Veronica, una madre. Prima di tutto e per sempre, di Antonello Iapicca
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Riprendiamo dal sito I segni dei tempi un articolo di Antonello Iapicca pubblicato il 13/12/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (21/12/2014)
Sotto la Tua protezione ci rifugiamo, Santa Madre di Dio
Non respingere le preghiere che Ti innalziamo nelle necessità
Ma salvaci sempre da tutti i pericoli,
O Vergine Gloriosa e Benedetta
Quel volto e quello sguardo straziato, a me son bastati. Non mi interessano le carte processuali, le prove, i testimoni, i particolari, le accuse e la difesa. Men che meno i commenti e gli approfondimenti, quasi tutti stantii e rancidi di luoghi comuni. Non sanno e non possono andare oltre quel volto; scavano tra notizie intermittenti, spesso chiacchiere bisbigliate e truccate per l’occasione; la cronaca poi, è solo un bagliore tra mille notti, perché, comunque la si metta, il cuore di un uomo è un abisso e nessuno lo può comprendere. Mai.
Ma distinguerne i battiti sì che si può, e poi seguirne le orme aritmiche nei suoi percorsi tortuosi tra i labirinti del dolore. Dolore, perché di questo parliamo, comunque sia andata. L’orrore e l’indignazione sono solo la carta stagnola con cui, di norma, si avvolge l’indifferenza per non scottarsi con la realtà. Il dolore, quello vero, se non lo conosci dal di dentro, sprecherai pensieri e parole, inutili per aiutare e consolare, pura stoltezza contrabbandata come ragione sapiente per spiegare l’inspiegabile. Di amore, in questi casi, nessuna traccia.
Ma può succedere che ti sembri di riconoscerlo quel cuore, come quello che batteva accanto a te, mentre te ne stavi rintanato nel seno di tua madre, sperando di nascere un giorno. Si dice che i bambini soffrano nel dover nascere; non vorrebbero lasciare quell’antro sicuro dove non devono far altro che lasciarsi amare e nutrire. Solo quando si fa troppo piccolo e scomodo cominciano a spingere, rompono le acque, facendo capire di voler uscire. Ma a volte è vero il contrario. I feti, che sono persone, sentono tutto, eccome. Annusano anche il pericolo, soprattutto il dolore che dal cuore della madre sgorga ad avvelenare il liquido amniotico. Ci nuotano dentro, è uno tra i primi sapori che imparano a conoscere. Io quel sapore l’ho riconosciuto, e, vi assicuro, evapora limpido da quel volto stravolto di madre che ha perduto il suo bambino. Perché Veronica ha perduto suo figlio, ed è la verità, scomoda per qualcuno, ma incontestabile. E chi lo nega significa che non ha ancora compreso che cosa sia essere madre. Otto anni prima di oggi, lei lo ha raccolto nel suo grembo, era carne della sua carne, lo ha partorito, era, è e sarà sua madre. E questo è il punto. Questo viene prima di ogni altra considerazione, infinitamente prima di ciò che la giustizia stabilirà. Veronica è, semplicemente, madre.
Ma fermati, aspetta: e gli omicidi, i maltrattamenti, le violenze, gli abusi, gli omicidi di cui si macchiano alcune madri, che manca ancora per togliere a queste la patente di madre? Perché, mi puoi dire, madre non si è solo durante i nove mesi della gravidanza e durante il parto, lo si deve diventare ogni giorno. Invece no, madre lo si è sempre, anche se poi si arrivasse ad uccidere il figlio. Anche se questi fosse il frutto di uno stupro, o no? Non ne porterà per questo i lineamenti, il timbro di voce, il disegno degli occhi, il colore e la forma dei capelli, e qualche frammento della sua dolcezza e delle sue asperità? Come anche un embrione invisibile appena planato nel grembo porta già in sé i tratti che lo assomiglieranno a sua madre; sono lì, inequivocabili, anche se poi – il giorno dopo o tre mesi dopo – viene strappato da quel grembo.
