che in casa non vi era più niente ecc.): lamenti insolitamente popolati di facce atteggiate a confusione nuova e strana, ma coloro che in cotesto campo della carità si dimostrarono vere eroine, furono le suore che travestirono da consorelle donne ebree (di null’altro colpevoli di essere sangue di Gesù e di Maria), che violarono la secolare clausura per dare ricetto a uomini per ragioni di razza o politica perseguitati, che accolsero bimbi di fuggitivi, che si prestarono a falsificazioni di documenti personali procurando esse stesse o agevolandone il conseguimento: l’opera grandiosa e pericolosa compiendo con semplicità e coraggio e disinteresse indicibile. Il persecutore ne era informato, ma non osò violare i sacri recinti oltre un certo limite: l’ombra grande proiettata da San Pietro salvaguardava anche gli asili più remoti e solitari. O sorelle buone e care, siate benedette insieme con gli altri, da Dio, il Quale del premio destinatovi, vi ha dato anche quaggiù un prezioso saggio, consentendovi di assistere a tante mirabili conversioni di persone da voi beneficate, le quali dopo aver sperimentato che la sostanza della religione nostra è amore, amore senza distinzione, amore senza limiti, non hanno resistito al dolce invito della grazia e sono ridivenuti, o divenuti, anche per fede fratelli nostri»(Onorato Tescari).
Restate di nuovo nella nostra pace, si continua la vita di comunità. Preghiera e lavoro. Già dal 1925 si lavora per la ditta Gammarelli di parati sacri, più tardi, nel medesimo anno anche la ditta Romanini domanda che si confezionino i parati sacri. Già dalla venuta delle consorelle agostiniane di Santa Prisca che lavavano la biancheria personale dei padri della Compagnia di Gesù, nella Pontificia Università Gregoriana, si proseguì per alcuni mesi, poi la biancheria personale la lasciammo e cedemmo alle Suore delle sordomute, proseguendo a occuparci della biancheria di sagrestia tanto della Pontificia Università, che dell’Istituto Pontificio Biblico, in seguito del Collegio Borromeo e Sant’Andrea al Quirinale. Per la chiesa della Vittoria, si attendeva già da più di cinquant’anni e così dei padri Trappisti.
Si seguita nella vita ordinaria, si celebra la solennità di padre Agostino con le consuete funzioni. Senza novità, giungiamo alla solennità dei Santi Quattro che monsignor Respighi celebra sempre in maniera grandiosa. Quindi chiudiamo anche quest’anno, così speciale di avvenimenti, ringraziando il Signore di tutte le grazie concesse.
Parrocchia di San Benedetto al Gazometro di cui era parroco d. Gregorini
Si serviva il brodo agli ebrei, prima di mettere il lardo che veniva aggiunto successivamente.
Da Renzo de Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Mondadori, Milano, 1977
Elenco delle case religiose in Roma che ospitarono ebrei (fra parentesi il numero degli ebrei ospitati)
Israeliti rifugiati nelle case religiose femminili.
l. Suore di Nostra Signora di Sion, via Garibaldi, 28 (187)
2. Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue, via Pannonia, 10 (136)
3. Suore del Buono e Perpetuo Soccorso, via Merulana, 170 (133)
4. Maestre Pie Filippini, largo Santa Lucia Filippini, 20; via Caboto, 16; via Fornaci (114)
5. Oblate Agostiniane di Santa Maria dei 7 Dolori, via Garibaldi, 27 (103)
6. Suore della Presentazione, via Milazzo, 1la; via Sant'Agata dei Goti, 10 (102)
7. Suore Orsoline dell'Unione Romana, via Nomentana, 234 (103)
8. Suore Adoratrici Canadesi del Prezioso Sangue, via F.D.Guerrazzi (80)
9. Istituto Clarisse Missionarie Francescane del Santissimo Sacramento, via Vicenza, 33 (76)
10. Figlie del Sacro Cuore di Gesù (Verzeri), via Cavour (69)
11. Istituto Suore Compassioniste Suore di Maria, via Alessandro Torlonia, 14 (63)
12. Istituto delle Suore di San Giuseppe, via del Casaletto (57)
13. Istituto San Giovanni Battista (Suore Medee), via Bartolomeo Eustacchio (51)
14. Suore di Carità dell'Immacolata Concezione d'Ivrea, via Leone IV, 2 (50)
15. Oblate a Tor de' Specchi, via del Mare, 12 (48)
16. Istituto « Ravasco », via San Sebastianello, 10 (46)
17. Istituto delle Suore dell'Assunzione, corso d'Italia (46)
18. Suore Alcantarine, via Vasellari, 61 (44)
19. Suore Francescane Missionarie d'Egitto, via Cicerone, 57; piazza Santa Cecilia, 23 (43)
20. Suore Francescane della Misericordia di Lussemburgo, via Poggio Moiano, 8 (40)
21. Suore della Carità della Beata Capitanio, via Sant'Uffizio, 17 (39)
22. Suore Figlie di Maria Immacolata, via Palestro, 25 (36)
23. Figlie di Nostra Signora al Monte Calvario, Villa del Sole, Casa Santi Quattro (36)
24. Signorine Teresiane (Spagnole), via Gaeta, 8 (34)
25. Suore Figlie della Sapienza, via Toscana 13; corso d'Italia, 33 (34)
26. Istituto dell'Adorazione, via T.Salvini, 20 (33)
27. Figlie di Maria Ausiliatrice, via Marghera, 56; via Dalmazia, 18 (32)
28. Suore del Cenacolo, piazza Priscilla, 7 (28)
29. Istituto di Nazareth, via Cola di Rienzo, 140 (30)
30. Francescane Missionarie di Maria, via Appia Nuova, 522; via della Balduina, 38 (30)
31. Istituto delle Suore di Nostra Signora della Compassione, via degli Ibernesi, 20 (30)
32. Suore della Carità di Namur, via Cesare Correnti, 2 (28)
33. Suore Armene di Monteverde (2)
34. Suore Famiglia del Sacro Cuore di Gesù, via Gaeta, 13 (27)
35. Suore Francescane Angeline, via Seso Celere (26)
36. Suore della Carità, via Villini (25)
37. Suore Cistercensi di Santa Susanna, via XX Settembre (26)
38. Suore della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, via Merulana, 174 (25)
39. Suore Orsoline del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante, via Villa Ricotti, 4 (24)
40. Figlie di Maria Santissima dell'Orto, via di Porta Tiburtina, 14 (24)
41. Suore di Santa Elisabetta, via dell'Olmata, 9 (22)
42. Suore di Santa Dorotea, Sant'Onofrio, via Ripetta (21)
43. Suore Brigidine, piazza Farnese (20)
44. Suore Ministre degli Infermi, via Col di Lana; via Labico, 29 (20)
45. Suore del Divino Amore, via San Francesco di Sales, 27 (19)
46. Congregazione delle Suore Betlemite Figlie del Sacro Cuore di Gesù, piazza Sabazio, 1 (18)
47. Protettorato di San Giuseppe, via Nomentana, 341 (17)
48. Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, via Sette Sale, 24 (17)
49. Suore Agostine dei Santi Quattro Incoronati (17)
50. Religiose di San Carlo, via Aurelia, 159 (16)
51. Istituto Buon Pastore, via Lungara (16)
52. Religiose dei Santi Angeli Custodi, via A. Depretis, 74 (15)
53. Suore Camaldolesi, Aventino (15)
54. Suore del Buon Salvatore, via Leopardi, 17 (14)
55. Suore del Santo Bambino Gesù, viale Medaglie d'oro, 112 (13)
56. Piccole Suore dei Poveri Vecchi, piazza San Pietro in Vincoli (13)
57. Suore di Maria Consolatrice, via Etruschi, 13 (13)
58. Suore Agostiniane, San Pasquale, via Anicia, 12 (13)
59. Suore del Santissimo Crocefisso, via Piè di Marmo, 12 (12)
60. Suore Infermiere della Piccola Compagnia di Maria, via di Santo Stefano Rotondo, 6 (11)
61. Suore di Santa Marta, via Virgínio Orsini, 15 (9)
62. Suore del Divin Salvatore, viale delle Mura Gianicolensí, 77 (9)
63. Suore del Sacro Cuore del Verbo Incarnato, via Guattani, 7 (9)
64. Suore della Società del Sacro Cuore di Gesù, Casa generale, Villa Lante (9)
65. Figlie di San Giuseppe (8)
66. Suore di Sant'Anna (Barolo) (8)
67. Suore Mantellate (7)
68. Suore Agostiniane (7)
69. Suore della Carità di Nevers (6)
70. Madri Pie di Ovada (6)
71. Maestre Vererini (3)
72. Retraite d'Angers (4)
73. Suore Ospitaliere del Sacro Cuore di Gesù, via Castelfidardo, 45 (5)
74. Figlie della Carità (7)
75. Suore della Sacra Famiglia, salita Monte del Gallo, 19 (5)
76. Suore Povere Bonaerensi di San Giuseppe, via dei Fienili, 45 a (6)
77. Suore Riparatrici, via de' Lucchesi, 9 (5)
78. Suore Adoratrici Perpetue, via dei Selci (12)
79. Monastero Visitazione (2)
80. Clarisse di San Bernardino (6)
81. Clarisse di San Lorenzo (2)
82. Domenicane Annunziatine (5)
83. Suore Turchine del Corviale (3)
84. Istituto Santa Maria della Provvidenza, Opera Don Guanella (14)
85. Ospizio Femminile Pio X (44)
86. Suore Francescane Missionarie Immacolata Concezione (42)
87. Adoratrici del Santissimo Sacramento, via Torlonia (11)
88. Suore di San Tommaso di Villanova (12)
89. Suore del Rosario Perpetuo (-)
90. Suore Orsoline di Parma (2)
91. Suore della Dottrina Cristiana (5)
92. Suore Sacramentine di Bergamo (7)
93. Suore della Resurrezione (Polacche) (3)
94. Orfanatrofio Antoniano (3)
95. Suore della Divina Provvidenza (2)
96. Suore di Sant'Orsola della Beata Vergine (-)
97. Suore dell'Addolorata (1)
98. Suore San Giuseppe di Cluny (1)
99. Ancelle del Sacro Cuore (1)
100. Clarisse riformate (1)
Israeliti rifugiati nelle Case Religiose maschili
1. Fratelli delle Scuole Cristiane (96)
2. Società Salesiana di San Giovanni Bosco (83)
3. Pontificio Seminario Lombardo (63)
4. Fratelli Ospitalieri della Immacolata Concezione (52)
5. Pontificio Seminario Francese (50)
6. Pontificio Seminario Romano Maggiore (48)
7. Fate Bene Fratelli (46)
8. Reverendi Padri Barnabiti (36)
9. Reverendi Padri Bianchi (35)
10. Fratelli Maristi (Collegio San Leone Magno) (33)
11. Fratelli del Sacro Cuore (Collegio Cristo Re) (28)
12. Reverendi Padri Benedettini (19)
13. Reverendi Padri Servi di Maria V (14)
14. Reverendi Padri Terziari Regolari (14)
15. Reverendi Padri Filippini (11)
16. Reverendi Padri Domenicani (8)
17. Reverendi Padri Giuseppini (7)
18. Reverendi Padri Rosminiani (5)
19. Reverendi Padri Missionari del Sacro Cuore (6)
20. Reverendi Padri Maristi (4)
21. Reverendi Padri Camaldolesi (4)
22. Reverendi Padri Agostiniani Erem. (3)
23. Reverendi Padri Trinitari (3)
24. Reverendi Padri Dottrinari (3)
25. Reverendi Padri Canonici Lateranensi (2)
26. Reverendi Padri Oblati di San Giuseppe (3)
27. Missioni estere di Milano (1)
28. Reverendi Padri Passionisti (1)
29. Reverendi Padri Missionari dello Spirito Santo (1)
30. Santa Maria dell'Orto Monsignor De Carolis (8)
31. Sant'Onofrio Reverendo Padre De Stefani Luigi (7)
32. San Carlo al Corso Monsignor Trezzi (4)
33. Collegio Nazareno (9)
34. Collegio San Gabriele, viale Parioli, 26 (4)
35. Collegio di Santa Maria, viale Manzoni, 5 (6)
36. Ospizi Don Orione (21)
37. Parrocchia Santa Croce (80)
38. Parrocchia della Divina Provvidenza (65)
39. Parrocchia di San Filippo (24)
40. Parrocchia del Buon Pastore (5)
41. Parrocchia di Santa Maria in Trastevere (2)
42. Parrocchia di Santa Maria delle Fornaci (1)
43. Parrocchia di Ognissanti (1)
44. Parrocchia della Trasfigurazione (100)
45. Parrocchia di Santa Maria in Campitelli (38)
46. Parrocchia di Santa Maria della Pace (40)
47. Parrocchia di San Gioacchino ai Prati (13)
48. Reverendi Padri Francescani San Bartolomeo all'Isola (400)
49. Reverendi Padri Stimmatini Parrocchia Santa Croce (100)
50. Convento di San Bonaventura al Palatino (10)
51. Reverendi Padri Domenicani Irlandesi (San Clemente) (2)
52. Istituto dell'Immacolata dei Frati Bigi (10)
53. Fratelli delle Scuole Cristiane di Irlanda (3)
54. Reverendi Padri Gesuiti in case diverse (43)
55. Istituto maschile Don Luigi Guanella, via Aurelia Antica (8)
- in totale potrebbero essere stati circa 4.500 ebrei nascosti in strutture cattoliche a Roma (poco più di 1000 i deportati ad Auschwitz)
1.3/ Il caso Israel Zoller-Eugenio Pio Zolli, un riconoscimento indiretto
Stralci di una delle relazioni tenute nel pomeriggio del 28 ottobre all’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere e Arti di Padova nell’ambito del convegno «Politiche di sopravvivenza alle persecuzioni. I responsabili delle comunità ebraiche di fronte allo sterminio nazista» da Anna Foa.
La Comunità ebraica romana arriva, come è noto, all’8 settembre 1943 e alla persecuzione nazifascista avendo nel ruolo di rabbino maggiore un galiziano, vissuto molti decenni a Trieste e reso apolide dalle leggi del 1938, Israel Zolli. Un grande studioso, allievo di Chaies al Collegio rabbinico di Firenze, di cui la storia controversa del periodo di cui stiamo parlando — con il suo passaggio alla clandestinità e poi la conversione al cattolicesimo nel dopoguerra — ha offuscato lo spessore culturale e religioso, lasciando dietro di sé una ferita non ancora sanata nella comunità romana che, quando ancora le ferite dell’occupazione non avevano nemmeno cominciato a cicatrizzarsi, ha visto il suo rabbino prendere il battesimo. In conflitto con Zolli troviamo, oltre a una notevole parte della comunità, che lo considerava estraneo alla sua mentalità e alla sua storia, soprattutto i dirigenti tanto della comunità romana che dell’Unione, Ugo Foà e Dante Almansi.
Il conflitto ha radici che risalgono già al periodo iniziale del rabbinato romano di Zolli, ma si acuisce dopo l’armistizio, quando Zolli propone di cessare le funzioni religiose, di distruggere le liste dei contribuenti e degli iscritti alla comunità, di stanziare fondi per i più poveri e di invitare tutti gli ebrei a lasciare le proprie abitazioni e a nascondersi.
Com’è noto, i dirigenti comunitari si oppongono con decisione a quello che vedono come un allarmismo eccessivo, frutto di paure personali, che rischiava di peggiorare i rapporti con l’esterno, cioè con le autorità fasciste e naziste. Essi continuano a confidare, fino alla mattina del 16 ottobre, nella rete di amicizie e relazioni consolidate con il regime negli anni precedenti e mai davvero rimesse in discussione nemmeno dalle leggi del 1938, senza rendersi conto della frattura qualitativa introdotta dall’occupazione della città a opera dei nazisti. Una scelta opposta a quella fatta dalla comunità di Ancona e da quella di Pisa, dove il presidente Pardo Roques aveva convinto il rabbino Hasdà a non officiare in occasione del Capodanno ebraico.
Quanto agli elenchi famosi dei contribuenti (o degli iscritti), sequestrati a Roma dai nazisti nel corso dei saccheggi degli uffici e delle biblioteche, c’è stata una forte e lunga polemica sul ruolo effettivo giocato nella razzia. Gabriele Rigano sta compiendo una mappatura degli indirizzi a cui i nazisti si recarono, non solo quelli dove arrestarono ebrei, ma anche quelli in cui non trovarono nessuno, per avere un’idea del loro effettivo uso (certamente furono incrociati con quelli della questura). Comunque, il solo fatto che fossero stati sequestrati, insieme alla notizia filtrata dalla questura che i nazisti erano in possesso degli elenchi della questura, spinge molti ebrei a scegliere di nascondersi. Fra essi, la moglie di Arminio Wachsberger, Regina Polacco, che vede di persona le schede in mano ai nazisti. Non si nasconderanno perché temono per la salute della figlia di cinque anni. Ma già il 16 settembre, cioè dieci giorni prima del sequestro romano, il presidente della comunità di Venezia, Giuseppe Jona, si era suicidato per timore che i nazisti lo costringessero a rivelare dove aveva nascosto gli elenchi comunitari.
Che Zolli vedesse con terrore l’arrivo delle truppe tedesche, è messo chiaramente in luce dalla documentazione. Bisogna però dire che il rabbino aveva già conoscenza, a quella data, della sorte riservata in Polonia agli ebrei, e in particolare della morte di due dei suoi fratelli, uno ad Auschwitz e uno nel ghetto di Lwov. Inoltre, la sua qualifica di apolide lo rendeva particolarmente esposto all’arresto e alla deportazione.
