«Orwell, mio padre, un vero cristiano», di Fabio Cavalera
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 4/4/2009 un articolo scritto da Fabio Cavalera. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (4/1/2015)
1/ «Orwell, mio padre, un vero cristiano», di Fabio Cavalera
OXFORD - «Sono cresciuto per pochi anni con un padre che era un genio, e a volte i geni sono noiosi o tristi, o forse solo difficili e sentimentalmente distaccati. Ma quel genio di mio padre, George Orwell, era proprio di un’altra specie». Richard Horatio Blair è un uomo di 65 anni, un ingegnere elegante che si è ritirato nel Warwickshire, e conserva un patrimonio di memoria affettiva e letteraria straordinario.
Questo tesoro di ricordi è rimasto per tanto tempo inaccessibile, almeno fino a che lui, Richard Horatio Blair, ha inventato un blog e ha cominciato a pubblicare una pagina al giorno del diario di George Orwell—«è un blog postumo che lo riporta in vita, che ci regala ancora la potenza del suo intelletto»—e successivamente ha pensato che fosse venuto il momento di raccontare a voce, per la prima volta, la storia del suo rapporto di figlio non naturale, ma amatissimo erede, con uno degli autori più importanti e innovativi della letteratura inglese: suo padre, appunto, George Orwell, alla cui penna e fantasia si devono La fattoria degli animali e 1984, il capolavoro di denuncia del totalitarismo col debutto del «Big Brother», personaggio-metafora, l’essere «infallibile e onnipotente» che non esiste, «un volto sui manifesti, una voce dai teleschermi », una creazione fantastica e terrorizzante che concentra «l’amore, la paura e il culto, gli stati emotivi».
Lo ha fatto — il passo di parlare del «padre geniale» — in un incontro pubblico nel pomeriggio di ieri in una sede prestigiosa qual è l’Università di Oxford, dopo avere superato la consegna del silenzio e dell’anonimato che non avrebbe mai creduto «di potere e volere superare». Richard Horatio aveva appena poche settimane, «credo non più di tre», nel giugno del 1944, ed era in un orfanotrofio, dove una signora lo aveva abbandonato «forse per la vergogna di essere stato io il frutto di una relazione clandestina».
Il piccolo ebbe la fortuna di trovare due nuovi genitori: la mamma Eileen e il papà, Eric Arthur Blair, che da ex membro della polizia imperiale indiana, essendo nato nel Bengala, si era definitivamente dedicato alla passione della scrittura, coltivata fin dall’adolescenza. Era stato spedito, Eric, in Birmania, che le truppe coloniali di Londra avevano appena conquistato, e ne era uscito sconvolto.
Confidò successivamente: «Quando nel 1927 rientrai in patria per una licenza, ero già parzialmente deciso ad abbandonare il mio lavoro e qualche boccata d’aria inglese mi risolse. Non sarei tornato per prendere parte a quell’ignominia». Eric Arthur Blair nel 1933, con il primo libro Senza un soldo a Parigi e a Londra, aveva cambiato il suo nome, diventando colui che il mondo intero avrebbe conosciuto e ammirato come George Orwell.
I due sposi, Eric e Eileen, non potevano avere figli e si erano convinti, uno con l’altro, a presentare una richiesta di adozione. Così Richard trovò casa e famiglia. Ma fu una felicità che sarebbe durata poco, perché Eileen morì presto di tumore e George Orwell la seguì nella sorte, aggredito dalla tubercolosi. «Era il 1950 e io avevo appena sei anni». Sembra difficile, quasi improbabile, che Richard Horatio Blair sia riuscito a conservare le immagini dell’infanzia, ma lo hanno aiutato le narrazioni degli amici e dei parenti, poi il fatto che «all’indomani della scomparsa di Eileen rimasi con il papà in un buio appartamento, dipinto tutto di marrone, nel Nord di Londra, e successivamente fui costretto a ritirarmi su un’isola scozzese, Jura, in una casa di campagna a una dozzina di miglia dal villaggio e dall’unico negozio, accompagnato da mio padre e da sua sorella Avril. Come puoi cancellarlo? Lui scriveva al mattino, poi gli piaceva fumare, il suo vizio. Andava a pesca e giocava con me. Aveva le sue ossessioni. Una era la libertà e lì, nella casa che aveva affittato, si sentiva completamente libero. L’altra era la paura che qualcuno gli rubasse le idee dei romanzi e degli articoli che scriveva per l’Observer. Paura associata all’ansia del fallimento.
