Nomi e luoghi del terrore: ecco chi ci minaccia, di Camille Eid
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Riprendiamo da Avvenire del l’11/1/2015 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2015)
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Dopo gli attentati di Parigi la minaccia terroristica in Europa diventa brutalmente più allarmante. Ad ammetterlo sono gli stessi dirigenti dei servizi segreti europei, che più di un attentato hanno sventato negli ultimi mesi, i quali confessano la propria incapacità di fermare 'tutte' le minacce. Da qui l’invito partito da più parti a rafforzare il coordinamento tra agenzie di sicurezza europee riguardo lo scambio di informazioni sui sospettati, oppure circa le procedure di estradizione. I compiti dei responsabili della sicurezza sono ardui. A cominciare dal monitoraggio della galassia jihadista e le sue complesse dinamiche interne.
Ormai, sia al-Qaeda di Ayman al-Zawahiri che il cosiddetto Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi dispongono di diramazioni nelle zone che rappresentano la maggiore fonte di preoccupazione per gli Stati europei, vale a dire la sponda Sud del Mediterraneo e l’Africa subsahariana. Le sigle diventano sempre più note: Aqmi, Aqpa, al-Shabaab, al-Nusra per il primo, Ansar al-Sharia, Bait al-Maqdis, Jund al-Khilafa e Abu Sayyaf per il secondo.
Secondo alcuni osservatori arabi il califfato sta attualmente progettando una propria 'espansione' in direzione dell’Algeria e dello Yemen, finora abbastanza 'leali' al capo di al-Qaeda. Ma il punto è un altro. Sebbene la maggior parte di questi gruppi si sia lasciata trascinare nella lotta serrata (ideologica e tattica sì, ma talvolta anche militare) che oppone i due poli del terrorismo di matrice islamica, questa lotta si gioca ancora parecchio sul piano della guerra contro i 'miscredenti'. In altre parole, la corsa alla pseudo legittimità islamista è diventata una competizione, a suon di attentati, su chi fa più male agli occidentali. Le carte in mano ad al-Baghdadi sembrano di gran lunga superiori, sia a livello dei fondi dispensati grazie al petrolio, sia a livello della propaganda.
L'asso rimane tuttavia l’alto numero di cittadini con passaporto europeo che hanno raggiunto i territori del califfato. Dalla metà del 2013 a oggi, la stima dei pendolari del jihad partiti dall’Europa sarebbe cresciuto da 500-1.000 persone a oltre tremila, tra cui un migliaio dalla Francia e 53 dall’Italia. Questi combattenti possono non solo muoversi liberamente entro i confini Schengen, ma anche (almeno in teoria) volare negli Stati Uniti o in altri Paesi terzi senza visto.
Diventa prioritario monitorare non solo i sospettati di reclutamento, ma anche gli spostamenti di chi fa ritorno in patria. La notizia del Financial Times secondo cui l’Is avrebbe giustiziato almeno cento combattenti stranieri che volevano tornare a casa induce a pensare che coloro che fanno ritorno in Europa siano stati mandati proprio per compiervi degli attentati. Difficile saperlo con certezza, ma la vigilanza rimane d’obbligo. Come pure il coordinamento con i Paesi che rimandano indietro gli aspiranti jihadisti.
Il ministro degli Esteri turco ha parlato di oltre mille stranieri provenienti da 75 nazioni differenti espulsi dal suo Paese negli ultimi due anni. Ma non è sempre così. È ancora vivo il ricordo della clamorosa gaffe che ha permesso, lo scorso settembre, a tre presunti jihadisti espulsi dalla Turchia di lasciare indisturbati l’aeroporto di Marsiglia mentre gli agenti francesi li attendevano all’aeroporto di Parigi. Un particolare motivo di preoccupazione per l’Italia e la Francia, il numero di tunisini che si uniscono all’Is, stimato tra i 3.000 e i 5.000 su 11 milioni di abitanti. Senza parlare di altre migliaia che sono state fermate dalle autorità locali. Segno di una radicalizzazione che sta invadendo anche Paesi tradizionalmente moderati.
Nel 2008 la Tunisia occupava la settima posizione per numero di jihadisti inviati in Iraq (solo 33) e la terza rispetto al numero di abitanti. Oggi, invece, è prima su ambo i fronti, battendo la stessa Arabia Saudita, considerata fino a poco tempo fa il maggior 'fornitore' di jihadisti. La ragione che sta dietro questo boom è principalmente la propaganda jihadista sui social network, che si sono rivelati un efficace strumento di reclutamento virtuale di giovani, e prima del contatto fisico che avviene solo sulla frontiera siriana. Quello del web assomiglia al gioco del gatto e il topo, dove l’account soppresso (sono migliaia) viene subito riaperto sotto un’altra identità.
La polizia d’Oltralpe ammette che i due terzi delle persone autoradicalizzate attraverso il web non erano conosciute dai servizi e che i casi riguardano sempre più delle ragazze. I network permettono non solo di dispensare consigli pratici sul come partire senza destare attenzione, ma anche di raggiungere i connazionali nella loro lingua madre, grazie al lavoro di jihadisti cresciuti in Europa che non esitano a minacciare, con appositi video, i propri Paesi d’origine in nome di un’ideologia letale.