Ancora, egli aveva motivo di ritenere di essere nella lista nera nazista a causa delle sue prese di posizione antinaziste a Trieste. Con l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940, ricordiamolo, gli ebrei stranieri, molti dei quali ebrei italiani che avevano perduto la cittadinanza acquistata dopo il 1919, erano stati rinchiusi nei campi di internamento creatisi numerosissimi nel Sud e in Abruzzo, o nel migliore dei casi erano stati inviati al confino. Il rabbino David Wachsberger, ad esempio, era detenuto a Campagna, vicino a Salerno. Se Zolli è sfuggito a tale sorte grazie all’incarico assunto nel 1939 a Roma, resta comunque il primo a essere esposto all’arresto, come non manca di dichiarare più volte, e come sottolinea anche nell’ultima funzione che tiene prima di nascondersi con la famiglia. Scrive Michael Tagliacozzo: «Il 17 settembre al termine del servizio liturgico serale per l’entrata del sabato, tenne una breve allocuzione nell’Oratorio di rito spagnolo (…) Sapeva che in ogni comunità ebraica caduta sotto il giogo tedesco, il rabbino era sempre stato la prima vittima della persecuzione. Esternò il rammarico di essere costretto ad allontanarsi e benedì i fedeli raccomandandosi alle loro preghiere». Infatti, la sua casa è la prima a essere perquisita, già intorno alla fine di settembre. I nazisti sfondarono la porta perché il rabbino aveva già trovato rifugio altrove.
Del resto, in occasione dell’episodio dei cinquanta chili d’oro, non soltanto Zolli si reca, all’insaputa dell’analoga delegazione comunitaria, a chiedere al Papa aiuto nella raccolta, ma chiede anche ad Almansi, in una lettera che dopo la Liberazione questi negherà di aver ricevuto, di essere messo al primo posto tra gli ostaggi eventualmente richiesti dai nazisti. Evidentemente, più che la paura in sé, agisce nel suo comportamento in occasione della fuga il dispetto per avere il ruolo di una Cassandra inascoltata, per il rifiuto opposto alle sue ragionevoli richieste, che lo spingono a non condividere una sorte che profetizzava invano da tempo, ma a scegliere invece la fuga per sé e per i suoi cari.
Una fuga, che stranamente viene creduto nel dopoguerra essere stata in Vaticano: una sorta di leggenda diffamatoria priva di riscontro nella realtà — poiché Zolli si nascose prima nella casa vuota della famiglia Anav poi in una famiglia di antifascisti non ebrei, i Pierantoni, poi dai Falconieri, amici della figlia — ma che è stata ripetuta fino a tempi recentissimi nonostante le ricerche storiche ne abbiano provato l’infondatezza. Una fuga inoltre che dopo la guerra renderà ancora più aspro il conflitto con la comunità, che tenterà di deporlo sotto l’accusa di avere abbandonato il suo gregge nel pericolo. L’idea che gli ebrei romani fossero sotto la protezione del Papa e che quindi i nazisti non avrebbero potuto toccarli è un’altra illusione dura a morire. Wachsberger racconta che anche nella deportazione, quando si trovava con altri prigionieri a spalare le rovine del ghetto di Varsavia, la vista in lontananza di una veste talare suscitava negli italiani la speranza che si trattasse di un messo del Vaticano che si calava nell’inferno per liberarli. Per quanto mi riguarda, trovo storicamente convincente il quadro dell’assistenza agli ebrei di Roma tracciato da Andrea Riccardi nel suo libro L’inverno più lungo. Un’assistenza che non poteva non essere concordata con il Papa. Del resto, che gli ebrei romani si siano rivolti direttamente ai conventi nell’ora del pericolo immediato, la prima richiesta accolta precede il 16 ottobre, poi le porte si spalancano, è provato da mille testimonianze. Non toccherò il problema dibattuto e tuttora aperto di Pio XII perché esula da questo quadro. Quello che è interessante è che la percezione degli ebrei romani fosse quella di un cordone ombelicale non reciso con la Chiesa.
Non è certo il caso, qui, di riprendere le polemiche che, trentacinque anni fa, hanno accompagnato l’uscita del libro di Robert Katz, il giornalista e storico scomparso nei giorni scorsi, Sabato Nero, e che hanno coinvolto, in giudizi anche molto severi sulla dirigenza comunitaria, storici del livello di Michael Tagliacozzo, oltre a tutto diretto testimone della vicenda. È ora, credo, il tempo di ricostruire e distinguere, insomma fare storia. Ma ho la sensazione che questa vicenda, sostanzialmente la consegna di mille ebrei romani alla morte da parte della dirigenza comunitaria e dell’Unione, sia ancora un nodo irrisolto della memoria della comunità di Roma, tale da continuare a suscitare intorno a sé rimozioni, accuse, proiezioni, e da erigere a tutt’oggi una invalicabile barriera difensiva.
1.4/ Le opere d’arte di tutta Italia salvate in Vaticano (dalla Pinacoteca di Brera all’Accademia di Venezia)
Dai pannelli della mostra, in Pontificio Comitato di Scienze storiche (ed.), Pio XII. L’uomo e il suo pontificato, LEV, Città del Vaticano, 2008, p. 159
L'arrivo in Vaticano delle opere d'arte da custodire
negli anni dell'occupazione nazista dell'Italia
Dall'autunno del 1943 fin quasi all'arrivo degli Alleati a Roma un gruppo di volenterosi funzionari italiani delle Belle Arti, in unione con altri funzionari e prelati vaticani, fu protagonista di una impresa che non è esagerata definire eccezionale, rimasta anche poco conosciuta dal grande pubblico: il salvataggio del prezioso patrimonio storico-artistico italiano. Con mezzi di fortuna, e non senza esporsi a gravi pericoli personali, furono trasportati in Vaticano, talora in maniera davvero avventurosa, il fior fiore delle raccolte d'arte italiane, come i capolavori della Pinacoteca di Brera, dell'Accademia di Venezia, della Galleria di Urbino, del Museo Poldi Pezzoli e del Castello Sforzesco di Milano, dell'Accademia Carrara di Bergamo, insieme ai dipinti dei Musei romani e ad opere d'arte provenienti da chiese e luoghi di culto, come il Tesoro di San Marco o le tele di Caravaggio delle chiese romane di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo.
Da M. Forti, Pio XII e le arti: dalla tutela del patrimonio artistico italiano all’ingresso dell’arte contemporanea nei Musei Vaticani, in Pontificio Comitato di Scienze storiche (ed.), Pio XII. L’uomo e il suo pontificato, LEV, Città del Vaticano, 2008, pp. 70-73
Verbali di restituzione allo Stato Italiano delle opere tenute
in deposito nei Musei Vaticani durante l'occupazione nazista
Sono note le vicende che dalla legge n. 1041 del 6 luglio 1940, voluta dal Ministero per l'Educazione Nazionale, sulla Protezione delle cose d'interesse artistico, storico, bibliografico e culturale della Nazione in caso di guerra, portano ad individuare prima nella Rocca quattrocentesca di Sassocorvaro nelle Marche, messa a disposizione dal Soprintendente Rotondi dall'ottobre del 1940, e successivamente nel seicentesco palazzo dei Principi di Carpegna [N. de Gli scritti: in provincia di Pesaro-Urbino], dal febbraio 1943, i luoghi più adatti al ricovero di gran parte del patrimonio artistico nazionale.
È tuttavia a seguito dell'Armistizio e della perdita di sicurezza del territorio italiano, con le milizie allo sbando, compresi i carabinieri a cui era stato affidato il compito di custodire i preziosi depositi, che si tenta di individuare una sistemazione più sicura. Parallelamente all'ipotesi di trasferire all'estero, in territorio neutrale, le opere italiane, si apre la possibilità di un accordo tra la Santa Sede, lo Stato Italiano - rappresentato dal governo Badoglio riconosciuto dalla Santa Sede - e il Comando Tedesco. È proprio grazie alla collaborazione delKunstschutz, organo tedesco preposto alla difesa delle opere d'arte in grado di garantire i mezzi e le scorte necessarie, che si ottenne il buon esito degli spostamenti.
Il Vaticano non era più luogo inviolato dal 5 novembre 1943, quando «alle ore 20,10 circa da un aereo di nazionalità sconosciuta, sono state sganciate sulla Città del Vaticano n. 5 bombe». Non ci sono vittime, ma vengono colpiti il palazzo del Governatorato, anche se in modo non grave, la cisterna d'acqua, il laboratorio del mosaico e soprattutto vengono distrutti i vetri di gran parte dei Musei e della Basilica di S. Pietro che il giorno successivo rimane chiusa: il papa dovrà affacciarsi più volte per rassicurare la popolazione romana raccolta in Piazza S. Pietro.
Tuttavia, sulla base di quanto stabilito dal Concordato del 1929, la Città del Vaticano è territorio neutrale e inviolabile che gode dell'extraterritorialità e dell'immunità diplomatica, rimanendo di fatto una delle collocazioni più sicure e facilmente raggiungibili.
È in questi stessi giorni che Pio XII accoglie la richiesta dello Stato Italiano e delega il Segretario di Stato, cardinale Luigi Maglione, e il prof. Bartolomeo Nogara, Direttore dei Musei Vaticani, di supervisionare l'imponente operazione. Di fatto, dopo la scomparsa nel 1944 del Segretario di Stato, la cui carica rimane vacante fino alla morte di Pio XII, sarà Mons. Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, il referente ufficiale della Santa Sede, come si evince dalla ricca documentazione archivistica e dallo scambio quasi quotidiano con il Direttore Nogara.
Pur destinando ad altra sede un'analisi dettagliata e critica di questo materiale, è utile sottolineare i momenti principali di questo avvenimento per chiarire il clima civile del periodo e la portata dell'operazione di tutela.
L'arrivo delle opere del Ministero dell'Educazione Nazionale inizia il 27 novembre 1943, seguendo una procedura standard: le casse sostano a Palazzo Venezia, più raramente a Castel Sant'Angelo, per la verifica dei sigilli e della loro integrità. Insieme alle opere di competenza del Ministero italiano e delle istituzioni statali, come il Quirinale ela Camera dei Deputati, trova posto nello Stato vaticano anche il patrimonio conservato nelle Ambasciate, negli Istituti di cultura, in quelli religiosi, nelle Biblioteche e negli Archivi, come nelle case dei privati.
L'imponente mole di materiale - insieme a quello archivistico e documentario che viene trasportato negli ambienti della Biblioteca Apostolica e dell'Archivio Segreto entra a ritmo serrato in pochi mesi fino al luglio 1944. Ovviamente i Magazzini della Pinacoteca dei Musei possono contenere solo una minima parte delle casse, che vengono quindi distribuite nelle sale della Pinacoteca e nel Museo Egizio. Altri spazi dei Musei erano, come noto, adibiti alla raccolta di derrate alimentari o a dormitorio, compresi i padiglioni presenti nel Cortile della Pigna che, realizzati nel 1937 per ospitare l'Esposizione della Stampa Cattolica, non erano ancora stati demoliti.
Nel corso di questi mesi sono molte le richieste a cui far fronte: la preoccupazione del Soprintendente Salvatore Aurigemma per le opere conservate nel Museo di Nepi, per la cui salvaguardia auspicava un intervento radiofonico del pontefice; il controllo da parte delle Autorità Alleate del contenuto di alcune casse; la situazione di molti palazzi storici romani, tra cui quella di palazzo Ruspoli, occupato nel 1945 dagli Alleati, per la cui tutela e integrità Montini scrive al comando americano e riferisce al Direttore Nogara. Ovviamente non mancarono anche richieste di visite a questo insolito "museo universale", come quella dei corrispondenti di guerra dei giornali alleati che, sotto la supervisione di Vannutelli e Lavagnino, poterono ammirare lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e la Via Crucis di Tiepolo.
Le operazioni di recupero - che si svolsero senza successive contestazioni - iniziano nell'agosto del 1944 sulla base di un accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione che si impegnò ad un ritiro graduale, il cui coordinamento venne affidato al Soprintendente ai Beni Storico-artistici di Roma, Rinaldo De Rinaldis, e al Soprintendente ai Beni Archeologici, Salvatore Aurigemma, in collaborazione con soprintendenti e funzionari delle altre regioni italiane interessate. Tra le prime opere ad uscire dal Vaticano sono quelle destinate alla Mostra dei Capolavori della Pittura Europea organizzata a Palazzo Venezia, allo scopo di dare alla popolazione un segnale di ripresa delle attività civili e culturali.
Tale attività proseguì fino al mese di febbraio del 1947, seguendo una prassi analoga alle procedure di deposito: tutte le opere transitano a Palazzo Venezia per essere poi riconsegnate alle Istituzioni di competenza, già indicate nei verbali di restituzione. La perfetta riuscita delle operazioni è resa ancor più eccezionale dal fatto che non tutte le opere provenivano dalle loro sedi d'origine come, ad esempio, il materiale che si trovava in esposizione alla Mostra d'Oltremare a Napoli nel 1941, che fu prima ricoverato a Montecassino, poi trasportato in Vaticano e successivamente riconsegnato ai diversi Musei proprietari delle singole opere.
1.5/ La “liberazione” di Roma e L’Osservatore Romano (il ruolo di Pio XII nell’incolumità delle città italiane)
Da 4 giugno 1944, Roma è salva: il senso della neutralità di Pio XII (di A.L.)
Chi capirebbe a prima vista che questa è la prima pagina de L’Osservatore Romano all’indomani della liberazione di Roma?
Pio XII sapeva che ad altri spettava il compito di schierarsi; alla Santa Sede competeva, invece, lavorare nel segreto, convincere tutti della malvagità della guerra ed operare senza escludere alcuno perché il maggior numero possibile di vite fossero risparmiato.
Una pagina come questa illumina l’atteggiamento che scientemente il papa volle assumere - e forse solo un giorno sapremo fino in fondo quanti benefici ne vennero in quegli anni tremendi.
In alto, nella prima pagina del giornale, l’Osservatore titola a sei colonne con la notizia dei due decreti di canonizzazione e sulle virtù eroiche del beato Nicola da Flüe e di Placido Riccardi.
Eppure è il numero del 5/6 giugno 1944 e, come dirà lo stesso quotidiano più in basso, per due volte piazza San Pietro si era appena riempita di romani (raramente queste foto vengono mostrate in riferimento al 4 giugno 1944) come a tributare un ringraziamento al Signore, ma anche all’opera della Santa Sede.
Chi gettasse uno sguardo distratto a questa pagina potrebbe pensare ad una ‘prima’ così composta per l’assenza di notizie più interessanti, una di quelle pagine estive maledettamente difficili da riempire anche per i giornalisti più navigati.
Ma un piccolo particolare tradisce l’emozione di quelle ore; è solo un piccolo errore tipografico, ma mostra quanto poco fosse importante -in quel benedetto giorno che seguiva il 4 giugno 1944!- la pur bella notizia di nuovi santi sugli altari: “Ieri 4 maggio, festa della SS. Trinità...”. Ma ieri non era il 4 maggio, era il 4 giugno!!!
Più in basso, a metà pagina, e solo a quattro colonne, poche parole con il titolo: “La incolumità di Roma attuata secondo i voti del Santo Padre”. E, di seguito, l’articolo, con quelle parole pesate una ad una:
«Il primo nostro pensiero sia un atto di pieno e devoto ringraziamento al Signore. Roma è salva. L’appello supremo del Santo Padre che coronava tutta l’opera sua per l’incolumità della Città eterna, tutte le sollecitudini sue di padre e di pastore per ogni conforto spirituale e materiale del Popolo romano, fu dunque ascoltato, così che l’Urbe, lungi dal trasformarsi in un campo di lotta di irreparabile distruzione, visse ore sì pur gravi di minaccia, non solo tra la violenza della guerra, ma per l’agitato stato degli animi, in una calma ed in una tranquillità miracolosa.
Malgrado che l’urgere dei vicini combattimenti intensificatisi fra la sera di sabato e il mattino di domenica e nella giornata stessa avesse indotto per le strade più centrali della città un ininterrotto passaggio di truppe e di macchine, l’abitato fu risparmiato da qualsiasi parte da ogni offesa.
Per quest’atto di omaggio reso alla Sede del Santo Padre e alla Culla della comune civiltà, la cittadinanza come aveva ieri dimostrato alle truppe tedesche di quali sentimenti cristiani e civili fosse animata, soprattutto di fronte ai soldati feriti e più affranti, così accolse i reparti anglo-americani manifestando come sentisse ed apprezzasse il fatto che Roma, madre delle genti civili, centro della Religione dell’amore e della fraternità, non sia stata intrisa di sangue, sangue comunque e sempre fraterno dinanzi a Cristo e al suo vicario quaggiù».
Solo chi non amasse la vita, potrebbe subito chiedere: “Dov’è la parola ‘liberazione’?” –questione che nessuno quel giorno si sarebbe sognato minimamente neanche di immaginare, perché sapeva bene cosa era accaduto e quali giorni ancora attendevano l’Italia, fino alla fine della guerra.
Solo chi non sappia cosa sia stato il nazismo potrebbe chiedersi come mai l’Osservatore non uscì quel giorno con un titolo a 6 colonne esultante per l’avvenuta liberazione di Roma.
Solo Dio sa quanto Pio XII, aiutato dai suoi collaboratori, abbia tessuto relazioni, lui, unica autorità rimasta in Roma, perché in Roma non si combattesse, perché Roma non fosse bombardata, perché i nazisti si ritirassero e gli alleati attendessero alcune ore prima dell’ingresso in città, senza iniziare un bombardamento intensivo delle truppe nemiche in ritirata. Come dice l’articolo di spalla, che cita il discorso del papa del 12 marzo:
«Onde non possiamo non rivolgerCi ancora una volta alla chiaroveggenza e alla saggezza degli uomini responsabili di ambedue le Parti belligeranti, sicuri che non vorranno legare il loro nome ad un fatto che nessun motivo potrebbe mai giustificare dinanzi alla storia, ma piuttosto rivolgeranno i loro pensieri, i loro intenti, le loro brame, le loro fatiche verso l’avvento di una pace liberatrice da ogni violenza interna ed esterna, affinché la loro memoria rimanga in benedizione e non in maledizione, per i secoli sulla faccia della terra».