Che significa tutto ciò? Che un caso, uno scherzo del destino, hanno deposto la vita nel grembo sbagliato, nel momento sbagliato e nel modo sbagliato? Madre si è comunque, quello che si diventa ogni giorno sorge dalla luce divina che illumina l’immensa dignità e responsabilità che la maternità significa. Senza questa luce che è lo Spirito Santo un altro ha buon gioco: il nemico di ogni madre che, ogni giorno, sui media, nei salotti e nelle aule parlamentari, demolisce la donna proprio nel suo essere madre. Come ha fatto con Eva, con più forza oggi perché sa, come ci ricorda l’Apocalisse, che gli resta poco tempo. E chissà che anche Veronica non sia usata sui media come un altro tragico spot per infangare ancora e più a fondo la maternità, in obbedienza al malthusianesimo di matrice demoniaca.
Per questo, non si può non tornare nel più intimo di una donna, di Veronica, dove ella è madre, a quell’istante in cui Dio l’ha scelta per accogliere Loris e dargli carne della sua carne, perché diventasse dimora dello Spirito Santo. Lei era lì quando Dio la rendeva madre per aprire, in lei, a quell’irripetibile suo figlio, il cammino sul mondo senza il quale non si giunge in Cielo. Come in quell’istante lo è ogni madre premurosa e attenta, come ogni madre che poi, in mille modi, ha fatto male a suo figlio, come addirittura ogni madre che lo ha ucciso, nel grembo o fuori. Come ogni madre che, per qualsiasi ragione, non ha tenuto suo figlio, e lo ha abbandonato.
Io sono stato uno di questi figli, tanti anni fa. L’ho fatta franca, non sono morto, ma ero anche io dentro il grembo di una madre gonfia di dolore. L’ho capito molto, moltissimo più tardi, e questo mi ha risuscitato. Perché sino a che mi raggiungesse una Luce che non nasce in questo mondo, ero morto anche io, soffocato dal dolore di mia madre. Sapete che cosa significa essere rifiutati dalla carne della tua carne? Significa annegare nel dolore, ma contemporaneamente essere costretti a viverci in quel dolore, che è tuo perché è quello di tua madre. Mentre, lentamente, un nemico subdolo e astuto, te lo colora con le tinte accese dell’ingiustizia. E’ una condanna a morte, trovarsi nel dolore e avere accanto, invisibile, un serpente che ti tortura delicatamente, accarezzando le ferite del tuo cuore; ti sembra quasi di provare sollievo, ti sta spiegando il perché, e sì, ti pare di capire. Invece te le sta graffiando, è un unguento velenoso quella ragione così logica e umana. Le sue parole che in te si fanno pensieri sono unghie di tigre affilatissimi, penetrano così a fondo nelle ferite che la senti quella menzogna posarsi come un macigno sul diaframma, schiacciandoti il cuore. E’ qui, infatti che il demonio voleva piantarti odio e rancore, padri funesti di rabbia e ribellione. Altro che sollievo, ne esci ogni giorno più debole, indifeso di fronte a qualsiasi sguardo indifferente, infinitamente piccolo davanti al minimo rimprovero. L’irrilevanza, il non essere accolti e accettati, è quella per te la fine del mondo, del tuo mondo. Ad altro fai la scorza, ma passare senza essere oggetto di attenzioni è un fiume di lava che prima ti brucia e poi ti pietrifica.
Non ti resta allora che scappare indossando maschere buone per ogni occasione, per non soffrire. Sei tu, ma sei morto; stai in mezzo alla gente ma sei un cadavere che cerca una tomba dove nascondersi. Ti guardi allo specchio, non ti sopporti, e allora prendi carta e matita e cominci a disegnarti come una caricatura da lanciare in orbita tra i sogni, sperando una casa per abitare in una galassia dove puoi essere un altro, amato, rispettato, ascoltato, voluto e accolto. Ma siccome non esiste in nessun angolo d’infinito, quando smetti di giocare con il videogame della tua vita ideale e ti infili in quella reale, cerchi braccia che attenuino, in un sogno infantile, il dolore che ti porti dentro. Cerchi in tutto e in tutti baci, carezze, parole, sorrisi, mendicando un fiotto d’affetto che ti sospinga un metro più avanti. E molto di te diventa peccato, spesso mortale. Cos’altro può generare un morto? Dolore, l’unico cibo di cui si alimenta chi ha perduto la vita. Il dolore di ogni madre, perché da quel giorno nell’Eden, è lui la cifra della maternità, conseguenza amara del peccato: “con dolore partorirai figli”.
