Te Deum laudamus per quei placcaggi pesanti, di Annalisa Teggi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Annalisa Teggi pubblicato il 2/1/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/1/2015)
Come da tradizione, anche nel 2014 l’ultimo numero del settimanale Tempi è interamente dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso firmati da diverse personalità del panorama sociale, culturale e civile italiano e non solo. Nella rivista che resterà in edicola per due settimane a partire dal 31 dicembre, troverete, tra gli altri, i contributi di Angelo Scola, Asia Bibi, Louis Raphaël I Sako, Fausto Bertinotti, Luigi Amicone, Renato Farina, Mattia Feltri, Fred Perri, Aldo Trento, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Alessandra Kustermann, Mario Tuti. Pubblichiamo qui il “Te Deum” di Annalisa Teggi.
Da ottobre in poi è già buio quando accompagno i figli a rugby, verso le cinque del pomeriggio. Mi fermo a guardarli da bordo campo, anche se fa freddo, e il più delle volte lo prendo come un momento di riflessione a fine giornata per fare il punto su ciò che mi è accaduto. E quando è tempo di fare bilanci, il mio primo pensiero non è mai la gratitudine, ma i rimorsi. Non quelli che riguardano le occasioni perse o i traguardi prefissati che non ho raggiunto, ma quelli più amari dei miei tradimenti per nulla eroici. È un’amarezza che non ha niente di fruttuoso, non diventa la premessa di un buon esame di coscienza. È solo un morso che mi mette a tu per tu con la mia pesantezza. Quella pesantezza che sono poi capacissima di riversare su figli, marito, amici. Insofferente, prolissa, scontrosa, orgogliosa – eccomi.
Intanto loro, i bambini, corrono sul campo da rugby nella penombra: si buttano a terra nel fango e ridono. Li allena un giocatore della prima squadra, che li sovrasta come un robusto gigante. Grida loro: «Prima la palla, poi i piedi!», e m’immagino che gli angeli custodi siano fatti proprio così. Robuste voci che ci stanno accanto, anzi ci pressano, nelle nostre penombre, mentre noi sudiamo e ci arrabattiamo. E gridano: prima la palla e poi i piedi. Cioè: aggrappati a qualcosa e difendila, non preoccuparti se e come ti reggerai in piedi. Lo disse già a suo tempo, in forma diversa, Catone il Censore affermando: «Rem tene, verba sequentur». Se hai in mente lo scopo, le parole per esprimerlo verranno da sé.
Il rugbista e l’oratore fanno bene a ricordarmelo, perché il mio spontaneo senso di marcia di solito mi fa procedere al contrario: ci tengo a fare le mie solitarie corsette a testa alta, a mostrarmi atletica e bella nella corsa, e meno preoccupata di custodire come si deve ciò che ho per le mani. Invertendo i fattori, il risultato cambia. Pensando alle poche volte in cui, nei fatti quotidiani, ho avuto a cuore la «palla» e non le mie vanitose passeggiate, mi rendo conto che ho dato delle belle sdentate. È una regola base del rugby: cadere. E non è negativo, anzi. La sdentata ti dà una svegliata; è una botta di vita. Non sto parlando di gravi prove dolorose, perché non ne ho esperienza e posso solo osservarle a distanza, con un misto di commozione e stupore, sul volto degli amici: genitori che quest’anno hanno perso un figlio, amiche che hanno cominciato la chemioterapia o che hanno dovuto riprenderla, papà licenziati senza tanti convenevoli.
Nel rugby è la squadra che avanza
Sto parlando, invece, di ridicole umiliazioni, cose tanto spicciole e stupide che però sono il cammino di vita su cui mi sono trovata io. Ci sono stati tanti piccoli momenti in cui, alla sprovvista, ho dovuto difendere la palla, non curandomi dei piedi; e senza poter riflettere su come schivare, su come scegliere una traiettoria libera… Ecco, è arrivato l’impatto con l’avversario. Il placcaggio duro. Ad esempio, avrei voluto proprio essere brava e amorevole con mio padre, per aiutarlo a vincere una sua certa irritante testardaggine nel farsi aiutare. Ci ho provato e, onestamente, sembravo la sdolcinata figlia uscita da una qualche serie televisiva. Una volta messa alle strette, perché il metodo astratto della perfettina non funzionava, ho finito per dare il peggio di me; è venuta fuori quella mia parte insofferente, prolissa e scontrosa. Non ne sono affatto fiera, morsi e rimorsi mi hanno attanagliato. Ma so spiegarmi perché, anche in modo così maldestro, alla fine il gioco non si è fermato: perché la meta non è una conquista solitaria, ma di squadra. È un’altra regola base del rugby: passa la palla. Così, chi mi era accanto, ha portato avanti il gioco, mentre io ero a terra; e grazie a loro, ma anche grazie a quel mio modo scomposto eppure sincero di essere addolorata, mio padre alla fine si è fidato.
Il placcaggio, e le relative cadute, sono un buon segno: vuole dire che stai procedendo lì dove c’è l’attrito, lì dove c’è da spingere e infangarsi. I piedi ti porterebbero su traiettorie panoramiche e facili; la palla (ciò che hai a cuore) ti chiede di stare lì, dove l’abbraccio con l’avversario si fa duro.
Ed è proprio in quei momenti che non ci si deve dimenticare che è la palla a dover andare avanti, non il nostro egocentrico sforzo. Sì, io posso cadere; ma cadendo, posso passare la palla ai miei compagni. È solo l’orgoglio vanitoso a fissarsi sui rimorsi; in realtà, io devo ringraziare di quelle umili cadute che fanno guadagnare centimetri in avanti alla palla, e ringraziare della vista gioiosa che si ha da terra, vedendo la squadra che avanza. E non c’è da fissarsi troppo neppure sui chili di fango che si depositano addosso; perché anche per quello c’è il lavaggio giusto. Chiedere perdono.