Il piano – anche se non si è certi di questo - di rapire il pontefice, il disegno di combattere casa per casa non si era realizzato anche perché il papa non aveva commesso passi falsi. E le affermazioni sulla città e la sua popolazione erano pesate a mantenere l’equidistanza dei romani e, con loro, degli italiani tutti.
[La popolazione] come aveva ieri dimostrato alle truppe tedesche di quali sentimenti cristiani e civili fosse animata, soprattutto di fronte ai soldati feriti e più affranti, così accolse i reparti anglo-americani manifestando come sentisse ed apprezzasse il fatto che Roma, madre delle genti civili, centro della Religione dell’amore e della fraternità, non sia stata intrisa di sangue, sangue comunque e sempre fraterno dinanzi a Cristo e al suo vicario quaggiù.
Non erano espressioni di uno sciocco neutralismo inopportuno: erano il tentativo di preparare la strada perché anche le successiva città, forse Firenze o Bologna o Milano, potessero avere lo stesso trattamento, la stessa incolumità.
Il pontefice, coscientemente, faceva scrivere che la popolazione romana aveva aiutato anche “i nazisti feriti e più affranti”, ad evitare di fornire ogni appiglio per una possibilità di rappresaglia o vendetta nelle successive città dell’Italia del Nord nelle quali si sarebbe ancora combattuto. Uscire dalla neutralità avrebbe voluto dire condannare altri a subirne le conseguenze; ed, allora, nella neutralità si doveva restare. La via difficilissima di denunciare il male e la violenza in sé, mantenendo la chiesa in una neutralità che le permettesse di poter soccorrere, questa fu la scelta di Pio XII.
Ogni tanto, passeggiando per Roma, può capitare ad un romano di pensare come sarebbe ora la sua città, se si fosse combattuto casa per casa, come avvenne in altre città europee, come avvenne nella stessa Berlino, o se si fosse deciso dall’una o dall’altra parte di bombardare la città.
In Roma non si combatté anche e, forse, soprattutto per la neutralità di Pio XII. Lo Stato del Vaticano, stato neutrale, e la presenza di coloro che rappresentavano in esso la fede cristiana ha consegnato così ancora alle nuove generazioni questa città. Insieme ad essa, dove è stato possibile, ha conservato ciò che è più importante dei monumenti stessi e della loro stratificazione millenaria: le persone viventi. […]
Probabilmente l’ultimo a poter esser salvato da Pio XII , il 3 giugno 1944, fu il socialista Giuliano Vassalli che ricoprirà poi il ruolo di ministro di Grazia e Giustizia e sarà anche giudice della Corte Costituzionale.
Di questo episodio non si sapeva nulla fino a quando non fu lui stesso a raccontare la storia. In una lettera autografa pubblicata da Giorgio Angelozzi Gariboldi nel libro Pio XII, Hitler, Mussolini. Il Vaticano fra le dittature (Mursia 1988) Vassalli ha scritto: «Il tre di giugno mi fu detto di prendere le mie cose. Mi ritrovai faccia a faccia con il capo della polizia nazista in persona, Herbert Kappler».
Il testo è riportato in un articolo di Antonio Gaspari, apparso su Avvenire del 10 maggio 2005, che così continua:
Con lui c’era un prete con i capelli grigi che Vassalli non conosceva. Pensò che la sua famiglia gli avesse mandato un sacerdote per prepararlo a morire. Invece era padre Pancrazio Pfeiffer, tedesco, inviato da Pio XII per portarlo via. Vassalli non dimenticò mai le parole urlategli da Kappler mentre veniva portato via da Pfeiffer: «Ha da ringraziare esclusivamente il Santo Padre se lei nei prossimi giorni non viene messo al muro, come ha meritato. Non è forse vero che lo ha meritato, signor Vassalli?». Al termine del colloquio Kappler ingiunse Vassalli ad allontanarsi «in modo da non dovermi mai più rivedere». Con una macchina che aveva i contrassegni della Santa Sede, Vassalli venne portato direttamente al Generalato dei Salvatoriani in via della Conciliazione da dove poté ritrovare la libertà (N.d.R.: padre Pfeiffer che fu il silenzioso collaboratore del pontefice nei rapporti con i nazisti era, infatti, salvatoriano).
Non era importante prepararsi a titolare a 6 colonne; era piuttosto decisivo quel 3 giugno, mandare qualcuno, ancora nell’ultima ora, da Kappler per la vita benedetta di un socialista.
L’atteggiamento dei giorni del giugno 1944 –sembra di poter affermare- è lo stesso che guidò l’intera azione pontificia durante la II guerra mondiale. […]
Pochi sono coscienti del fatto che la teoria razziale fatta propria da Hitler avesse di mira certo in primo luogo gli ebrei, ma poi anche polacchi e russi (più noto nella storiografia è il caso degli zingari, in un primo tempo protetti dal nazismo perché ariani e poi sterminati successivamente come "a-sociali"). Pochi considerano come l’azione hitleriana non fosse semplicemente anti-giudaica, ma anche anti-cristiana, sebbene probabilmente egli attendesse un passo falso della chiesa per renderla più cruenta ed esplicita.
Il pontefice dovette scegliere anche qui la via non della denuncia esplicita, ma dell’azione diretta. Pesò certamente in questa decisione, come è stato giustamente affermato, il ricordo di ciò che era avvenuto in Olanda dove la condanna della deportazione da parte dell’episcopato fiammingo portò ad un inasprimento delle misure anti-ebraiche con l’uccisione, ad esempio, anche degli ebrei divenuti cristiani, come la carmelitana di clausura suor Edith Stein, solo per citare l’esempio più conosciuto. Ma –è l’ipotesi che si può fare, in attesa di documenti più certi- il ruolo determinate potrebbe essere stato giocato dalla consapevolezza che uno schierarsi apertamente contro il regime avrebbe voluto dire esporre ad immani immediati pericoli i cristiani non solo della Germania, ma ancor più di tutti i paesi occupati, aumentando a dismisura lo sterminio dei civili e perdendo ogni possibilità concreta di intervento personale sul territorio.
Riflessioni su J.-D. Durand, L’église catholique dans la crise de l’Italie (1943-1948), École Française de Rome, Rome, 1991, pp. 154-160.
Come ha recentemente ricordato lo storico J.-D. Durand dell’École française di Roma, la neutralità del papa permise ai vescovi delle principali italiane di trattare la resa dei nazisti, evitando inutili spargimenti di sangue. Il Durand ricorda come almeno nelle città di Milano, Genova, Gerace, Pescia, Alessandria, Alba, Novara, Venezia, Pisa, Brescia, Anagni, Padova, Trieste i vescovi svolsero un ruolo decisivo nel passaggio di poteri dagli occupanti nazisti al CLN. Afferma Durand: «I negoziati di Milano sono quelli che colpiscono di più, a motivo dell’importanza dei protagonisti: il cardinal Schuster, Mussolini, il maresciallo Graziani». Nel capoluogo lombardo, il passaggio di poteri dai nazifascisti al CLN fu concordato in una serie di incontri distanziati nel tempo che si svolsero presso lo stesso arcivescovado milanese.
da F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1978 (il volume è la traduzione di una serie di 12 lezioni che lo Chabod tenne nel 1950 presso l’Institut d’Études politiques dell’Università di Parigi; la prima edizione in traduzione italiana è del 1961), pp. 124-125.
A Roma [...] accanto all’attività del CLN e dei partigiani, c’è anche [...] l’organizzazione puramente militare dipendente dal governo Badoglio. Il governo del Sud non intende lasciarsi scavalcare dai CLN, e le opposizioni infatti non mancheranno; alla fine un rappresentante del governo Badoglio, il generale Bencivenga, avrà l’incarico del comando di Roma al momento della liberazione; e Bencivenga non vuol essere tutelato dal CLN.
Ma a Roma entra in giuoco soprattutto un’altra forza: la Santa Sede. All’indomani della liberazione di Roma, la popolazione della capitale si precipita in piazza San Pietro per acclamare il Santo Padre ed esprimergli la sua riconoscenza. Pio XII sarà chiamato «defensor urbis». I romani ringraziano il Santo Padre perché la città non ha subito danni nella lotta fra Alleati e Tedeschi. In effetti il clero romano e il Vaticano svolgono durante questi mesi un’azione importante: approvvigionamento, soccorsi alla popolazione, ecc. Numerosi uomini politici perseguitati dai Tedeschi vengono salvati e trovano rifugio nelle antiche chiese e abbazie. San Paolo fuori le Mura, San Giovanni in Laterano, monasteri, ecc., divengono l’ultimo rifugio dei ricercati dal nemico.
Sempre mi torna alla mente, quando penso a quei giorni a noi così vicini, ciò che accadde nel V secolo, allorché le orde germaniche si riversarono nell’impero romano. L’anno 410 dopo Cristo, per la prima volta dopo sette secoli, Roma veniva presa d’assalto e saccheggiata dai Visigoti. La regina del mondo era caduta; e Sant’Agostino dice: il barbaro invasore arrestò la sua furia davanti alle basiliche; non osarono, quei barbari, penetrare nei luoghi consacrati dal Cristo, e la popolazione fu salva. Fu quella, quindici secoli fa, l’origine del potere e della forza politica della Chiesa romana. Presentandosi come i difensori della popolazione abbandonata dall’autorità imperiale romana, i papi gettarono le basi, nel corso del V secolo, del potere e dell’influenza politica della Chiesa di Roma.
Anche durante il periodo dell’occupazione tedesca, la Chiesa splende su Roma, in modo non molto diverso da come era accaduto nel V secolo. Roma si trova, da un giorno all’altro, senza governo; la monarchia è fuggita, il governo pure, e la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. Viene meno un’autorità, ma a Roma – città unica sotto questo aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità! Ciò significa che, benché a Roma vi sia il comitato e l’organizzazione militare del CLN, per la popolazione è di gran lunga più importante e acquista un rilievo ogni giorno maggiore l’azione del papato. Anche qui, in altri termini, la resistenza guidata dal CLN e l’azione dei partiti trovano un limite formidabile nella situazione generale.
Da Andreotti ricorda Roma liberata «A San Pietro una bandiera rossa», di Nese Marco, Corriere della Sera, 5/6/2008
«Quel giorno ci fu un po' di malumore dei giovanotti perché le ragazze, felici, correvano come matte incontro ai soldati alleati e li abbracciavano e baciavano». «Ciò che i tedeschi non erano stati capaci di fare - si legge nella storia della Quinta Armata -, lo fecero le masse compatte della folla romana: esse fermarono i nostri carri». Tuttavia, Andreotti ricorda che c' era ancora «un senso di paura, come se qualcuno potesse fare la spia e raccontare ai tedeschi cosa stava avvenendo». Un timore fugato dai soldati americani che rallegrarono le strade con le musiche di Glenn Miller. «Una folla immensa invase piazza San Pietro. La gente acclamava il Papa. E ricordo che sventolava perfino una bandiera rossa. La reggeva uno studente, ed è un fatto curioso perché quel giovane è poi diventato sacerdote, don Paolo Pecoraro». In Campidoglio, il generale Clark, che non era un grande oratore, salutò la folla dicendo semplicemente: «Questo è un grande giorno per la Quinta Armata». Insediò come sindaco il nobile Andrea Doria Pamphili, il quale, racconta Andreotti, ai romani che rivedevano una luce di speranza raccomandò: «Volemose bene».
1.6/ La “Resistenza” dei militari italiani che dissero in 600.000 no al nazismo
Da Militari italiani internati nei lager nazisti: anch’essi combatterono la Resistenza. Una recensione di Roberto Beretta al volume di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani, da Avvenire dell’8/10/2009
In un italiano un po’ arcaico Imi significherebbe «posti in basso», oppure «di infima condizione». Ed è oggettivamente difficile trovare una sigla più allusiva per significare la condizione degli Internati Militari Italiani: i 650 mila connazionali arrestati dai nazisti dopo l’8 settembre 1943 e deportati nei campi di lavoro in Germania.
«Imi» di nome e di fatto: perché sprofondati in quella che, nell’universo concentrazionario hitleriano, potrebbe essere paragonata alla palude degli ignavi, nemmeno degnati – da una parte – della qualifica di prigionieri di guerra (per non farli accedere ai benefici della Convenzione di Ginevra e all’assistenza della Croce Rossa) e – dall’altra, per mezzo secolo dopo la Liberazione – del prestigio di aver partecipato anche loro, col sangue e a pieno titolo, alla Resistenza.
Ma tutt’altro che ignavi essi furono; e anzi, per restare fedeli al giuramento di soldati ma non combattere contro i fratelli di patria, pronunciarono lungo 20 mesi il «no» della dignità a chi voleva riportarli in Italia arruolandoli nelle truppe di Salò. Per fortuna però, da un quindicennio a questa parte (complice un benemerito «revisionismo»), la considerazione di questi «partigiani anomali» sta crescendo, sia nell’opinione pubblica sia nell’interesse degli studiosi.
Lo dimostra – tra l’altro – l’antologia ragionata su Gli internati militari italiani che Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno appena compilato con «diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945» (Einaudi, pp. 336, euro 20). «Oggi si parla di 4 diverse Resistenze – così lo storico Giorgio Rochat nella prefazione –, senza una graduatoria: la resistenza contro i tedeschi delle forze armate l’8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo¬americana in Italia. E infine la resistenza degli Imi nei lager tedeschi».
Un chiarimento che suona da definitivo riconoscimento della storia «ufficiale» per il muto sacrificio di quegli uomini, sul quale peraltro (a parte i meritori studi scientifici di ricercatori tedeschi) e nonostante i forse 200 diari di superstiti pubblicati soprattutto dal 1985 in qui, resta molto da lavorare: «Se c’è un capitolo misconosciuto della guerra di liberazione – attaccano infatti gli autori – è la storia degli Imi».
A cominciare dal loro numero: su circa 2 milioni di effettivi dell’esercito nazionale all’8 settembre, i nazisti ne catturarono poco più della metà (58.000 in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani; altri 200.000 riuscirono a fuggire quasi subito). 94.000 – quasi tutte camicie nere – passarono direttamente con Salò. Dunque «al netto» i deportati italiani furono 710.000, più 20.000 considerati invece prigionieri di guerra e mandati sul fronte orientale come lavoratori aggregati all’esercito tedesco. «Entro la primavera 1944 – scrivono Avagliano e Palmieri – 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la Rsi, come combattenti o come ausiliari lavoratori.
In totale, quindi, tra i 600 e i 650 mila rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigionia. Soldati e sottufficiali avviati al lavoro coatto; ufficiali fiaccati da mesi di fame e di stenti nei lager». Infatti circa 50.000 non torneranno a casa: 23.300 stroncati da inedia e malattie, 4600 uccisi dai nazisti, 2700 periti sotto i bombardamenti, 10.000 morti per «cause varie» durante il lavoro obbligatorio, altri 5-7000 periti sul fronte orientale.
Un olocausto però non vano, pure in termini strettamente militari: anzitutto il rifiuto degli Imi di farsi nuovamente arruolare «sottrasse alla disponibilità di Hitler e Mussolini oltre 600.000 uomini utilizzabili sui vari fronti», soprattutto in Italia; e se ciò non avrebbe cambiato le sorti del conflitto, però sarebbe stato in grado di allungarne considerevolmente i tempi. Ma poi «la scelta degli Imi ebbe ripercussioni anche sul piano politico italiano, finendo per rappresentare, di fatto, un contributo diretto alla Resistenza nazionale e alla lotta antifascista».
Infatti – «considerato che ogni famiglia aveva almeno un parente o un conoscente internato in Germania» – «la vicenda degli Imi rappresentò per l’opinione pubblica uno dei principali motivi di delegittimazione del governo repubblicano fascista» contribuendo «a creare in patria, direttamente tra la popolazione, terreno fertile o addirittura aperta adesione alla Resistenza».
Infine il «no» degli Imi contribuì al «riscatto italiano grazie al quale il Paese nel dopoguerra poté presentarsi tra le nazioni democratiche, vincitrici sul nazifascismo... Gli Imi vennero a contatto con i loro ex nemici e l’intera Europa assistette al loro sacrificio, più duro di quello dei prigionieri di guerra e molto più simile a quello dei deportati politici e razziali».
È quanto mai consolante che la storiografia «ufficiale» e militante (i due autori fanno parte dell’Anpi) si spinga a considerazioni tanto esplicite su una Resistenza «altra» rispetto a quella partigiana: «Anche gli Imi combatterono un’altra guerra. Una guerra senz’armi, fatta di resistenza alla fame, al freddo, alle violenze e al lavoro coatto, alla sopraffazione fisica, morale e spirituale».
Tra l’altro «il 'no' all’adesione non era una scelta facile. Non va dimenticato che a quella generazione di italiani era stato insegnato per vent’anni a dire 'sissignore'». Anche per questo – scrive ancora Rochat – «dinanzi a questa scelta di massa bisogna ritrovare la capacità di stupirsi, anche di scandalizzarsi. Questi 650.000 prigionieri erano degli sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle forze armate dopo l’8 settembre... Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio... Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia agli appelli a passare dalla parte di Hitler... Rimane un caso unico la scelta di massa di questi militari italiani... Una scelta per la patria senza maiuscole né aggettivi, la comunità nazionale in cui tutti potevano riconoscersi». Una lezione preziosissima tuttora.
2/ Comprendere allora ciò che avvenne: l’orrore
2.1/ Hitler, odio anti-ebraico ed anti-cristiano
Da Franco Cardini
A Hermann Rauschning, con il quale ebbe scambi di vedute di notevole franchezza, Hitler dichiarava senza ambiguità che non poteva esservi coesistenza tra «una fede cristiano-giudaica con tutta la sua morale della compassione» e «una fede energica ed eroica in Dio e nella Natura, nel Dio che esiste nel suo popolo, nella sua sorte, nel suo sangue stesso». Per cui, «una Chiesa tedesca o un cristianesimo tedesco sono utopie. O si è cristiani, o si è tedeschi».