E’ lo stesso dolore che ho riconosciuto sul volto di Veronica. Mi ci sono sentito tirato dentro, come risucchiato in quello sguardo. Era parte di me, della mia storia. Mi era familiare quel sentimento sordo che ti stordisce e disintegra in mille pezzi, e fai quel che non vorresti, e poi vorresti cancellare quel che hai fatto. E’ come esserci stato anche io nel suo grembo di madre. E ho amato in lei la mia, della quale non so nulla. Ma so la cosa più importante, che prima di abbandonarmi mi aveva accolto. E questo basta, e avanza. Cosa sia successo non è così importante, men che meno decisivo, checché ne dicano psichiatri, psicologi e maestri d’ogni sapere. Non è quella l’origine dei problemi, ma un’altra, comune a ogni madre e a ogni figlio, ed è il peccato. Quell’abbandono è stato solo un passo storto, un piede affondato nel fango del peccato, come ne ho posati io, a migliaia. Da dove, malvagio, sgorga il dolore. Il mio e quello di mia madre. Nel peccato mi ha perduto, nel peccato l’ho perduta, per lunghissimi anni. Tutti quelli che ho vissuto incatenato alla menzogna del demonio, che mi ha dipinto mia madre come un mostro, esattamente come sta accadendo a Veronica.
Non sappiamo che cosa sia accaduto, di certo non sapremo mai quello che è passato nell’intimo di chi ha fatto del male con “efferatezza” e tolto la vita al piccolo Loris, chiunque sia stato, ma il dolore arriverà. Come io non so che cosa abbia spinto mia madre a non potermi o volermi tenere. Forse qualcuno l’ha obbligata, forse i condizionamenti della società di cinquant’anni fa. O forse lo ha scelto. Il fatto è che, nonostante i pensieri e i consigli che l’avranno accerchiata, nonostante le paure e i dubbi, mi ha accolto in lei per nove mesi. Un’eternità, perché in quei nove mesi la carne di ogni uomo è plasmata e formata per risuscitare e vivere eternamente nella misericordia di Dio.
Non ci siamo mai visti, nulla ha saputo lei di me, nulla so io di lei. Ma ci conosciamo, come e forse più di chi con sua madre ha vissuto. Ci conosciamo profondamente, ci siamo visti al di là degli occhi della carne, parlati senza parole, e oggi ci amiamo nel più intimo di noi stessi. Nelle lacrime che abbiamo versato chissà quanti chilometri distanti, nella solitudine, nel dolore. Lo so che ha sofferto, l’ho sentito nella mia carne. Quel dolore che riaffiora sempre, anche in chi per esempio ha abortito, rivelando senza ombra di dubbio che una madre resta madre, legata a suo figlio indissolubilmente. Magari dopo dieci anni, ma lo piangerà di sicuro. Non era un grumo di cellule, era su figlio, anzi, per lei è ancora suo figlio. E in quel dolore potrà passare la Grazia del perdono, e il compimento di madre.
Eppure i sospetti, il fermo, le chiacchiere velenose raccolte morbosamente e rivendute senza il minimo rispetto, e tutto quello che potrebbe seguire, fosse anche lo svelamento della realtà più atroce, come in fondo anche una svolta imprevista di innocenza, tutto questo basta a seppellire, per sempre, l’identità di una madre. Ed è solo per tumulare la propria coscienza, strozzando i suoi ultimi vagiti; lo so bene per esperienza, nelle cronache e nelle voci appare la solita, l’unica exit strategy che offre il demonio per tenerci schiavi. La fuga dalla verità che impedisce la conversione, la sola che farebbe entrare il sole della Giustizia autentica, quella della Croce dinanzi alla quale tutti ci scopriamo peccatori bisognosi di misericordia.
