Mentre condanna l’attentato a Charlie Hebdo, l’Arabia Saudita fa frustare il blogger liberale, di Valentina Colombo
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Valentina Colombo pubblicato il 10/1/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (11/1/2015)
Ieri venerdì 9 gennaio a Jedda davanti alla moschea al-Jafali al termine della preghiera del venerdì, Raif Badawi – trentenne blogger e attivista saudita– ha ricevuto la prima porzione della pena stabilita dal Tribunale di Jedda lo scorso maggio 2014 ovvero 100 frustate su un totale di mille che si vanno ad aggiungere alla reclusione per dieci anni, a una pena pecuniaria e a dieci anni di divieto di lasciare il paese una volta scontata la pena (nella foto sotto si vede il bus che lo trasportava alla moschea).
La prima lunga sentenza del Tribunale penale del distretto di Jedda, accusava Raif di avere «fondato il sito dei Liberali sauditi», di avere scritto e pubblicato sullo stesso sito, sul proprio blog, su Facebook e Twitter scritti propri e altrui recanti «offesa ai precetti islamici», per avere attaccato alcuni ulema e le istituzioni preposte a fare rispettare la sharia, quali la Commissione per la promozione del bene e il divieto del male ovvero la spietata polizia religiosa. Infine per avere con questi atti minato l’ordine pubblico.
Questo atto efferato avviene a poche ore di distanza dalla condanna ufficiale da parte del Regno Saudita dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, avviene a qualche mese di distanza dall’inclusione del movimento dei Fratelli musulmani sulla lista saudita delle organizzazioni terroristiche.
Se nella sentenza che riguarda Raif Badawi non si accenna al terrorismo, in Arabia Saudita si trovano in carcere in base alla legge anti-terrorismo: Walid Abu al-Kheir, l’avvocato di Raif Badawi, e due attiviste colte sul fatto mentre guidavano (laddove in Arabia Saudita le donne non possono guidare).
Tutto ciò merita una riflessione da parte dell’Occidente: nella lotta contro il terrorismo è credibile un partner che con l’ideologia wahhabita ha alimentato l’ideologia di Al Qaeda, che mette sullo stesso livello Fratelli musulmani, attivisti per i diritti umani e donne alla guida? La risposta è nella definizione di terrorismo fornita all’articolo 1 della legge anti-terrorismo saudita approvata il 16 dicembre 2013: «Qualsiasi atto criminale, conseguenza di un piano individuale o collettivo, diretto o indiretto, che miri ad attentare all’ordine pubblico dello Stato, o a fare vacillare la sicurezza della società o la stabilità dello Stato, o mettere a repentaglio l’unità nazionale o sospendere la legge fondamentale di governabilità e alcuni suoi articoli, o insultare la reputazione dello Stato o la sua posizione, o arrecare danno a una delle sue pubbliche funzioni […]».
Aveva ragione Raif Badawi quando nel 2007 dichiarò che l’unico scopo della monarchia saudita è quello di «reprimere le menti illuminate, mettendo in guardia la gente a non avvicinarsi a loro, accusandole di essere al soldo dei sionisti e degli occidentali che vogliono che la religione monoteista venga attaccata».
L’Occidente dovrebbe comprendere che per combattere il terrorismo islamico bisogna in primo luogo combattere le ideologie che lo alimentano, dallo Stato islamico all’Arabia Saudita.