- cfr. il testo integrale dell'articolo: Il Dio di Hitler, di Franco Cardini
Da G. Martina, La chiesa nell'età del totalitarismo
La prima parte dell'enciclica, il cui primo abbozzo fu steso a Roma in tre notti dal card. Faulhaber, ma venne poi rivisto e corretto dal card. Pacelli riassumeva i rapporti fra Stato e Chiesa in Germania dal 1933, fermandosi soprattutto sulle vane speranze poste nel concordato e sulla aperta lotta contro la Chiesa. Nella seconda parte, Pio XI ribadiva le verità fondamentali del cattolicesimo, che il nazismo negava o interpretava ambiguamente, condannando le tendenze panteistiche, la divinizzazione della razza, del popolo, del capo dello Stato, l'ostilità verso l'Antico Testamento, il rifiuto di una morale oggettiva universale e di un diritto naturale: ”Chi eleva la razza, il popolo o una determinata sua forma, a rappresentanti del potere statale od altri elementi fondamentali della società umana a norma suprema di tutto, anche dei valori religiosi, perverte e falsa l'ordine delle cose create e volute da Dio”. L'enciclica proclamava poi l'indissolubile legame fra diritto e morale, fra morale e religione, sottolineava le conseguenze disastrose cui la negazione di un diritto naturale apre la via, cioè un eterno stato di guerra fra le nazioni e la totale subordinazione dell'individuo allo Stato.
- Le relazioni di d. Pirro Scavizzi a Pio XII sulla Shoah degli ebrei e l’annullamento della Chiesa polacca
Michele Manzo, Don Pirro Scavizzi. Prete romano, Piemme, Casale Monferrato 1997 (scheda dalla mostra on-line Voci dalla Shoah, su www.gliscritti.it )
Il volume è la biografia del sacerdote romano don Pirro Scavizzi di cui è in corso il processo di beatificazione. Durante la seconda guerra mondiale fu cappellano militare. L'esperienza che modificò radicalmente la sua percezione delle ragioni della guerra sono dovute ai quattro viaggi che fece sul treno organizzato dall'Ordine dei Cavalieri di Malta, per venire in aiuto ai soldati itali ani impegnati sul fronte russo.
Il primo viaggio si svolge tra il 17 ottobre ed il 15 novembre del 1941, fino a Dnepropetrovsk, in Ucraina, ove si trovano le truppe italiane. Il secondo, per Jassiowataja, va dal 12 gennaio al 20 febbraio del 1942. Il terzo viaggio fino a Cracovia, si svolge dall'8 aprile al 3 maggio del '42. Il quarto, sempre per Dnepropetrowsk, va dal 29 giugno al 23 luglio. Il quinto per Nipropetrowsk, dal 16 settembre all'11 ottobre. Il sesto ed ultimo, per Debalzewo, dal 4 al 28 novembre del 1942. Con l'inizio della disfatta italo-tedesca sul fronte russo terminano anche i viaggi di don Pirro lungo tutto l'asse orientale europeo.
Nei suoi diari si passa da una concezione favorevole alle forze dell'Asse, dovuta a ciò che la propaganda rendeva noto in Italia, ad un totale sconcerto.
Prima di tale esperienza, durante il primo anno di servizio sul treno, egli manifesta una visione ancora idealistica della guerra, considerata come “la lotta fra il bene e il male; fra le ideologie di fede e di giustizia e quelle di apostasia e di oppressione”. A combattere sono i “nostri prodi” che “danno il proprio sangue”, mentre gli avversari non sono altro che “le forze dell'inferno”. La “vittoria delle armi” deve coincidere con la “vittoria di Cristo”.
Al termine del primo viaggio redasse per Pio XII una memoria per informarlo sulla spaventosa situazione. Divenne subito cosciente che non era possibile alcuna comunicazione ufficiale fra la Santa Sede ed i paesi occupati dai nazisti.
L'arcivescovo Sapieha, di Cracovia... asserisce che gli è impossibile comunicare liberamente con Roma ché tutto è minutamente controllato e non gli è possibile comunicare liberamente nemmeno col Nunzio di Berlino.
Il regime nazista è ferocemente antipolacco ed impedisce il rapporto con il clero polacco.
Ai soldati del Reich è severamente proibito andare con Sacerdoti per le vie, o accedere a sacerdoti polacchi per le confessioni.
Soprattutto Scavizzi è testimone dell’avversione programmatica delle SS alla Chiesa Cattolica e a qualsiasi rispetto della vita.
I membri delle formazioni “SS”, secondo quanto mi è stato riferito da ufficiali tedeschi, debbono fare dichiarazione di non praticare nessun culto per essere fedeli esclusivamente alla religione dello Stato. A costoro sono riservate le esecuzioni individuali o in massa contro gli ebrei, contro i polacchi o contro chiunque essi giudichino pericoloso all'integrità del Reich... I loro atti (anche le “eliminazioni”) sono incontrollati e incontrollabili e incensurabili da chiunque.
Gli appare subito evidente che la decisione nazista è quella di concludere in breve tempo lo sterminio della popolazione ebraica. In particolare viene ripetutamente a conoscenza delle fucilazioni di massa operate dagli “EinsatzKommando”.
Oltre i confini dell'Italia, nei Paesi del Reich o alleati del Reich od occupati, la questione ebraica è di una gravità eccezionale... A Cracovia, a Leopoli e nelle principali città della Polonia sono stati relegato in un ghetto dove evidentemente regna il sudiciume e lo squallore... La mancanza del bracciale o della tessera di riconoscimento, o il trovarli in giro fuori orario, può determinare l'immediata uccisione... E' evidente, nell'intenzione del Governo occupante, di eliminare il più che sia possibile gli ebrei uccidendoli secondo i vari sistemi di cui il più frequente e il più conosciuto è quello del mitragliamento di massa. Per queste esecuzioni gruppi di famiglie ebraiche (uomini, donne e bambini anche lattanti) sono deportati a qualche chilometro dalla città, vicino a trinceroni della guerra oppure in luoghi dove precedentemente sono state fatte scavare delle enormi fosse costringendo a questo lavoro gli uomini stessi ebraici... Il numero delle uccisioni di ebrei si fa ascendere fino ad ora a circa un milione.
Non vi è alcun dubbio sullo stato delle cose.
Il volto di questa guerra è immensamente più spaventoso che quello della cosiddetta guerra mondiale 1915-1918 alla quale anch'io presi parte come Cappellano Militare.
Al ritorno viene segretamente ricevuto dal Santo Padre.
Scavizzi... viene ricevuto riservatamente da Pio XII. Non esiste alcun riscontro ufficiale dell'incontro... Lo stesso don Pirro dichiara, in un articolo scritto nel maggio 1964: ... “Mi recai dal Santo Padre Pio XII senza alcun preliminare di udienza, ma segretamente per riferirgli tutto. Lo vidi piangere come un fanciullo, e pregare come un santo”.
Nella memoria a conclusione del secondo viaggio precisa la descrizione dello stato miserevole del clero polacco. Si accentua la consapevolezza che è decisione dei nazisti di distruggere la presenza cattolica in Polonia, perché fonte di ostacolo alla germanizzazione del paese e alle orrende iniziative di sterminio.
Mi disse l'Arcivescovo di Cracovia che il numero dei sacerdoti e Religiosi finora imprigionati o uccisi in Polonia, ascende circa a 3000, sempre con pretesti di carattere politico e antinazista.
E' sempre più chiara la “soluzione finale”.
Le condizioni degli ebrei nella Germania, nella Polonia e nell'Ucraina, è sempre più tragica. La parola d'ordine è: “Sterminarli senza pietà”. Gli eccidi in massa si moltiplicano ovunque. I diritti all'esistenza sono ormai ridotti ai minimi termini per loro...
In Ucraina lo sterminio degli ebrei è ormai quasi terminato. Ho potuto notare che questi disgraziati ebrei, anche di condizione civile, anche ragazzi e fanciulli, hanno un aspetto quasi di alterezza quando sono costretti ai lavori più gravi o sospinti verso al morte.
Al ritorno a Roma ha un secondo colloquio col Papa. Lo descrive molti anni dopo.
Scavizzi... a distanza di poco più di vent'anni... descrive uno dei due colloqui avuti con Pio XII, probabilmente il secondo, avvenuto durante il mese di marzo del 1942, nella sosta tra il secondo e il terzo viaggio. Al racconto delle atrocità commesse dai nazisti il papa confessa di aver più volte pensato ad un atto ufficiale di scomunica ma di essersi dovuto ricredere di fronte all'argomentazione che “una mia protesta, non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli Ebrei e moltiplicato gli atti di crudeltà”.
La descrizione del terzo viaggio si precisa di particolari che mostrano come il nazismo proceda nell'opera di distruzione delle forze di resistenza della Chiesa Cattolica in Austria.
Il clero è sospettato e molti sono deportati e imprigionati per pretesti politici. Le relazioni col Nunzio sono praticamente impossibili. A proposito dell'attuale Nunzio, il cardinale (di Vienna) ne deplorava il silenzio ed esprimeva il giudizio che Egli fosse troppo timoroso e non si interessava di tanto gravi cose...
Ma è soprattutto in Polonia che è evidente la decisione di annientare qualsiasi punto di riferimento, anche attraverso al distruzione della gerarchia cattolica. Scavizzi elenca la situazione di alcune congregazioni religiose:
Gesuiti-A Dachau ne sono imprigionato sessantaquattro dei quali sono morti certanmente nove. Il 27 marzo a Wilna ne furono incarcerati altri ventinove, cioè tutto il collegio...
Salesiani-Oltre cinquanta ne sono in prigione ad Auschwitz. Di Cracovia sono quindici e sembra che siano morti e cremati eccetto due.
Addirittura tutti i monasteri di clausura sono pian piano evacuati e le suore portate nei campi di concentramento.
Suore-A Wilna nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1942 sono state arrestate tutte le Visitandine, le Carmelitane, le Orsoline del P.Ladochovski, le Figlie della Carità, le quaranta di Nazareth
La presenza dei sacerdoti è stata già quasi completamente distrutta in alcuni luoghi e negli altri lo sarà tra breve.
Altri Sacerdoti-In Posnania, dove erano una quarantina di preti ne è rimasto soltanto uno. Nel campo di Dachau vi sono circa un migliaio di preti di cui oltre settecento polacchi. Nella Slesia Pomerania quasi tutti i sacerdoti sono stati arrestati.
La maggioranza dei preti polacchi è stata deportata. Sono stati concentrati insieme senza poter essere vicini nemmeno ai connazionali deportati.
Fatti edificanti-Nel campo di Dachau ove sono circa mille sacerdoti e religiosi, è concesso ad uno solo di celebrare la Messa. Tutti gli altri tengono in mano una particola ed il celebrante intende di consacrarle tutte; così ciascuno si comunica da sé.
Nelle città in cui manca una presenza episcopale la situazione è ancora più deplorevole,
Il padre domenicano Bornieski, già Rettore Magnifico della Università di Lublino... dice che fu errore che durante la Nunziatura Cortese si lasciassero quattro diocesi senza vescovo, finché è scoppiata la guerra e le diocesi sono orfane ancora.
La memoria del quarto viaggio viene redatta in ritardo. Veniamo a conoscenza che le notizie arrivano in Vaticano attraverso i pochi cappellani militari, compagni di d.Pirro.
Dichiaro che non avevo osato presentare alla santità Vostra questa nuova relazione, perché credevo che lo avessero fatto meglio di me gli altri cappellani Militari, specialmente quelli dei cavalieri di Malta.
Il ritorno dei polacchi nelle case dei ghetti creati dai nazisti indica che il numero degli ebrei è ormai ridotto al lumicino.
Si consente ai polacchi di rifugiarsi nelle case del Ghetto, che giornalmente si vanno spopolando per gli eccidi sistematici degli ebrei. Molti nobili e molti altri delle categorie più abbienti sono stati deportati o uccisi per sospetti politici...
La eliminazione degli ebrei, con le uccisioni di massa, è quasi totalitaria, senza riguardo ai bambini nemmeno se lattanti... I pochi ebrei rimasti appaiono sereni, quasi ostentando orgoglio. Si dice che altre due milioni di ebrei siano stati uccisi.
Non solo gli ebrei sono sterminati, non solo la classe dirigente polacca è annientata, ma anche i soldati russi prigionieri sono sistematicamente uccisi. La teoria razzista nazista non conosce sosta. L'arianizzazione va avanti attraverso l'eliminazione fisica dei cosiddetti “non ariani”, slavi ed ebrei.
Mi ha sorpreso il fatto che fra i feriti tedeschi e italiani non ho quasi mai trovato dei russi feriti; né mi consta che per loro vi siano ospedaletti speciali!
- per leggere il testo integrale delle relazioni di Pirro Scavizzi: Il testo integrale delle relazioni di don Pirro Scavizzi, cappellano militare sul fronte russo, che informarono Pio XII non solo dello sterminio degli ebrei, ma anche dello sterminio dei polacchi cattolici che si andava preparando. Vietate erano le comunicazioni fra il Vaticano ed i vescovi e sacerdoti polacchi
- per Hitler il razzismo era un principio che poneva ogni popolo in una scala gerarchica: ariani, anglosassoni, latini, slavi, ebrei (con la variante “zingari”)
- Hitler aveva in odio assoluto la Chiesa e il cristianesimo, non solo l’ebraismo
- la sussidiarietà distrutta, i giovani sottratti all’educazione familiare nei raduni di Norimberga
2.2/ La spregiudicatezza di Hitler e le grandi infamie: Hitler e Stalin all’inizio della II guerra mondiale, ma trasformismo in tutto: il perenne bugiardo
Da 1939: il patto segreto fra la Germania e l' Urss, di Sergio Romano dal Corriere della sera del 15/9/2006 un brano della risposta di Sergio Romano alla lettera del sig. De Giovanni
[…] il patto tedesco-sovietico dell'agosto 1939 comprendeva due documenti: un trattato di amicizia, di cui venne pubblicato il contenuto essenziale, e un protocollo segreto con cui i due Stati si accordarono per la spartizione della Polonia e la delimitazione delle rispettive aree di influenza nel Baltico (l'accordo sulla Bessarabia fu stipulato più tardi).
Per giustificare se stessi e riparare allo scompiglio che l' annuncio aveva provocato nelle file dei partiti comunisti, i sovietici sostennero che l'intesa era stata provocata dai negoziati bruscamente falliti a Mosca, nei giorni precedenti, con una delegazione anglo-francese. Gli occidentali (questa la tesi della diplomazia sovietica) pretendevano di essere aiutati contro la Germania nazista, ma diffidavano dell'Urss e non erano disposti a permettere il transito dell'Armata Rossa attraverso il territorio polacco in caso di conflitto.
In queste condizioni, a Mosca non restava altra soluzione fuor che quella di proteggersi dall'espansionismo tedesco e guadagnare tempo. La spiegazione era ingegnosa, ma fu contraddetta dai vantaggi territoriali che l'Urss incassò nei mesi seguenti e dagli intensi rapporti economici che essa ebbe con il Terzo Reich sino al giugno 1941.
Naturalmente l'invasione tedesca fece dell'Urss una preziosa alleata dell'Occidente ed ebbe l'effetto di stendere sul patto Ribbentrop-Molotov il velo del silenzio. Ma la questione riemerse quando gli americani, dopo la fine della guerra, annunciarono di avere trovato in un archivio tedesco la copia fotografica del protocollo segreto che i due ministri degli Esteri avevano firmato a Mosca alla presenza di Stalin.
I sovietici replicarono che il documento era un falso, concepito nel clima della guerra fredda per screditare la patria del socialismo, e tutti i partiti comunisti occidentali si allinearono disciplinatamente su questa versione. Ma una commissione presieduta da Aleksandr Jakovlev, negli anni della presidenza di Boris Eltsin, ebbe il merito di scavare senza pregiudizi negli archivi del Cremlino e di portare alla luce l'originale del protocollo segreto.
[…]
La spartizione Molotov-Ribbentrop. L'accordo del 1939 fra Germania e Urss sulla spartizione dell'Europa centro-orientale, dal sito di Limes del 29/10/2009 una cartina pubblicata sulla rivista stessa
Carta tratta da "Comunicazione di servizio",
editoriale di Limes 5/2009 A est di Berlino
Questa carta illustra l’intesa germano-sovietica sui confini lituani e polacco-tedeschi codificata nel protocollo segreto allegato al patto Molotov-Ribbentrop. Reca le firme di Stalin e di von Ribbentrop.
Si noti la correzione di confine in favore della Germania a ovest di Leopoli, tracciata dai due con le rispettive matite colorate e garantita da un’altra firma del leader sovietico.
2.3/ Come accadde: la corruzione delle SS e il caso di Franz Stangl
- La corruzione delle SS
Rudolf Hoess passa completamente sotto silenzio alcuni aspetti della vita del campo. Come nella maggior parte dei memoriali delle SS, viene taciuta la corruzione presente ai massimi livelli di questo corpo. Mentre si dichiara l'obbedienza assoluta alla gerarchia nazista e agli “ideali” della nazione tedesca, in realtà essa è trasgredita continuamente, per interessi privati o familiari, come il benessere e l'arricchimento.
Così descrive questo aspetto Hermann Langbein, in Uomini ad Auschwitz:
Come comandante egli ha spesso ripetuto ai suoi sottoposti il rigido divieto di Himmler di impossessarsi di beni altrui. Stanislaw Dubiel riferisce come si comportava lo stesso Hoess. Se il comandante dava un ricevimento, la signora Hoess diceva a Dubiel di quali generi alimentari avesse bisogno. Dubiel descrisse poi davanti a un tribunale polacco come se li doveva procurare:
All'inizio io portavo la roba in un cesto fuori del magazzino dei viveri per gli internati, gestito dall'Unterscharfuhrer Schebeck; più tardi utilizzavo un'auto. Dal deposito dei generi commestibili portavo fuori, per l'uso privato di casa Hoess, zucchero, farina, margarina, diversi tipi di lievito, verdure per minestra, pasta, fiocchi d'avena, cacao, cannella, piselli e altri prodotti. La signora Hoess non era mai soddisfatta, mi parlava in continuazione di quello che ancora le mancava per il suo ménage domestico. I generi alimentari che io procuravo non li usava solo per casa sua, ma li spediva anche a diversi suoi parenti in Germania. Dovevo anche preoccuparmi di rifornire la cucina di casa Hoess di carne dal macello e di latte sempre fresco. Per tutto quello che andava a finire in casa sua dai depositi di commestibili e dal macello del Lager Hoess non ha mai pagato nulla.
