[Israel Zoller, rabbino capo di Roma nel 1943-44]. Inascoltato e dimenticato come Cassandra, di Anna Foa
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Riprendiamo da La stampa del 29/10/2010 stralci di una delle relazioni tenute nel pomeriggio del 28 ottobre 2010 all’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere e Arti di Padova nell’ambito del convegno «Politiche di sopravvivenza alle persecuzioni. I responsabili delle comunità ebraiche di fronte allo sterminio nazista». La relazione è della storica Anna Foa e gli estratti sono stati scelti per La stampa da Marco Tosatti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/1/2015)
Il rabbino Israel Zolli nella sinagoga di Roma, il 31 luglio 1944.
La Città eterna è stata liberata dalle truppe alleate e Zolli,
accompagnato da un altro rabbino statunitense, legge un messaggio di ringraziamento
La Comunità ebraica romana arriva, come è noto, all’8 settembre 1943 e alla persecuzione nazifascista avendo nel ruolo di rabbino maggiore un galiziano, vissuto molti decenni a Trieste e reso apolide dalle leggi del 1938, Israel Zolli. Un grande studioso, allievo di Chaies al Collegio rabbinico di Firenze, di cui la storia controversa del periodo di cui stiamo parlando — con il suo passaggio alla clandestinità e poi la conversione al cattolicesimo nel dopoguerra — ha offuscato lo spessore culturale e religioso, lasciando dietro di sé una ferita non ancora sanata nella comunità romana che, quando ancora le ferite dell’occupazione non avevano nemmeno cominciato a cicatrizzarsi, ha visto il suo rabbino prendere il battesimo. In conflitto con Zolli troviamo, oltre a una notevole parte della comunità, che lo considerava estraneo alla sua mentalità e alla sua storia, soprattutto i dirigenti tanto della comunità romana che dell’Unione, Ugo Foà e Dante Almansi.
Il conflitto ha radici che risalgono già al periodo iniziale del rabbinato romano di Zolli, ma si acuisce dopo l’armistizio, quando Zolli propone di cessare le funzioni religiose, di distruggere le liste dei contribuenti e degli iscritti alla comunità, di stanziare fondi per i più poveri e di invitare tutti gli ebrei a lasciare le proprie abitazioni e a nascondersi.
Com’è noto, i dirigenti comunitari si oppongono con decisione a quello che vedono come un allarmismo eccessivo, frutto di paure personali, che rischiava di peggiorare i rapporti con l’esterno, cioè con le autorità fasciste e naziste. Essi continuano a confidare, fino alla mattina del 16 ottobre, nella rete di amicizie e relazioni consolidate con il regime negli anni precedenti e mai davvero rimesse in discussione nemmeno dalle leggi del 1938, senza rendersi conto della frattura qualitativa introdotta dall’occupazione della città a opera dei nazisti. Una scelta opposta a quella fatta dalla comunità di Ancona e da quella di Pisa, dove il presidente Pardo Roques aveva convinto il rabbino Hasdà a non officiare in occasione del Capodanno ebraico.
Quanto agli elenchi famosi dei contribuenti (o degli iscritti), sequestrati a Roma dai nazisti nel corso dei saccheggi degli uffici e delle biblioteche, c’è stata una forte e lunga polemica sul ruolo effettivo giocato nella razzia. Gabriele Rigano sta compiendo una mappatura degli indirizzi a cui i nazisti si recarono, non solo quelli dove arrestarono ebrei, ma anche quelli in cui non trovarono nessuno, per avere un’idea del loro effettivo uso (certamente furono incrociati con quelli della questura). Comunque, il solo fatto che fossero stati sequestrati, insieme alla notizia filtrata dalla questura che i nazisti erano in possesso degli elenchi della questura, spinge molti ebrei a scegliere di nascondersi. Fra essi, la moglie di Arminio Wachsberger, Regina Polacco, che vede di persona le schede in mano ai nazisti. Non si nasconderanno perché temono per la salute della figlia di cinque anni. Ma già il 16 settembre, cioè dieci giorni prima del sequestro romano, il presidente della comunità di Venezia, Giuseppe Jona, si era suicidato per timore che i nazisti lo costringessero a rivelare dove aveva nascosto gli elenchi comunitari.
Che Zolli vedesse con terrore l’arrivo delle truppe tedesche, è messo chiaramente in luce dalla documentazione. Bisogna però dire che il rabbino aveva già conoscenza, a quella data, della sorte riservata in Polonia agli ebrei, e in particolare della morte di due dei suoi fratelli, uno ad Auschwitz e uno nel ghetto di Lwov. Inoltre, la sua qualifica di apolide lo rendeva particolarmente esposto all’arresto e alla deportazione.