Qui proprio nessuno avrebbe avuto il coraggio di arrivare. Non era ancora famoso come lo sarebbe diventato, però credo che ne avesse l’idea». George Orwell aveva alle spalle l’esperienza di volontario nelle file del Partito operaio di unificazione marxista nella guerra civile spagnola, era rimasto ferito alla gola dal colpo sparato da un cecchino franchista ed era tornato a Londra «deluso, avendo visto coi suoi occhi gli orrori del conflitto, ma, soprattutto, avendo avvertito il tradimento della causa da parte dei comunisti. Era un marxista che maturò una profonda avversione per il totalitarismo nazista e stalinista».
In Inghilterra proseguì la sua attività di saggista per diverse riviste della sinistra, intanto incubava le sue opere più significative. «La scintilla per La fattoria degli animali gli scattò osservando un cavallo da traino tenuto alle briglie da un ragazzino: lo colpivano la docilità e la passività degli animali di fronte all’atteggiamento tirannico degli uomini. Che cosa sarebbe accaduto se il cavallo si fosse ribellato? Questa era per lui una metafora. Anzi la metafora del dispotismo, della dittatura: la crudeltà di Hitler e di Stalin. Idea che approfondì e sviluppò in altri modi, sempre più geniali, in 1984, il cui manoscritto terminò proprio sull’isola di Jura».
George Orwell sapeva di essere vicino alla morte. Si era risposato nel 1949 con Sonia, forse per non lasciare solo quel bambino, Richard, che amava. «Fra dolori atroci riuscì a completare l’opera. Lottò disperatamente». Di George Orwell si è discusso tanto. E tutto o quasi si è svelato della sua straordinaria personalità e della sua intelligenza.
Forse un particolare è sfuggito. Richard Horatio Blair, il figlio adottivo, lo ha voluto sottolineare: «Orwell era un genio. Un genio che è stato associato all’ateismo. In verità era molto conservative sull’educazione religiosa». Con Richard lo fu in modo particolare. Questo segreto si svelò poche ore prima che Orwell spirasse: il 21 gennaio 1950 chiese un funerale in chiesa e la sepoltura in un campo nell’Oxfordshire. «Se ne andò contento».
2/ La dittatura moderna del comunismo e del nazismo peggiore di ogni violenza del passato (da G. Orwell, 1984)
«La prima cosa che devi capire è che qui non c'è posto per i martiri […] Nel Medioevo vi era l'Inquisizione. Un autentico fallimento. Dichiarò di voler sradicare l'eresia e finì per renderla immortale. Per ogni eretico bruciato sul rogo, ne sorgevano migliaia di altri […] Più tardi, nel XX secolo, vennero quelli che chiamavano totalitari: i nazisti in Germania e i comunisti in Russia. Nella lotta contro l'eresia, i russi furono anche più feroci dell'Inquisizione. Ritennero di aver imparato dagli errori del passato: erano convinti, per esempio, che non si dovessero assolutamente creare dei martiri. Pertanto, prima di sottoporre le proprie vittime a un processo pubblico, impegnavano ogni mezzo per distruggerne la dignità. Ne fiaccavano la resistenza con la tortura e l'isolamento, finché non si trasformavano in tanti esseri meschini e miserabili pronti a confessare qualsiasi cosa gli si mettesse in bocca […]
Noi non distruggiamo l'eretico per il fatto che ci resiste. Anzi, finché ci resiste non lo distruggiamo. Noi lo convertiamo, penetriamo nei suoi recessi mentali più nascosti, lo modelliamo da cima a fondo. Estinguiamo in lui tutto il male e tutte le illusioni, lo portiamo dalla nostra parte, anima e corpo, in conseguenza di una scelta sincera, non di mera apparenza. Prima di ucciderlo, ne facciamo uno di noi… Il comandamento dei dispotismi di una volta era: "Tu non devi!". Il comandamento dei totalitari era: "Tu devi!". Il nostro è: "Tu sei!"».