Ogni giorno Dubiel portava a Villa Hoess dalla latteria del Lager cinque litri di latte. In base alle tessere, alla famiglia Hoess sarebbe spettato solo un litro e un quarto. Nel corso di un anno Dubiel dovette “organizzare” tre sacchi di zucchero da 85 kg l'uno. A Villa Hoess ebbe modo di vedere casse che contenevano ciascuna 10.000 sigarette della marca jugoslava Ibar. Con queste sigarette, ufficialmente destinate allo spaccio degli internati, lasignora Hoess si pagava qualche lavoro nero fatto dai prigionieri. Aveva inculcato a Dubiel che nessun uomo delle SS sarebbe dovuto venire a sapere qualcosa di tutto ciò, in quanto Hoess aveva vietato non solo di “organizzare”, ma anche di effettuare lavori neri e aveva minacciato severissime punizioni. Marta Fuchs, una sarta che era stata deportata da Bratislava per motivi razziali, dovette lavorare diversi mesi in casa Hoess con alcune aiutanti. Una camera sulla mansarda venne attrezzata come sartoria. Le stoffe venivano apertamente portate fuori del Kanada.. Un'altra ebrea, soprannominata Manza, aveva lavorato come pettinatrice presso la signora Hoess. Essa approfittò di questa tendenza a far lavorare gli internati per sé e convinse la signora Hoess a richiedere ancora qualcuna che facesse lavori di maglieria per i suoi figli. Così un'altra prigioniera poté arrivare a un posto di lavoro sicuro e protetto e la signora Hoess poté avere una schiava personale in più. Dopo che si era sparsa la voce di lavori neri nella villa del comandante, la signora Hoess fece attrezzare una sartoria nell'edificio del comando e lì si continuò a lavorare, cosa che offrì anche ad altre mogli di ufficiali la possibilità di approfittarne. Tuttavia anche durante questo periodo Marta Fuchs e un'altra sarta furono chiamate per breve tempo a lavorare a Villa Hoess dov'erano occupate anche due testimoni di Geova, una come cuoca e l'altra come cameriera. Il nome di una è conosciuto: Sophie Stipel, di Mannheim.
Emerge una immagine totalmente difforme dallo stereotipo che le SS hanno addotto per difendersi dai loro crimini, ben diverso dalla realtà di integerrimi servitori dello Stato, disposti a qualsiasi sacrificio per lo sviluppo del Reich!
Il direttore medico di Auschwitz, quando la famiglia Hoess se ne andò dal campo, il 26 novembre 1944, scrisse alla propria famiglia ciò che Baer, nuovo comandante del campo, aveva riferito:
Lui [il comandante Baer], mi ha raccontato della casa e del giardino di Hoess; è vergognoso com'era tutto pieno di lusso, senza senso di responsabilità. Furono necessari due vagoni ferroviari e non so quante casse per il trasloco! Spiacevole...
Evidentemente non tutti gli ordini di Himmler erano sacri allo stesso modo per Hoess. Un fatto ulteriore testimonia della corruzione nei reparti SS di Auschwitz.
Non poteva essere ignorato neanche da Eichmann quello che tutti sapevano. Tuttavia egli osò sostenere: “Hoess era la modestia in persona”. Se possibile ancora più falsa è l'idealizzazione di Eichmann quando dice: “Hoess conduceva una vita familiare esemplare”. Dovrebbe aver saputo che uno dei motivi del trasferimento di Hoess era costituito dal fatto che era stata scoperta una relazione che egli aveva allacciato con una prigioniera di nome Eleonore Hodys. Il giudice delle SS che dirigeva la commissione d'inchiesta, Morgen, arrivò a scoprire ad Auschwitz questo fatto e dichiarò a questo proposito:
Sono sicuro che il trasferimento di Hoess a Berlino fosse collegato dal procedimento da me avviato. Evidentemente in questo modo Pohl voleva ottenere di essere lui il giudice di competenza per l'operato di Hoess per poterlo così prendere sotto la sua tutela. §
Il dott. Morgen conferma che fu mostrato ad Hoess il protocollo redatto con la Hodys in merito a questa relazione e al tentativo di Hoess di mandarla a finire nel Bunker per farla morire di fame dopo che la cosa era divenuto nota.
Tutto ciò avveniva sotto gli occhi della sig.ra Hoess, che viveva con il marito in Villa, ai margini del campo.
Hoess, allontanato dal campo fu poi richiamato a comandarlo, quando cominciò lo sterminio degli ebrei ungheresi, di vastissime proporzioni, quello per cui fu allestita la rampa ad Auschwitz-Birkenau. Era evidentemente l'unico ritenuto in grado di svolgerlo nel migliore dei modi.
Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi, Milano, 1994
Tutti i campi di concentramento erano progettati per la morte degli internati, tramite stenti e lavoro massacrante. Ma quattro di essi, Chelmno, Belzec, Sobibor e Treblinka erano costruiti per l'uccisione immediata.
Sono i campi di sterminio, costruiti solo per gli ebrei. I deportati venivano fatti scendere dai treni ed obbligati a spogliarsi. Alle donne venivano tagliati i capelli. Poi tutti, divisi per sesso (i bambini con le donne) venivano condotti alle camere a gas. Nel giro di 20 minuti non si udiva più un grido nelle camere. Dall'arrivo del convoglio allo sterminio di tutti i suoi occupanti non erano passate più di quattro ore. Il campo della morte era già ripulito e pronto per un altro convoglio (spesso erano più di uno al giorno).
Auschwitz era un campo misto. Con una selezione all'arrivo tre quarti dei nuovi arrivati erano subito uccisi tramite gassazione. Solo un quarto era introdotto vivo nel campo.
Del comandante del più grande di questi campi di sterminio si occupa il libro.
Gitta Sereny, giornalista, riceve l'autorizzazione ad intervistare in carcere, per settanta ore, Franz Stangl, austriaco, comandante delle SS di Treblinka.
Stangl accetta di raccontare la sua carriera. Al momento dell'annessione dell'Austria, dovette sottostare a compromessi ed omertà via via più grandi, per non perdere il posto di polizia che aveva.
“Sono loro (i tedeschi) che mi hanno spinto... Avrei dovuto suicidarmi nel 1938. Fu allora che cominciò tutto per me. Devo riconoscere la mia colpa.”
Questa, il secondo giorno delle nostre conversazioni, fin quasi alla fine di esse, fu l'unica volta in cui Stangl riconobbe le sue colpe in modo diretto. Nel suo animo, gli eventi successivi della sua vita - ai quali ci stavamo avvicinando - erano inseparabili da quest'inizio. Quando pronunciò spontaneamente questo riconoscimento di colpa per le sue relativamente innocue mancanze a questo punto della sua vita, fu - a mio avviso - perché voleva e aveva bisogno di dire “sono colpevole”, ma non riuscì a pronunciare queste parole quando parlò dell'assassinio di quattrocentomila, settecentocinquantamila, novecentomila, o un milione e duecentomila persone (queste cifre ufficiali o ufficiose variano secondo la fonte). Così, preferì trovare un sostitutivo accettabile per il quale potesse permettersi di ammettere colpevolezza. Solo un mostro, nessun uomo che abbia effettivamente partecipato a questi eventi (anziché averli “semplicemente” organizzati da lontano) può riconoscersene colpevole, e, come aveva detto quel giovane funzionario della prigione di Düsseldorf, “consentire a rimanere vivo”.
Dal resoconto del comandante di Treblinka emerge la storia di un misero burocrate, tutt'altro che costretto con la violenza a compiere il suo lavoro, ma piuttosto condotto dalle sue paure e dai suoi cedimenti progressivi.
Dal dichiararsi nazista per ragioni di carriera, al rinnegamento firmato dell'obbedienza alla Chiesa, alla partecipazione diretta al programma eutanasia (lo sterminio delle persone handicappate e malate di mente), fino al comando del campo di Treblinka.
Solo a tratti, nel corso del colloquio, emerge il malessere in Stangl. Viaggiando in treno in Brasile, dove era fuggito con la moglie, aveva visto dal finestrino una grande mandria di mucche.
Mi ricordò l'episodio che lui mi aveva raccontato, a proposito del bestiame che aveva visto accanto a una stazione, in attesa di essere macellato, e aveva pensato: “Questo mi ricorda la Polonia; anche là la gente aveva questa aria fiduciosa - un momento prima di finire nelle scatole...” e domandai a sua moglie se gli aveva parlato di quest'episodio. Lei mi disse che non gliene aveva mai parlato. “Ma, sa, d'un tratto smise di mangiar carne; non riesco esattamente a ricordare esattamente quando successe, ma fu poco dopo il nostro arrivo”.
Stangl racconta la vita quotidiana del campo fino al giorno in cui il campo fu distrutto, il 2 agosto '43, da una rivolta del SonderKommando ebraico del campo.
Alla moglie di Stangl, che continua a vivere in Brasile, la Sereny domanda:
“Vorrei che mi dicesse che cosa crede che sarebbe successo se a un certo momento lei si fosse messa di fronte a sua marito imponendogli una scelta assoluta; se gli avesse detto: “Senti, so che è tremendamente pericoloso, ma, o tu ti tiri fuori da questa cosa terribile, o altrimenti io e le bambine ti lasceremo”. Quello che vorrei sapere” dissi “è: se lei gli avesse posto quest'alternativa, che cosa crede che lui avrebbe scelto?”.
Lei se ne andò nella sua stanza e si stese sul letto; sentii cigolare le molle del letto, come lei vi si stese. La piccola casa era in silenzio. Fuori faceva molto caldo, e il soggiorno dove ero seduta in attesa era pieno di sole; rimasi ad aspettare per più di un'ora. Quando lei tornò era pallidissima; aveva pianto, poi si era lavata la faccia, si era pettinata, e, mi parve, si era messa un po' di cipria. Adesso si era ricomposta; aveva preso una decisione - la stessa decisione che suo marito aveva preso sei mesi prima nella prigione di Düsseldorf: aveva deciso di dire la verità.
“Ho riflettuto profondamente” disse. “So quello che lei vuole sapere. So che cosa faccio, nel rispondere alla sua domanda. E le rispondo perché me ne ritengo in dovere, ritengo di doverlo a lei, agli altri, e a me stessa, credo che se avessi posto a Paul (N.B. Paul è il nome assunto in Brasile da Franz Stangl) l'alternativa: o Treblinka o me, lui... sì... in ultima analisi, lui avrebbe scelto me”.
Sentii intensamente che questa era la verità. Io credo che l'amore di Stangl per sua moglie era più grande della sua paura. Se lei avesse trovato il coraggio e la forza morale di indurlo a fare una scelta, è vero, magari sarebbero periti tutti, ma, in un senso più fondamentale, lei l'avrebbe salvato. Comunque, questa non fu l'ultima parola, tra Frau Stangl e me, durante la mia permanenza in Brasile.
La mattina dopo dovetti uscire dal mio albergo alle sei, per recarmi in volo all'interno, e tornai solo a tarda sera. Rientrando, il portiere mi consegnò una lettera. “L'ha portata una signora,” disse “stamattina presto”.
Cara Dona Gitta, la prego di correggere la mia risposta a una domanda che lei mi ha fatto, in quanto avevo avuto troppo poco tempo per rifletterci su.
La domanda era se mio marito avrebbe trovato il coraggio di lasciare Treblinka, se io gli avessi posto l'alternativa “O me o Treblinka”. Alla sua domanda io ho risposto - dubbiosamente - che avrebbe scelto me.
Ma non è così, poiché, per quanto lo conosco - e lo conosco bene - lui non avrebbe mai distrutto se stesso e la famiglia. E di questo arrivai a rendermi conto in quel critico mese di luglio 1943.
Pertanto, in tutta sincerità, poso dire che fin dal principio della mia vita a oggi, ho sempre vissuto onorevolmente.
Ancora una volta, le auguro, cara Dona Gitta, ogni bene.
Thea Stangl
Telefonai a Frau Stangl quella notte stessa.
“Quando l'ha scritta, questa lettera?” le domandai.
“Mi fa pensare che lei l'abbia scritta nel cuore della notte. Questo non è veramente ciò che lei voleva dire, vero?”.
Lei si mise a piangere. “Ho riflettuto, ho riflettuto tanto...” disse. “Non sapevo che cosa fare. E così, alla fine, alle tre del mattino, ho scritto quella lettera, e l'ho portata al suo albergo col primo autobus”.
“Che cosa vorrebbe che io facessi?” le domandai.
“Non so. Proprio non lo so”.
Dissi a Frau Stangl che avrei messo nel mio libro ciò che lei mi aveva detto il giorno prima - poiché pensavo che quella era la verità. Ma che avrei anche aggiunto la lettera, che dimostrava semplicemente ciò che tutti sappiamo, e cioè che la verità può essere una cosa terribile, a volte troppo terribile per poterci convivere.
Nella penultima ora di colloquio fra la giornalista ed il suo intervistato, ancora una volta la Sereny chiede a Stangl se si sente colpevole della morte degli ebrei del suo campo.
La sua risposta immediata fu automatica, e automaticamente incrollabile. “Per quello che ho fatto, la mia coscienza è pulita” disse, le stesse parole, rigidamente pronunciate, che aveva ripetuto innumerevoli volte al suo processo, e nelle scorse settimane, ogni volta che eravamo tornati su questo argomento.
Ma questa volta io non dissi nulla. Lui fece una pausa e aspettò, ma la stanza rimase silenziosa. “Io non ho mai fatto del male a nessuno, intenzionalmente” disse, in un tono diverso, meno incisivo, e di nuovo aspettò - molto a lungo. Per la prima volta, in tutti questi giorni, io non gli davo nessun aiuto. Non c'era più tempo. Lui si afferrò al tavolo con entrambe le mani, come per tenersi a esso.
“Ma ero lì” disse poi, in un tono di rassegnazione, curiosamente secco e stanco.
C'era voluta quasi mezz'ora per pronunciare quelle poche frasi. “E perciò, sì...” disse alla fine, molto pacatamente “in realtà, condivido la colpa... perché la mia colpa... la mia colpa... solo adesso, in queste conversazioni... ora che ho parlato... ora che per la prima volta ho detto tutto...” si fermò.
Aveva pronunciato le parole “la mia colpa”: ma più delle parole, fu l'improvviso afflosciarsi del suo corpo, il volto cadente, a denunciare l'importanza di quell'ammissione.
Dopo più di un minuto, riprese, come controvoglia, con voce atona. “La mia colpa” disse “è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa”.
“Ancora qui?”.
“Avrei dovuto morire. Questa è la mia colpa”.
“Intende dire che avrebbe dovuto morire, o che avrebbe dovuto avere il coraggio di morire?”.
“Può anche metterla così” disse in tono vago; sembrava stanco, ora.
“Bè, lo dice adesso. Ma allora?”.
“Questo è vero” disse lentamente, forse fraintendendo volontariamente la mia domanda. “Ho avuto altri vent'anni - venti buoni anni. Ma, mi creda, adesso preferirei essere morto allora, anziché questo...” guardò attorno, nella piccola stanza della prigione.
“Non ho più speranza” disse poi, in tono di constatazione; e poi, sempre in tono pacato: “e comunque... basta così. Porterò a termine queste conversazioni con lei, e poi... che sia finita. Che sia finita”.
Era finita. Mi alzai. Di solito, veniva una guardia per riaccompagnarlo alla cella; questa volta, poiché ci eravamo trattenuti assai più del solito, le istruzioni erano ch'egli scendesse con me fino all'entrata della prigione, di dove una guardia l'avrebbe riaccompagnato alla sua cella. Quando ci alzammo, diventò d'un tratto molto allegro, sembrava che ogni stanchezza gli fosse passata; mi aiutò a raccogliere le mie carte, e insisté per portare la tazza da caffè.
Quando arrivammo di sotto, restammo per un momento vicino alla porta, che mi fu aperta perché potessi uscire; lui sporse la testa fuori. “Che aria buona,” disse “me la faccia odorare un momento. Vorrei accompagnare la signora alla porta” disse alla guardia, che sorrise e premette il bottone che chiudeva elettronicamente la porta. Quando, all'esterno, lo salutai con un cenno, sorrise, e rispose al mio cenno. Erano da poco passate le cinque.
Stangl morì diciannove ore dopo, appena passato mezzogiorno del giorno dopo, lunedì, per un attacco di cuore. Non aveva visto nessuno, da quando l'avevo lasciato, tranne la guardia che gli aveva portato il carrello con la colazione...
Tutti quanti, me compresa, pensammo che avesse potuto suicidarsi, e pertanto l'autopsia cui fu sottoposto per legge il suo cadavere fu particolarmente accurata.
Non si era suicidato. Era malato di cuore, e sarebbe morto presto comunque. Ma io credo sia morto allora perché alla fine, sia pure per un momento, s'era messo di fronte a se stesso e aveva detto la verità; era stato uno sforzo ciclopico, per raggiungere quel momento fuggevole in cui era divenuto l'uomo che avrebbe dovuto essere.
2.4/ La connivenza ed il silenzio del mondo
«Quando i Berliner si vendettero a Hitler». Lo storico Aster: «Troppi silenzi su questa vicenda», di Pierachille Dolfini, da Avvenire del 4/8/2011
La foto in bianco e nero che vedete è datata 15 novembre 1933. Ritrae la vecchia Philharmonie di Berlino. Sul palco l’orchestra di casa, i Berliner philharmoniker, pronti per un concerto. Sin qui nulla di strano. Se non fosse per la grande svastica che, incorniciata di fiori, sovrasta l’orchestra.