Ancora, egli aveva motivo di ritenere di essere nella lista nera nazista a causa delle sue prese di posizione antinaziste a Trieste. Con l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940, ricordiamolo, gli ebrei stranieri, molti dei quali ebrei italiani che avevano perduto la cittadinanza acquistata dopo il 1919, erano stati rinchiusi nei campi di internamento creatisi numerosissimi nel Sud e in Abruzzo, o nel migliore dei casi erano stati inviati al confino. Il rabbino David Wachsberger, ad esempio, era detenuto a Campagna, vicino a Salerno. Se Zolli è sfuggito a tale sorte grazie all’incarico assunto nel 1939 a Roma, resta comunque il primo a essere esposto all’arresto, come non manca di dichiarare più volte, e come sottolinea anche nell’ultima funzione che tiene prima di nascondersi con la famiglia. Scrive Michael Tagliacozzo: «Il 17 settembre al termine del servizio liturgico serale per l’entrata del sabato, tenne una breve allocuzione nell’Oratorio di rito spagnolo (…) Sapeva che in ogni comunità ebraica caduta sotto il giogo tedesco, il rabbino era sempre stato la prima vittima della persecuzione. Esternò il rammarico di essere costretto ad allontanarsi e benedì i fedeli raccomandandosi alle loro preghiere». Infatti, la sua casa è la prima a essere perquisita, già intorno alla fine di settembre. I nazisti sfondarono la porta perché il rabbino aveva già trovato rifugio altrove.
Del resto, in occasione dell’episodio dei cinquanta chili d’oro, non soltanto Zolli si reca, all’insaputa dell’analoga delegazione comunitaria, a chiedere al Papa aiuto nella raccolta, ma chiede anche ad Almansi, in una lettera che dopo la Liberazione questi negherà di aver ricevuto, di essere messo al primo posto tra gli ostaggi eventualmente richiesti dai nazisti. Evidentemente, più che la paura in sé, agisce nel suo comportamento in occasione della fuga il dispetto per avere il ruolo di una Cassandra inascoltata, per il rifiuto opposto alle sue ragionevoli richieste, che lo spingono a non condividere una sorte che profetizzava invano da tempo, ma a scegliere invece la fuga per sé e per i suoi cari.
Una fuga, che stranamente viene creduto nel dopoguerra essere stata in Vaticano: una sorta di leggenda diffamatoria priva di riscontro nella realtà — poiché Zolli si nascose prima nella casa vuota della famiglia Anav poi in una famiglia di antifascisti non ebrei, i Pierantoni, poi dai Falconieri, amici della figlia — ma che è stata ripetuta fino a tempi recentissimi nonostante le ricerche storiche ne abbiano provato l’infondatezza. Una fuga inoltre che dopo la guerra renderà ancora più aspro il conflitto con la comunità, che tenterà di deporlo sotto l’accusa di avere abbandonato il suo gregge nel pericolo. L’idea che gli ebrei romani fossero sotto la protezione del Papa e che quindi i nazisti non avrebbero potuto toccarli è un’altra illusione dura a morire. Wachsberger racconta che anche nella deportazione, quando si trovava con altri prigionieri a spalare le rovine del ghetto di Varsavia, la vista in lontananza di una veste talare suscitava negli italiani la speranza che si trattasse di un messo del Vaticano che si calava nell’inferno per liberarli. Per quanto mi riguarda, trovo storicamente convincente il quadro dell’assistenza agli ebrei di Roma tracciato da Andrea Riccardi nel suo libro L’inverno più lungo. Un’assistenza che non poteva non essere concordata con il Papa. Del resto, che gli ebrei romani si siano rivolti direttamente ai conventi nell’ora del pericolo immediato, la prima richiesta accolta precede il 16 ottobre, poi le porte si spalancano, è provato da mille testimonianze. Non toccherò il problema dibattuto e tuttora aperto di Pio XII perché esula da questo quadro. Quello che è interessante è che la percezione degli ebrei romani fosse quella di un cordone ombelicale non reciso con la Chiesa.
Non è certo il caso, qui, di riprendere le polemiche che, trentacinque anni fa, hanno accompagnato l’uscita del libro di Robert Katz, il giornalista e storico scomparso nei giorni scorsi, Sabato Nero, e che hanno coinvolto, in giudizi anche molto severi sulla dirigenza comunitaria, storici del livello di Michael Tagliacozzo, oltre a tutto diretto testimone della vicenda. È ora, credo, il tempo di ricostruire e distinguere, insomma fare storia. Ma ho la sensazione che questa vicenda, sostanzialmente la consegna di mille ebrei romani alla morte da parte della dirigenza comunitaria e dell’Unione, sia ancora un nodo irrisolto della memoria della comunità di Roma, tale da continuare a suscitare intorno a sé rimozioni, accuse, proiezioni, e da erigere a tutt’oggi una invalicabile barriera difensiva.