E per quell’oratore davanti al podio del direttore che altri non è che Joseph Goebbels, ministro per l’Educazione del popolo e la Propaganda di Adolf Hitler. Inaugura la Camera della cultura del Reich. E i Berliner sono la colonna sonora dell’evento. Di più: sono l’orchestra del Reich.
A indagare il passato dell’orchestra tedesca, che molti avrebbero voluto dimenticare, è Misha Aster (storico canadese che vive a Berlino) in un volume, L’orchestra del Reich , che arriva in Italia pubblicato da Zecchini (pagine 339, euro 25). Un’inchiesta che «svela» il patto stretto dai Berliner con il potere. Tutto ha origine da problemi di soldi più che politici. Perché l’orchestra nata nel 1882, in quel 1933 che vide la nomina di Hitler a cancelliere del Reich non se la passa bene. Una gravissima crisi economica si trascina dagli anni Venti e ne minaccia la sopravvivenza: ha spese per un milione di marchi e i finanziamenti non bastano. I creditori bussano quotidianamente alla porta. Goebbels lo sa bene. Per questo gioca le sue carte.
Nel libro, non ci sono giudizi. Solo fatti. Scovati in documenti degli archivi di Stato, tra le carte dei Berliner e nelle raccolte private dei musicisti. Per raccontare la storia di uno 'sfruttamento reciproco'. Quello del Reich che, come aveva intuito Goebbels, poteva usare i Berliner come uno strumento di propaganda nel mondo e di rafforzamento dell’identità nazionale, specie attraverso i concerti trasmessi alla radio, in patria. E quello dei Berliner che consegnandosi al potere potevano garantirsi la sopravvivenza.
Certo, il prezzo da pagare è stato alto. In termini di autonomia, innanzitutto, perché gli orchestrali, «da sempre imprenditori di se stessi, diventavano dipendenti pubblici con l’esenzione dalla leva militare». Anche i vertici sono di nomina statale: unico privilegio che i Berliner mantennero era la scelta del direttore musicale. Inutile dire che il repertorio doveva parlare assolutamente tedesco.
«Ma soprattutto l’orchestra era a disposizione del Reich, presenza fissa ai raduni di partito a Norimberga, ai compleanni del Führer, ai raduni della gioventù nazista». Oltre che prestigioso biglietto da visita da esibire all’estero o in occasione di grandi eventi come le Olimpiadi di Berlino del 1936. Un prezzo, che, però, non sembrava pesare ai musicisti, autonomi dal Nazionalsocialismo se è vero «che solo uno su cinque aveva la tessera di partito».
Così come non l’aveva Wilhelm Furtwängler, direttore dei Berliner dal 1922 al 1945 (ricoprirà l’incarico anche dal 1952 al 1954, anno della sua morte, quando cederà il podio a Herbert von Karajan che, a differenza di Furtwängler, la tessera del partito nazista l’aveva presa). Figura non del tutto amata dai nazisti, ma utile al disegno di Goebbels in quanto privilegiava il repertorio tedesco mettendo sui leggii Beethoven, Bruckner, Brahms, Wagner e Strauss.
Anche in questo caso, evidenzia, Aster, «ci fu un rapporto di reciproco sfruttamento: Furtwängler in cambio di prestigio, visibilità e eccellenti retribuzioni si prestava agli scopi politici del regime. Non prendendo però mai posizioni politiche. Tant’è vero che quando fu chiesta l’espulsione dall’orchestra di quattro musicisti ebrei il direttore si oppose adducendo motivazioni artistiche sulla qualità dei musicisti».
I Berliner, ma soprattutto Furtwängler pagarono questi dodici anni a servizio del Reich. Il direttore, accusato dagli americani di aver sostenuto il regime e di aver fatto propaganda antisemita, subì un processo, ma venne dichiarato innocente. Non bastò perché dovette rinunciare al podio della Chicago symphony per il boicottaggio minacciato da prestigiosi sponsor e da musicisti ebrei. I Berliner sono sopravvissuti. Seppur lentamente, hanno ripreso a suonare nel mondo. Ma in molti, specie nel lungo periodo che sino al 1989 vide Karajan sul podio (dopo di lui venne Claudio Abbado, dal 2002 al timone c’è Simon Rattle), preferirono dimenticare la cosa.
-Martin Heidegger e gli altri – il tema anche qui richiederebbe un’infinità di approfondimenti
Martin Heidegger, Ernst Jünger e Carl Schmitt…
I capi d’accusa in realtà sono noti e da tempo dibattuti. Il sostegno di Heidegger al nascente regime nazista è comprovato da quella che davanti al tribunale della storia è la prova a suo carico più schiacciante, il discorso Appello agli studenti tedeschi che pronunciò nel 1933 da rettore dell’Università di Friburgo: «Non teoremi e idee – disse – siano le regole del vostro vivere. Il Führer stesso e solo lui è la realtà tedesca dell’oggi e del domani e la sua legge».
[…] Heidegger e Schmitt furono anche regolarmente iscritti al Partito nazista (non Jünger, che anzi rifiutò la proposta di Goebbels di presiedere l’Unione nazista degli scrittori) dal 1934.
- per l'Italia, cfr. Árpád Weisz, l’allenatore ebreo che vinse 3, anzi 4 scudetti, con l’Inter ed il Bologna, e morì ad Auschwitz
oltre a (per la RSI) Attori, scrittori, detective: quanti vip furono "repubblichini" [da Dario Fo a Ugo Tognazzi a Hugo Pratt]
Da Tutti contro Mussolini (in genere dopo il 1943). Vincevano i concorsi sull'arte di propaganda e sono presentati come oppositori del regime. Errori storici e discutibili interpretazioni in una mostra sulle opere antifasciste alla Estorick Collection di Londra, di Sandro Barbagallo (L’Osservatore Romano del 30/9/2010)
"L'opposizione al regime in mostra" è il sottotitolo di una rassegna che si tiene a Londra col titolo "Against Mussolini: Art and the Fall of a Dictator", che avrebbe l'ambizione di presentare la produzione artistica italiana legata all'opposizione a Benito Mussolini, soprattutto dopo il 1943!
Come dichiara il comunicato stampa, la mostra intende offrire l'occasione per uno studio "ampio e illuminante di una branca poco indagata della cultura italiana". Ma di che cosa stiamo parlando? E soprattutto, di chi?
Andando a vedere le opere si nota subito una serie di disegni satirici sbeffeggianti il duce e il regime datati tra il 1940 e il 1943, tutti realizzati da illustratori inglesi su riviste come "Punch". Inoltre c'è persino Merlyn Evans, pittore inglese di stanza in Italia nell'aprile del 1945, testimone degli orrori di piazzale Loreto. E già con questi autori andiamo fuori dal tema indicato dal titolo della mostra; poiché ci risulta piuttosto difficile credere che quelle vignette circolassero nell'autarchica Italia di quegli anni.
Dopo questa carrellata di inglesi, vediamo chi sono gli artisti italiani che avrebbero remato contro il fascismo con le loro opere: Alberto Bazzoni, Nicola Neonato, Vittorio Magnani, Renato Cenni. Tutti partigiani ed eroi della Resistenza che documentano la cattura di soldati tedeschi, di scontri in montagna e i propri compagni nascosti nei rifugi. Opere che, come dichiarano i curatori, "nella loro immediatezza e semplicità rispecchiano la rinascita nell'arte italiana (sic!) di quel Realismo che doveva diventare l'estetica dominante negli anni del dopoguerra".
Come tutti sanno, il fascismo cade il 25 luglio del 1943 in seguito all'Ordine del giorno Grandi, voluto da diciannove gerarchi. Subito, a furor di popolo, vengono abbattuti tutti i suoi simboli e simulacri. Quindi anche questa sezione della mostra londinese è fuori tema. Così come l'allusione alla "rinascita" di un Realismo che, con tutta la buona volontà, non risulta che ci sia mai stato nel Novecento in Italia. Sempre che non si volesse intendere per Realismo il "Ritorno all'ordine" o il gruppo dei "Valori plastici", che però nulla hanno a che fare con il "fotografismo" di matrice teutonica in voga in quegli anni.
Ma la cosa che più ci sorprende è l'elenco di quegli artisti, tutti presenti nella storia dell'arte italiana, proposti quale esempio di opposizione al regime. Mentre le varie edizioni del Premio Bergamo, dal 1939 al 1942, dimostrano il contrario.
Si tratta di Mino Maccari, Mario Mafai e Renato Guttuso, tutti artisti che, come vedremo, erano ampiamente compromessi con il regime che dava loro premi e prebende, anche se, come ha scritto qualcuno, nel fascismo frondista di Bottai.
Prima di entrare nel merito della presenza di questi artisti ci sembra però necessaria una puntualizzazione. Non si può generalizzare, con un eccesso di zelo, sulla politica culturale fascista perché due erano le strade tracciate dai gerarchi addetti alla cultura del regime: una quella di Roberto Farinacci, filonazista e promotore del Premio Cremona; l'altra quella di Giuseppe Bottai, illuminato difensore di un'arte libera, inventore del Premio Bergamo. Il primo, ammiratore di Hitler e dell'arte nazista contro l'arte moderna, definita "degenerata", era riuscito a stanziare come primo premio ben cinquantamila lire; l'altro, più legato a un'autentica cultura europea contro la mediocre arte di propaganda, aveva a disposizione solo venticinquemila lire.
Nelle giurie di entrambi i premi compare sempre Giulio Carlo Argan, che nel dopoguerra, divenuto comunista, si difese dicendo che Bottai col Premio Bergamo voleva impedire lo sfascio dei valori culturali e intendeva salvare l'arte. Argan stesso ammetteva di essersi compromesso volutamente per "salvare il salvabile, pur provando disgusto per la volgarità culturale del fascismo". Poi, per giustificare la sua presenza anche nel Premio Cremona, quando il tema era "Ascoltando alla radio un discorso del Duce", arrivò a sostenere che: "A Mussolini non importava nulla né del premio Bergamo, né del premio Cremona sostenuto dai nazisti, né lo interessavano a fondo i problemi della cultura".
Affermazione, questa, di uno dei nostri più illustri storici dell'arte, non del tutto esatta poiché, come si sa, Mussolini era stato introdotto ed educato all'arte dalla celebre critica veneziana Margherita Sarfatti, da lui stesso incaricata a visitare gli studi degli artisti per acquistarne le opere. Dichiarazione che contraddice inoltre anche l'opinione diffusa che considera l'arte italiana del Ventennio circoscritta al culto della personalità di Mussolini.
D'altra parte, poiché nel Premio Bergamo, a volte in giuria, a volte tra gli artisti invitati, altre tra quelli premiati, si raccoglie il gotha dell'arte italiana - da Carrà a De Pisis, da Capogrossi ai fratelli Basaldella, Mirco e Afro, dai Marussig a Pirandello, da Rosai a Casorati, compresi, naturalmente i Mafai, i Maccari e i Guttuso presenti a Londra - ciò dimostra quanto opinabile sia la motivazione della mostra che, ricordiamo, vorrebbe illustrare "L'opposizione al regime".
In prima linea viene rappresentato Renato Guttuso, ovvero il principe dei camaleonti, lo stesso che il suo amico Maccari definì "il tribuno illustrato". Di Guttuso si propone, tra gli altri, uno studio per la celebre opera La fuga dall'Etna che vinse diecimila lire al Premio Bergamo del 1940. Tale opera compromessa è stata dai curatori, in un empito di sincerità, giustificata in tal modo: "La rappresentazione di contadini terrorizzati in fuga dall'eruzione ha un ruolo simbolico che portò lo stesso Guttuso a considerare questo quadro come il suo primo lavoro di chiaro significato politico". Che bisogno c'era, ci chiediamo, di incollare sulla controversa fama del maestro Guttuso un'ulteriore quanto improbabile etichetta di antifascismo? […] Ciò non toglie che gran parte dell'arte italiana, trovatasi, e non formatasi, nel periodo fascista, poteva contare su grandi nomi che tali sono rimasti. Un esempio per tutti Giacomo Balla, che nel 1932 dipinse su incarico di Mussolini La marcia su Roma, ma lo fece nel retro di un ben più importante quadro, dipinto nel 1913, intitolato Velocità astratta. […]
Da Einaudi rifiutò originariamente Se questo è un uomo, di A.L.
Il manoscritto di Se questo è un uomo di Primo Levi venne rifiutato nel 1947 da Einaudi, casa editrice legata allora a filo doppio con il PCI, con una motivazione generica. Anche altre case editrici si dichiararono non interessate alla pubblicazione. Solo una piccola casa editrice torinese, la De Silva, diretta da Franco Antonicelli, accettò di stamparlo.
Evidentemente la memoria della Shoah non era allora, tragicamente, una delle preoccupazioni principali dell’intellighenzia uscita dalla II guerra mondiale.
Fu invece Italo Calvino ad apprezzare Se questo è un uomo ed ha impegnare la propria firma per farlo conoscere, con una recensione molto positiva.
Solo nel 1955, 10 anni dopo la pubblicazione, Einaudi si decise infine ad acquistare i diritti del volume di Primo Levi per realizzarne una ristampa che uscità infine nel 1958.
Nel breve testo a firma di Giulio Einaudi, Primo Levi e la Casa Editrice Einaudi (in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Einaudi, Torino, 1997, pp. 393-399) non si fa cenno al rifiuto originario, come invece si aspetterebbe.
da Elie Wiesel , L'ebreo errante, Giuntina, Firenze, 1994
Testo che raccoglie articoli di provenienza varia, scritti da Wiesel. Ne La nostra colpa comune viene affrontato il problema delle responsabilità dell'Olocausto:
Eppure, senza l'aiuto e la tacita approvazione degli ucraini, degli slovacchi, dei polacchi, degli ungheresi, i tedeschi non avrebbero mai potuto risolvere la “questione ebraica” così completamente e così rapidamente. Gli slovacchi pagavano una certa cifra per ogni ebreo che i tedeschi deportavano dal loro paese; gli ungheresi esercitavano pressioni su Eichmann, che non mancava certo di zelo, perché accelerasse i trasporti; gli ucraini e i lettoni superarono i tedeschi in crudeltà. Quanto ai polacchi... Non è un caso che i campi peggiori siano stati costruiti in Polonia e non altrove.
Dovunque la popolazione locale si opponesse alla deportazione dei propri concittadini ebrei - è un fatto stabilito, indiscutibile - il “rendimento” era basso, insoddisfacente. Lo stesso Eichmann lo ha riconosciuto e sottolineato nelle confessioni che ha dettato a Buenos Aires al giornalista olandese Wilhelm Sassen. In Danimarca, quasi tutta la popolazione ebraica venne salvata. In Francia, in Belgio, in Olanda, paesi in cui le misure antiebraiche erano male accolte, i rappresentanti di Eichmann non potevano assolvere il loro compito se non in modo assai mediocre, provocando un'indignata amarezza a Berlino. Ma là dove la popolazione stessa aspirava a diventare judenrein, i carri di bestiame con il loro carico umano correvano senza ostacoli verso la notte. Queste verità non hanno trovato a Gerusalemme l'eco che meritavano. […]
Non sussiste più dubbio sulla effettiva conoscenza almeno di massima della persecuzione, in Occidente.
Nella corrispondenza fra il Professor Chaim Weizmann e il Foreign Office, presentata in tribunale a Gerusalemme, c'è una richiesta commovente nella sua semplicità: il leader sionista implorava il governo di Sua Maestà di dare ordine alla RAF di bombardare le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz. La risposta fu negativa. Si sa che una simile richiesta venne rivolta da un leader ebreo americano al Presidente Roosevelt. Ma anche Roosevelt non dette alcun seguito alla cosa.
E' comunque curioso - per non usare un altro termine - che il mondo libero non si sia indignato che dopo, quando era troppo tardi, quando non c'erano più ebrei da salvare.
Il saggio è scritto a commento del processo Eichmann a Gerusalemme.
Infine, per non togliere nulla alla verità storica, il procuratore generale avrebbe dovuto spingere fino in fondo la sua requisitoria e rivelare un fatto che, per amaro e triste che possa essere, non è meno vero: gli ebrei stessi non fecero tutto ciò che avrebbero dovuto fare: dovevano, potevano fare molto di più. L'ebraismo americano non si è quasi mosso, non ha usato la sua influenza politica e finanziaria, non ha smosso cielo e terra come avrebbe dovuto fare. Si, lo so: aveva le sue ragioni, le sue giustificazioni, ma non sono valide. Nulla giustifica né spiega la passività quando si tratta di fermare l'assassinio quotidiano di migliaia di persone. Quante manifestazioni hanno avuto luogo al Madison Square Garden? Quante dimostrazioni davanti alla Casa Bianca? Ben Hecht ne parla, e con quale amarezza, nel suo Child of the Century. A leggerlo si gela il sangue.
In Palestina, cuore e coscienza del popolo ebraico, la situazione non era molto diversa. Fino alla fine del 1944 non hanno mai trovato il modo di andare ad avvertire ed eventualmente ad aiutare le grandi comunità ebraiche che la morte aspettava al varco. Quando quei pochi paracadutisti sono arrivati a Budapest (e dal processo Kastner sappiamo con quale risultato), non restava loro più niente da fare: metà Europa era già priva di ebrei. Perché non è stato prima mandato qualcuno? Certo, sappiamo che c'era la guerra in Palestina. E allora? I giovani membri del Palmach si sarebbero presentati tutti volontari. Fra cento scelti, dieci o cinque sarebbero arrivati a destinazione; avrebbero organizzato la resistenza, evasioni, salvataggi.
Le conseguenze del silenzio sono evidenti per lui, ebreo deportato fra gli ultimi, dalla Transilvania.
Uno degli episodi più sconvolgenti della guerra riguarda gli ebrei di Ungheria e in particolar modo quelli della Transilvania. La loro deportazione in massa ebbe luogo fra il maggio e il giugno 1944, qualche giorno prima dello sbarco in Normandia. Alla stazione di Auschwitz non sospettavano ancora la sorte che li attendeva. Lo stesso nome sinistro di Auschwitz era loro sconosciuto. Non sapevano cosa significasse per loro. Se lo avessero saputo, quanti avrebbero potuto essere salvati? Non tutti, senza dubbio, ma la maggior parte sì. L'Armata Rossa si trovava a una distanza di circa quaranta chilometri: di notte si sentiva chiaramente il rimbombo dei cannoni. C'erano delle montagne nei dintorni, dove ci si poteva facilmente rifugiare, aspettarvi qualche giorno; l'arrivo dei liberatori non era che una questione di ore. Ma a quei pii ebrei di Transilvania veniva detto che non avevano nulla da temere, che li trasferivano da qualche parte all'interno del paese. E loro ci hanno creduto. Ripeto: questo è accaduto nella primavera dell'anno di grazia 1944, quando ogni bambino di Brooklyn, di Whitechapel e di Tel Aviv già sapeva che Treblinka e Birkenau erano tutt'altro che piccole stazioni di provincia.
Tuttavia, a Joel Brand, che sollecitava un colloquio urgente per informarlo della sua missione doppiamente tragica, il professor Chaim Weizmann fa rispondere che è troppo occupato e rimanda il colloquio di qualche settimana. Eppure Brand aveva precisato in una lettera che ogni ora era importante, che ogni giorno che passava significava diecimila ebrei in meno. Come Brand sia riuscito a non perdere la ragione resterà per me uno degli enigmi della volontà capaci di sopravvivere alla propria dannazione.
L'atteggiamento di Weizmann non faceva che mettere in evidenza lo stato d'animo diffuso fra gli ebrei in Palestina, e da qui la sua gravità. La gente si comportava come se ciò che accadeva “lassù” non la riguardasse. Con un distacco stupefacente, incomprensibile. Inconsciamente dicevano a se stessi: di chi è la colpa? Avrebbero potuto venir qui da noi; avrebbero dovuto seguire il nostro esempio; hanno mancato di coraggio, d'idealismo: tanto peggio per loro.
Tale silenzio comprende anche la Palestina di allora, luogo di rifugio di tanti ebrei già scappati.
Il giovane poeta israeliano Haim Gouri ebbe un giorno la curiosità di esaminare negli archivi dei giornali di Tel Aviv le annate 1943-44. Fu un'esperienza sconvolgente. “Non capisco”, mi disse. “Se tu sapessi quali erano i problemi che allora ci occupavano, mentre in Europa... Elezioni comunali a Hedera o altrove: titoli in prima pagina. In un angolo sperduto della pagina un piccolo trafiletto di poche righe: I tedeschi hanno cominciato a sterminare gli ebrei del ghetto di Lublino, o di Lodz...”.
Non è colpa del popolo, ma dei suoi dirigenti. Non erano all'altezza. Davano prova di una sorprendente mancanza d'iniziativa, di maturità politica e di coraggio. Nahum Goldmann lo ha confessato recentemente, in occasione di una riunione a Ginevra del comitato esecutivo del Congresso mondiale ebraico. Le grandi organizzazioni ebraiche erano incapaci di superare le loro piccole questioni interne per realizzare un'azione comune. Per tutto il tempo che esistè, il comitato di emergenza per salvare il popolo ebraico fu boicottato da tutti i leader ebrei americani. Anche in questo caso avevano le loro ragioni, i loro motivi: niente alleanze con personaggi non ortodossi come Ben Hecht o Peter Bergson, niente collaborazione con il tale o il talaltro. Ma allora avrebbero potuto creare il loro proprio comitato di salvataggio in seno al quale tutti i partiti, tutte le organizzazioni sarebbero state rappresentate. Questo non è stato fatto.
E' per questo che non possiamo fare a meno di esprimere questa riflessione: per collocare il processo al suo giusto livello morale, quello della verità assoluta, il procuratore generale Gideon Hausner (o lo stesso primo ministro David Ben Gurion in qualità di testimone) avrebbe dovuto abbassare la testa e gridare a voce alta in modo da farsi udire da tre generazioni: “Prima di giudicare gli altri dobbiamo riconoscere i nostri errori, le nostre debolezze. Non abbiamo tentato l'impossibile, non abbiamo neanche esaurito il possibile”.
Desolante si impone la conclusione:
I grandi spiriti si erano addormentati, le sensibilità più fini si attenuavano, voci potenti tacevano. L'apatia generale aveva creato un clima propizio ai criminali che potevano agire con calma, efficacemente, senza fastidi né falsa vergogna.
Paradossalmente gli unici a provare sensi di colpa sono i reduci sopravvissuti:
Per una strana ironia del destino, soltanto i reduci, i sopravvissuti erano, e sono, coscienti della loro parte di responsabilità. Non si tratta di un'idea giansenista e il peccato originale li lascia freddi. L'idea che li domina è più concreta, più straziante. Fa parte del loro essere.
Perché non vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro uno: perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come bestiame?
... vivo, e quindi sono colpevole; se sono ancora qui è perché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto. In un mondo chiuso, questa certezza possiede una potenza distruttrice dagli effetti facilmente intuibili. Se vivere vuol dire accettare o generare l'ingiustizia, morire diverrà ben presto una promessa, una liberazione.
Il sistema del Lebensschein nei ghetti e della Selektion nei campi non mirava soltanto a decimare periodicamente la popolazione, ma anche a far si che ogni prigioniero dicesse a se stesso: quello avrei potuto essere io; sono la causa, forse la condizione della morte altrui.
Così il Lebensschein rappresentava una tortura morale, una prigione senza uscita. Una delle testimonianze più commoventi che abbia sentito al processo Eichmann fu quella di un uomo che era stato medico a Vilna. Sposato da poco, era riuscito a procurarsi un certificato di vita; lavorava in una fabbrica tedesca. In grado di salvare un parente stretto della sua famiglia, andò a trovare sua madre per chiederle consiglio: “Che fare, chi proteggere? Te o mia moglie?”. Obbligato a una scelta, l'uomo, divenuto strumento tangibile del destino, vivrà ormai in un cerchio infernale, soffocante; non potrà più pensare a se stesso senza rabbia, senza disgusto...
E' il numero che conta, la quota. Così, il prigioniero risparmiato, soprattutto in periodo di selezioni, non poteva reprimere uno spontaneo sentimento di gioia. Passato un momento, una settimana, un'eternità, questa gioia piena di ansia e di paura si trasforma in senso di colpa. Il sentimento di libertà, di essere stato risparmiato, equivale a confessare: sono contento che un altro se ne sia andato al mio posto. E' per non pensare a questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo di difesa, riuscivano a dimenticare così presto i loro compagni, i loro genitori selezionati. Per evitare gli sguardi, pieni di biasimo, che gli scomparsi avevano loro lanciato un'ultima volta...
Citiamo ancora un caso, anch'esso presentato in tribunale a Gerusalemme: quella donna che, nuda e ferita, riuscì a fuggire dalla fossa comune dove gli ebrei della sua città erano stati massacrati, e che dopo poco vi ritornò per unirsi a quella fantasmagorica comunità di cadaveri. Salvatasi miracolosamente, rifiutava la vita divenuta ai suoi occhi impura.
3/ Per una valutazione più globale dell’atteggiamento dei cristiani
Da La strada per Dachau dei cattolici tedeschi. Cronaca della persecuzione nazista, di Carlo Cardia [Chiese e nazismo], Il foglio del 13 giugno 2006
Il totalitarismo non è mai neutrale verso le Chiese e la religione. Le blandisce e le controlla, le intimidisce e le perseguita, per ottenerne il sostegno, come ha fatto il nazismo. Oppure cerca di distruggerle come ha fatto il comunismo, ma sempre alternando persecuzioni e concessioni, cercando di corromperle dall’interno. In entrambi i totalitarismi le vittime finiscono per subire gli schizzi di fango dei persecutori. Per compromissioni, vere o presunte, per non aver resistito a sufficienza, per aver cercato di salvare il salvabile. Questo è forse il capitolo più triste che si apre dopo la notte totalitaria, e sembra non finire mai.
La storia dei rapporti tra chiese e nazismo inizia ancor prima dell’ascesa al potere di Hitler ed è fatta di conflitti, di illusioni e accomodamenti, di guerra aperta e di martirio, di una molteplicità di eventi che non si presta ad un giudizio univoco.
Le chiese protestanti sin dall’inizio si dividono di fronte al nazismo, alcune subiscono il tentativo di corruzione del nuovo regime fin sulla soglia dell’antisemitismo, altre reagiscono, come fa la “Chiesa confessante”, altre ancora scelgono una via mediana di silenzio. Oggi può sembrare incredibile, ma si è discusso ad un certo momento se l’evento del nazionalsocialismo potesse iscriversi nel piano della salvezza divina e se la chiesa dovesse tener conto, oltre che della Bibbia, anche “dei nuovi atti compiuti da Dio nella rivoluzione nazionalsocialista”. Questo propone una organizzazione protestante, chiamata “Cristiano-tedeschi di Turingia” creata da due pastori nel 1927.
Hitler vuole inizialmente unificare le chiese evangeliche sotto la guida del “vescovo del Reich”, il fanatico filonazista Otto Müller, che le organizza gerarchicamente secondo il Führerprinzip. Dietro i fumi ideologici sta il tentativo di inglobare il nazismo e il germanesimo nella storia cristiana oppure, secondo il punto di vista, di assorbire il cristianesimo nel pangermanesimo paganeggiante. E c’è qualche compromissione più grave, perché nel settembre 1933 il sinodo generale dell’Unione prussiana delle chiese evangeliche delibera che non possono accedere alla carriera ecclesiastica i non ariani, o uomini coniugati con donne di origine non ariana (W. Benz, “Il razzismo antiebraico nel regime nazista”, in “Lager, totalitarismo, modernità”, Milano 2002, p. 16).
Müller non riesce a creare una organizzazione unitaria stabile del protestantesimo, anche perché un forte gruppo di dissidente, guidati da Martin Niemoller e dal giovane Dietrich Bonhoeffer dà vita alla “Chiesa confessante”, e alla fine le chiese evangeliche si dividono in tre gruppi. Quello guidato da Otto Müller, sempre più screditato, la chiesa confessante nella quale maturano idee e uomini della resistenza al regime, e in mezzo la corrente principale che segue una linea di autonomia e insieme di cooperazione. La chiesa confessante propone una linea di opposizione religiosa e nella Dichiarazione teologica di Barman del maggio 1934 afferma tra l’altro: “Respingiamo la falsa dottrina secondo cui la chiesa, accanto e oltre quest’unica parola (di Gesù Cristo), potrebbe e dovrebbe riconoscere, come fonte della sua predicazione, anche altri eventi e forze, figure e verità, in quanto rivelazione di Dio; respingiamo la falsa dottrina secondo cui ci sarebbero settori della nostra vita nei quali noi non apparterremmo a Gesù Cristo ma ad altri signori”.
Neanche la chiesa confessante riesce a mantenersi unita, a causa delle pressioni naziste sui singoli pastori, e per il consenso che il regime ottiene dopo i primi successi interni e internazionali. Nel 1938 la maggioranza dei suoi pastori firma una dichiarazione di lealtà al Führer. Karl Barth riconosce, dopo la guerra che “un grosso limite della chiesa confessante fu di non aver saputo solidarizzare come chiesa con gli ebrei votati allo sterminio, e di non aver denunciato e sconfessato - ad esempio nella Dichiarazione di Barman – l’antisemitismo e il razzismo, che di lì a poco avrebbero avuto gli effetti devastanti che tutti conosciamo” (P. Ricca, “Le chiese protestanti”, in “Storia del cristianesimo”, Bari 1997, p. 115).
Ma l’atteggiamento dei protestanti verso il regime non si esaurisce nelle posizioni ufficiali delle chiese. Già prima della guerra si hanno arresti e deportazioni, come quello del pastore Paul Schneider assassinato a Buchenwald. Un caso singolare è quello del pastore Niemöller, arrestato il 1° luglio 1937 per la sua predicazione antinazista ma condannato dal tribunale a pena lieve. Scontata la pena, è arrestato per ordine di Hitler e inviato come “prigioniero personale del Führer” nel campo di concentramento di Sachsenhausen da dove viene liberato miracolosamente nell’aprile del 1945. Più conosciuta la resistenza che, in campo religioso e politico, fa il teologo Dietrich Bonhoeffer. Arrestato il 5 aprile 1943 per disfattismo (in realtà per continua predicazione contro il nazismo), è impiccato l’8 aprile 1945 a Flossenbürg dopo che Hitler ordina di liquidare tutti gli oppositori che si trovano internati. Ma nei campi di concentramento sono deportati centinaia di pastori ed esponenti protestanti per attività contro il regime.
Più complesso, ma con alcune analogie, il rapporto tra cattolicesimo e nazismo, che segue una linea spezzata più drammatica. Verso la chiesa cattolica, istituzionalmente compatta, non avrebbe senso alcun tentativo di divisione o di scisma. Anzi, nell’agosto del 1932, la Conferenza episcopale tedesca riunita a Fulda dichiara illecita per i cattolici l’appartenenza al partito nazista.
Ma questa linea si sfalda già nel marzo del 1933 quando Hitler sta per vincere le elezioni politiche che porteranno alla liquidazione del regime democratico. E si estingue pochi mesi dopo quando viene concluso il Concordato con il Reich, di cui un Hitler “raggiante” può dare l’annuncio nel Consiglio dei ministri del 14 luglio. Il Concordato del 1933 serve a Hitler per uno scopo fondamentale, far fuori i cattolici dalla vita politica, e rinchiudere il clero in una dimensione soltanto pastorale. La chiesa ottiene molto poco dal Concordato, tranne la salvaguardia delle proprie organizzazioni. Ma solo in parte, perché il rapporto con il regime diviene presto di conflitto continuo. Si susseguono le condanne dei vescovi tedeschi, e del S. Ufficio, verso la deriva pagana e statocratica del nazismo, alle quali si contrappongono truculente risposte dei dirigente nazisti, in particolare di Alfred Rosenberg che irride alla debolezza e all’umanità del cristianesimo.
Dietro le condanne cattoliche e le dichiarazioni naziste è la realtà di un regime che militarizza la società, che chiude centinaia di scuole confessionali, controlla l’insegnamento religioso e la predicazione di vescovi e preti, rende obbligatoria nel 1936 l’iscrizione dei giovani alla Hitlerjugend con tutte le conseguenze che questa comporta.
Questa è una delle ragioni che limitano l’azione delle chiese tedesche, evangeliche e cattolica. Le quali si trovano pressate dai successi nazionalistici di Hitler, e assistono al dilagare del nazismo in tutti gli spazi sociali, a cominciare dall’educazione dei giovani, che vengono ingabbiati in strutture ed organizzazioni ispirate ai miti della forza e di un fumoso paganesimo. Il limite, se così si può dire, che frena le chiese, è quello di voler lottare soltanto per difendere sé stesse secondo i vecchi schemi dei rapporti istituzionali. Di non guardare oltre i propri confini, di non guardare agli altri.
Però la chiesa cattolica non ignora gli altri, e sfiora il conflitto totale con il regime quando Pio XI firma il 14 marzo 1937 l’enciclica “Mit Brennender Sorge” con la quale condanna la sostanza più intima del regime nazionalsocialista: “Chi eleva la razza, il popolo o una determinata sua forma, i rappresentanti del potere statale od altri elementi fondamentali della società umana a norma suprema di tutto, anche dei valori religiosi, perverte e falsa l’ordine delle cose create e volute da Dio”. Pio XI usa un tono quasi apocalittico quando denuncia “i nemici di Cristo, di ciò siamo sicuri, che vaneggiano sulla scomparsa della Chiesa”.
E quando prevede che “verrà il giorno in cui invece dei prematuri inni di trionfo dei nemici di Cristo, si eleverà al cielo dai cuori e dalle labbra dei fedeli il Te Deum: un Te Deum di ringraziamento all’Altissimo, un Te Deum di giubilo, perché il popolo tedesco, anche nei suoi membri erranti (…) piegherà di nuovo il ginocchio dinanzi al Re del tempo e dell’eternità”.
La rottura con il nazismo è confermata da Pio XI il quale sceglie di ritirarsi a Castel Gandolfo quando, nel maggio 1938, Hitler quasi all’apogeo della potenza e dell’alleanza con il fascismo italiano, viene in visita a Roma. Il Papa non vuole incontrarsi con lui, anche perché non vuole vedere Roma profanata da “un’altra croce (la svastica) che non è quella di Cristo”. Nell’Osservatore Romano del 2-3 maggio, si può leggere: “il Santo Padre non si è recato a Castel Gandolfo per piccola diplomazia, ma semplicemente perché l’aria di Castel Gandolfo gli fa bene, mentre questa gli fa male”.
Quando si comincia ad entrare nel tunnel della guerra, e delle infinite guerre scatenate da Hitler, tutto diventa più difficile per le Chiese per ragioni che non sempre sono comprese da chi guarda le cose dall’esterno. Per il fatto che il nazismo (come il fascismo) si presenta come baluardo contro il bolscevismo, e tocca una corda sensibile per protestanti e cattolici. E perché l’ondata patriottica che si scatena, come in tutte le guerre, frena ogni resistenza che verrebbe spazzata via con ogni brutalità.
Anche nella Chiesa cattolica si confrontano due linee, che attraversano trasversalmente l’episcopato. Quella più moderata che fa capo al cardinale Adolf Bertram, presidente della Conferenza episcopale, che segue la strada delle proteste ufficiali soltanto per ciò che riguarda i diritti della chiesa e la sua indipendenza; e che è sostenuta dal nunzio Cesare Orsenigo, figura non splendida della diplomazia pontificia. E quella più coraggiosa, che fa capo a Konrad von Preysing, vescovo di Berlino, e a Clemens von Galen, vescovo di Münster, che interviene su questioni relative ai diritti umani anche al di là della comunità cattolica.
Nel 1941, con due omelie del 13 luglio e del 7 agosto, Galen condanna apertamente lo sterminio di minorati psichici e fisici, che avviene da tempo in Germania sulla base del programma “eutanasiaco” stabilito da Hitler. L’effetto sull’opinione pubblica è molto forte, ed il programma si ferma, per la protesta di Galen e per quella di esponenti protestanti. Sempre nel 1941, Preysing, Galen, e altri vescovi, preparano un documento di condanna di diversi aspetti del nazismo, tra i quali la deportazione senza processo in campi di concentramento di migliaia di uomini e donne, e chiedono che venga approvato e reso pubblico dalla Conferenza episcopale. La richiesta non ottiene il consenso del presidente della Conferenza Bertram.
Anche per i cattolici, come per i protestanti, non si contano i sacerdoti che agiscono come veri resistenti al regime, e finiscono internati e giustiziati. Max Josef Metzger, arrestato nel 1943 è condannato a morte per la sua attività di pacifista e per aver avuto contatti “sediziosi” con il vescovo di Uppsala in Svezia. Il gesuita Hermann Wehrlesi sente domandare nel dicembre del 1943 da un ufficiale dello stato maggiore di Stauffenberg se l’essere a conoscenza di un piano per uccidere Hitler costituisca peccato. Wehrle risponde di no, ma dopo l’attentato ad Hitler del 20 luglio 1944 si viene a sapere dell’episodio ed il cappellano è condannato a morte per complicità (G. Lewy, “I nazisti e la Chiesa”, Milano 2002, p. 453-4). I gesuiti Augustinus Rosch e Alfred Delp appartengono al circolo di Kreisau, un gruppo di cospiratori sotto la guida del conte Helmuth von Molte. Dopo l’attentato del 20 luglio Delp viene arrestato e impiccato il 2 febbraio 1945. Poi, ci sono i nomi di grandi santi, tedeschi o no, internati e morti nei lager, Massimiliano Kolbe, Titus Brandsma, Edith Stein, i quali insieme a migliaia di sacerdoti scomparsi nei vari campi di sterminio infoltiscono la schiera dei resistenti cattolici.
In Germania, un posto d’onore spetta al prevosto di Berlino, Bernhard Lichtenberg, perché il giorno dopo la “notte dei cristalli”, mentre tutti tacciono, prega pubblicamente e dice: “Sappiamo quel che è avvenuto ieri, ma non sappiamo che cosa avverrà domani. Siamo testimoni di quanto avviene oggi; fuori (da questa chiesa) brucia la sinagoga, e anche la sinagoga è una casa di Dio”. Arrestato e condannato per abuso dal pulpito, Lichtenberg è nuovamente fermato dalla Gestapo e mandato a Dachau, ma muore nel viaggio prima di giungervi il 5 novembre 1943.
Dentro questo scenario di conflitto e di connivenza tra nazismo e chiese è la tragedia dello sterminio degli ebrei. Che non può essere trattato qui, perché si porta dietro ricerche storiografiche e polemiche infinite. Ma che non può essere nemmeno taciuto perché chiama in causa protestanti e cattolici in egual misura. Non si conoscevano nei dettagli i piani dello sterminio, e nemmeno i suoi effetti che appaiono in tutta la loro mostruosità dopo l’apertura dei campi. Ma nelle linee generali, e in tanti punti di attuazione, il programma nazista e le deportazioni di ebrei da ogni paese erano conosciuti. Su questo non c’è più ombra di dubbio.
Sono noti gli interventi di tante personalità, protestanti e cattoliche, per proteggere ebrei, e non ebrei, un po’ dovunque. È noto l’imponente programma umanitario posto in essere dalla chiesa cattolica, approvato, incoraggiato, spesso guidato personalmente da Pio XII, per salvare ebrei in tutti i paesi d’Europa, e il ruolo svolto da Angelo Roncalli dalla sua postazione di Istanbul. Sono conosciute le condanne di carattere generale espresse dallo stesso Pio XII come quella del radiomessaggio natalizio del 1942 nel quale il Papa ricorda “le centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”. Questa scelta è riassunta e difesa dallo stesso Pio XII nella Let. Ap.. “Sacro vigente anno” del 7 luglio 1952: “certamente abbiamo riprovato, come si doveva, qualsiasi iniquità e qualsiasi violazione di diritto, ma ciò facemmo in maniera da evitare con ogni diligenza tutto ciò che poteva divenire, sebbene ingiustamente, cagione di maggiori afflizioni per i popoli oppressi”.
Tutto ciò è noto. Però, quale sia la misura del giusto e del sufficiente in ciò che si è fatto non è dato sapere. Oggi è utopia chiedersi: e se cattolici e protestanti si fossero uniti insieme nella denuncia pubblica del martirio ebraico in Europa? Lasciamo, con il pensiero, che l’utopia penetri per un attimo nel passato. Con il pensiero si può forse dire che se Dio ha taciuto è anche perché molti uomini hanno parlato poco.
Ho sempre creduto, però, che dalla tragedia nazista sarebbe maturato almeno un risultato. Mai più il sostegno ad un dittatore, o ad un regime totalitario, mai più connivenze o complicità, da parte di nessuno. Ci ho creduto, e ci credo ancora. Però, dopo, ho visto che tanti alteri critici delle chiese, nella bufera nazista, di fronte ad altri totalitarismi, come quelli di Stalin o di Pol Pot, di Mao Tse-Tung o di Saddam Hussein, o nel Sudan, e di fronte ai loro stermini – di cui tutti sapevano e sanno tutto – utilizzano sottilissime argomentazioni ideologiche o storicistiche, per giustificare il proprio silenzio o la propria connivenza con il dittatore di turno. Credo ancora a quel “mai più”. Ma ho perso fiducia che si realizzi presto, e sono più attento alle denunce facili.
4/ Il bene nell’orrore
4.1/ Dante ad Auschwitz per conservarsi uomini
da Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1987, pp. 115-118.
Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest'ora già non è più un'ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.
… Chi è Dante. Che cosa è la Commedia: Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l'Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
[...] Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Ma cfr. anche le fughe da Auschwitz, le rivolte a Treblinka ed al crematorio 4 di Auschwitz, Janusz Korczak maestro del ghetto di Varsavia e coloro che sotterrarono i manoscritti nei crematori, ecc.
4.2/ Ad Auschwitz si pregava
Da E. Wiesel
Un sudore freddo mi copriva la fronte, ma gli dissi che non credevo che si bruciassero degli uomini nella nostra epoca, che l’umanità non l’avrebbe più tollerato…
- L’umanità? L’umanità non si interessa a noi. Oggi tutto è permesso, tutto è possibile, anche i forni crematori…
La voce gli si strozzava in gola.
- Papà, - gli dissi – se è così non voglio più aspettare. Mi butterò sui reticolati elettrici: meglio questo che agonizzare per ore tra le fiamme.
Lui non mi rispose. Piangeva. Il suo corpo era scosso da un tremito. Intorno a noi tutti piangevano. Qualcuno si mise a recitare il Kaddìsh, la preghiera dei morti. Non so se è già successo nella lunga storia del popolo ebraico che uomini recitino la preghiera dei morti per sé stessi.
- Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà… Che il Suo Nome sia ingrandito e santificato…- mormorava mio padre.
Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me.
Perché dovevo santificare il Suo Nome? L’eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo?
Continuammo a marciare. Ci avvicinavamo a poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale. Ancora venti passi. Se volevo darmi la morte, questo era il momento. La nostra colonna non aveva da fare che una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Ancora dieci passi. Otto. Sette. Marciavamo lentamente, come dietro ad un carro funebre, seguendo il nostro funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era là, vicinissima la fossa e le sue fiamme. Io raccoglievo tutte le mie forze residue per poter saltare fuori dalla fila e gettarmi sui reticolati. In fondo al mio cuore davo l’addio a mio padre, all’universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si presentavano sulle mie labbra: Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà… Che il Suo Nome sia elevato e santificato… Il mio cuore stava per scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte all’Angelo della morte…
No. A due passi dalla fossa ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca.
Y. Vainstein, The Cycle of the Jewish Year. A Study of the festivals and of Selections from the Liturgy, Jerusalem, 1980, p. 89.
«Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato».
da Diario clandestino (Dalla conversazione “Baracca 18” Lager di Beniaminovo–1944), di Giovanni Guareschi
Signora Germania
Signora Germania, tu mi hai messo tra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. E’ inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti.
Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. E’ inutile signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. E questo è ancora niente, signora Germania. Perché c’è anche una grande carta topografica al 25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina.
Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall’ira farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s’è visto s’è visto.
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te signora Germania.
4.3/ Lei cosa avrebbe fatto al mio posto? Giorgio Perlasca
Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli, Milano, 1993
Il libro di Deaglio racconta il salvataggio di circa 5000 ebrei ungheresi, compiuto da un italiano: Giorgio Perlasca.
La persecuzione degli ebrei ungheresi è ancora oggi pochissimo conosciuta. Eppure avvenne sotto gli occhi del mondo. Lo sterminio organizzato durò otto mesi, dal marzo del 1944 al gennaio del 1945, quando già Hitler aveva perso la guerra, nel corso dell'avanzata contemporanea dell'Armata Rossa da est e degli anglo-americani da ovest.
Fu uno sterminio annunciato, previsto e seguito in tutte le sue fasi dalle diplomazie e spesso anche, giorno dopo giorno, dalla stampa internazionale. Fu anche l'unico olocausto a rimanere interrotto a causa della precipitosa ritirata dell'esercito nazista; questo fece sì che Budapest rimanesse l'unica città dell'Europa centrale a non vedere i suoi ebrei completamente sterminati. Se decine di migliaia sopravvissero, lo si dovette al salvataggio compiuto da un piccolo gruppo di diplomatici di paesi neutrali, rimasto nella capitale nelle settimane finali dell'assedio.
Di tutta questa storia, il mondo ha sempre saputo pochissimo, tranne un nome, quello di Raul Wallenberg, il diplomatico svedese inviato del re di Svezia, con il compito di portare in salvo, con ampi mezzi finanziari, il più grande numero possibile di ebrei ungheresi. Ma più ancora che per la sua opera, il nome di Wallenberg divenne noto soprattutto perché egli sparì nei giorni dell'entrata a Budapest dell'esercito sovietico e sulla sua sorte continua ancora oggi, dopo mezzo secolo, un'incertezza che Mosca non ha completamente eliminato. Da due anni però si conosce un altro Wallenberg nello sconosciuto commerciante italiano Giorgio Perlasca.
I due non avrebbero potuto essere più diversi e più uguali: ricco e protetto il primo, con uno status speciale che gli permetteva di trattare con le SS e di offrire denari al posto di vite umane. Uomo solo e in fuga il secondo, che pagava di tasca propria il cibo alla borsa nera per mantenere in vita i suoi protetti. Si incontrarono diverse volte, in quei mesi.
“Alla stazione merci, per esempio,” ricorda Perlasca, “dove andavamo per cercare di strappare qualcuno dai treni. Era bravo, Wallenberg, ci dava l'anima. Lo incontrai anche nella legazione di Spagna negli ultimi giorni di assedio. Il 18 gennaio, quando erano già entrati i russi, ebbi la notizia certa che Wallenberg era in una casa della via Kiraly. Vi andai, ma mi dissero che era uscito. Credo che sia morto quel giorno, per una bomba o una pallottola vagante.”
In questo contesto si svolge l'incredibile storia di Giorgio Perlasca, fascista, reduce dalla guerra di Spagna. Nella Budapest del 1944, il console di Spagna fugge. Nella città regna il caos, non ci sono più collegamenti telefonici con la Spagna. Perlasca rischia il tutto per tutto e, approfittando del disordine e della sua conoscenza della lingua spagnola, veste i panni da nuovo Console di Spagna, comincia ad usare la macchina di rappresentanza e gli uffici dell'ambasciata.
Nelle proprietà extra-territoriali spagnole riesce a stipare fino a 5000 ebrei, molti altri ne aiuta insieme ai diplomatici delle altre nazioni.
Continua a difendere gli ebrei raccontando continue menzogne, protetto dalla sua reputazione di console. La bugia finale, la più clamorosa e decisiva la deve sostenere dinanzi ad Erno Vajna, nuovo ministro degli interni dell'Ungheria nazista. E' Perlasca stesso a raccontarla nel suo diario:
6 gennaio, sabato
... è incredibile come un uomo che appare distinto e gioviale possa essere in realtà un'anima così cattiva. Abbiamo parlato per due ore, tutto è così faticoso perché Vayna parla un tedesco peggiore del mio. Gli ho detto che era giunto il momento di arrendersi, che la resistenza non ha più senso e causa solo morti e distruzione della città. Gli ho detto che una immediata capitolazione obbligherebbe il vincitore a una maggiore comprensione e si potrebbe mettere fine all'azione delle bande di saccheggiatori. Ho cercato, a lungo, di fargli capire che la guerra è ormai perduta, che quello che sta avvenendo è insensato e vergognoso. Gli ho detto che il mondo non lo dimenticherà facilmente. Mi sono appellato al suo patriottismo e gli ho ribadito che insieme agli altri diplomatici sarei stato pronto a fare di tutto per facilitare il processo di resa.
Vayna mi ha risposto che non si parla di resa. La città secondo lui deve essere difesa fino all'ultimo uomo. Mi dice che una colonna tedesca proveniente da Esztergom sta per arrivare a Buda.
Allora ho cambiato argomento. Secondo Vayna gli ebrei sono pericolosi fuori dal ghetto perché potrebbero sabotare la resistenza. Gli ho spiegato che questo è impossibile perché sono tutti disarmati. Nel ghetto non ci sono più posti, mancano acqua, gas, cibo e medicine, ci sono migliaia di morti insepolti. Se si mette a tirare vento caldo ci sarà pericolo di epidemie. Gli ho anche detto che il comando tedesco ha dichiarato di non volersi intromettere e che pertanto la responsabilità di quello che sarebbe successo sarà soltanto sua.
Gli ho detto che l'incendio del ghetto con settantamila persone dentro sarebbe una malvagità che il mondo non potrà perdonare. “Lei conosce la malvagità degli ebrei” è stata la sua risposta. Gli ho detto che non volevo continuare su questo argomento e che la malvagità, secondo me, viene da tutt'altra parte.
Dopo due ore di colloquio Vayna aveva solo concesso che gli ebrei protetti dalla nostra ambasciata venissero sistemati fuori dal ghetto, ma nelle immediate vicinanze di questo. Gli ho detto che tutto ciò era insufficiente. Mi sono fatto coraggio e gli ho detto quanto segue:
“Signor Vayna, nella mia ultima lettera le ho scritto chiaramente che il governo spagnolo dovrà ricorrere alla ritorsione se i nostri protetti dovessero essere vittime del suo crudele trattamento. Se il governo spagnolo, entro il 10 gennaio, non riceverà una mia missiva rassicurante, avrà inizio la ritorsione. Sappia che in Spagna vivono tremila cittadini ungheresi e che il governo ha deciso di internarli e confiscare i loro beni qualora i suoi protetti qui a Budapest venissero molestati. La stessa cosa è pronta anche per gli ungheresi che vogliono recarsi in Paraguay e per i quali qui a Budapest sono stati rilasciati centocinquanta passaporti provvisori”. (Tutto questo era un bluff colossale. Credo che non ci fossero più di trecento ungheresi in Spagna).
Vayna mi rispose che non parlavo con un tono degno di un diplomatico. Gli ho detto che era la situazione che lo richiedeva. Allora lui mi ha chiesto che garanzia poteva avere che i cittadini ungheresi in Spagna non sarebbero stati disturbati. Gli ho risposto: “Signor Vayna, il popolo latino non ha mai perseguitato gli stranieri senza motivo. Se lei è d'accordo con le mie richieste, che sono legittime e umanitarie, non vedo perché mai i governi di Spagna e Paraguay dovrebbero infastidire i suoi compatrioti”.
La belva feroce si è calmata. Ho avuto l'impressione che cominciasse a capire quali sarebbero potute essere le conseguenze dei suoi atti.
Al suo ritorno in Italia, Perlasca viene presto dimenticato. Quando comincia a raccontare nessuno gli crede. Perciò smette di parlare dei fatti di allora.
E' strano che tutto questo mi succeda proprio adesso... E' strano perché io, quando tornai, la storia provai a raccontarla, ma sembrava che nessuno mi credesse. Probabilmente non interessava, o forse sembrava troppo enorme. Pensi che nemmeno mia moglie mi credeva.
Diviene famoso 40 anni dopo, perché alcuni ebrei ormai trapiantati in Israele, cominciano a cercarlo, per poterlo incontrare di nuovo. Viene invitato con tutti gli onori per l'intitolazione di uno degli alberi nel Viale dei giusti al suo nome, nel Memoriale di Yad Washem a Gerusalemme.
A Deaglio che gli domanda: “Perché lo ha fatto?”, risponde, con l'umiltà che caratterizza la sua persona:
“Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?”
Una di quelle domande pesanti in cui viene richiesta la complicità dell'interlocutore. Un quesito breve che supplica comprensione, fa balenare la fragilità e la debolezza umana, non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta. “Avevo paura, sono scappato...Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?” “Nessuno mi vedeva, l'ho fatto...Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?”
Ma il vecchio signore che me la poneva, non cercava comprensioni o scusanti. Al contrario, stava cercando di dirmi che tutti, nella maniera più naturale, avrebbero dovuto comportarsi come si era comportato lui...
Dunque signor Perlasca: perché lo fece?
“Perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di esser stato un eroe. Alla fin dei conti io ho avuto un'occasione e l'ho usata. Da noi c'è un proverbio che dice: l'occasione fa l'uomo ladro. Ebbene di me ha fatto un'altra cosa. Improvvisamente mi sono ritrovato ad essere un diplomatico, con tante persone che dipendevano da me. Che cosa avrei dovuto, fare secondo lei? Piuttosto penso che essere un falso diplomatico mi abbia aiutato, perché ho potuto fare delle cose che un diplomatico vero non farebbe. Eh... I diplomatici sono persone strane. Non è che siano proprio liberi di fare quello che vogliono. C'è l'etichetta, ci sono le formalità, le gerarchie, qualcuno a cui rispondere, la propria carriera. tante cose, tanti vincoli che io non avevo.”