Ma no, non è la giustizia che il mondo cerca, neanche quella umana perché non sazia la fame infinita che divora ogni uomo. Non la giustizia ma il giudizio, sì proprio quello riservato a Dio, l’unico, dai che lo sappiamo, capace di scagionarci e farci stare tranquilli. Niente di nuovo sotto il sole: sui media e nei cuori emerge chiaro il peccato di Adamo, l’orgoglio che prima lo illude di diventare come Dio per poter giudicare cosa sia bene e cosa sia male, e poi, preso in castagna con le proprie responsabilità, lo spinge ad accusare Eva, sposa e madre; e, come ogni uomo, in lei accusa tutti, la storia e i volti che vi si affacciano. Accusa per scusarsi, e così sbattere in faccia la porta al dolore. Il chiasso mediatico suscitato dall’omicidio del piccolo Loris e dal presunto coinvolgimento della madre, che rimbalza malvagio nei bar e nelle case, negli uffici e nelle scuole, nei bus e tra i banchi del mercato, dal parrucchiere e in fila alla posta, nasconde il tumulto che agita i cuori di tutti. Il fatto ci risuona dentro, volenti o nolenti, e ci ridesta il dolore, quel dolore a cui non abbiamo saputo dare risposta.
Ma dal grembo di Veronica si vedono le cose in tutt’altro modo. Dal suo essere madre, è tutta un’altra prospettiva Come l’amore di Dio mi ha concesso di vederle a poco a poco nella mia storia, in un lento cammino di fede. Anche io ero imprigionato tra nodi simili a quelli che stringono d’assedio Veronica e la sua famiglia, il suo paese e l’Italia intera. I nodi interiori che complicano maledettamente la vita; quelli che il demonio aveva provveduto a stringere e che solo l’annuncio del Vangelo ha potuto sciogliere. L’annuncio che ho ascoltato nella mia parrocchia, quindicenne apparentemente sereno, ma che nuotava, di nascosto, nel dolore: “Dio ti ama così come sei, ha consegnato suo Figlio alla Croce per te, per perdonare ogni tuo peccato e farti risorgere con Lui in una vita nuova”. Questo annuncio mi si è conficcato dentro, sgretolando a poco a poco la parete che mi separava dalla felicità, che è amare come si è amati. Perché smentiva la menzogna che aveva avvelenato di dolore la mia vita. Mille volte l’ho sperimentato vero nella Chiesa, Madre paziente e dolce, severa e attenta, che mi ha accolto sempre con amore. Schiumavo dolore intinto nei peccati, e in lei trovavo, sempre, la misericordia che mi rigenerava. Non un giudizio, non un rifiuto. E anche la verità sui miei peccati, sul mio cuore ammalato, era un balsamo perché mi giungeva sempre incastonata come un diamante nella roccia dell’amore gratuito e incondizionato di Dio.
In una comunità concreta, nell’ascolto della parola di Dio, la frequenza ai sacramenti, la comunione con fratelli simili a me nei quali potevo contemplare l’opera di Dio, e la guida sicura e buona della Chiesa, dei pastori e dei catechisti, avevo trovato la Madre da sempre desiderata e cercata. E così ritrovavo mia madre naturale, quella che avevo rinnegato, odiato, perduto. L’ho trovata scoprendomi io peccatore, io ingiusto, incapace di amare laddove il demonio mi mostrava solo rifiuto. Incapace di perdonare, perché avevo accettato, liberamente e al netto di ogni condizionamento, la sua menzogna. Come Adamo ed Eva, per questo esuli in una valle di lacrime. L’abbandono, il rifiuto, l’ingiustizia, la storia difficile? Tutte scuse per legittimare la “scelta armata”, parole come molotov prima, e gesti come mitra saettanti poi, per lottare contro le ingiustizie. Certo ho sofferto, eccome, ma il male vero, quello che fa fare il male, era dentro di me. Il dolore vero, inarrestabile e incontrollabile, veniva da lì, dal mio cuore, non dai fatti della mia storia. Non da mia madre. Perché anche lei era senza luce; come me e certo meno di me, era una peccatrice, debole, e ha fatto quello che poteva fare. Liberamente, sbagliando, come una peccatrice, ma madre, che mi ha amato con quel briciolo d’amore che aveva in quei momenti. Lì era presente, invisibile, la mano premurosa di Dio, che aveva saputo infilarsi in quel pertugio sottilissimo che lei gli aveva lasciato socchiuso. E ora sono qui, vivo, accolto a un anno da una famiglia meravigliosa, che purtroppo ho fatto molto soffrire a causa dei miei peccati.
Ma quando ho conosciuto e sperimentato l’amore di Dio che mi ha perdonato tutto, tutto è cambiato. In quel perdono ho perdonato e chiesto perdono a mia madre. Nel cuore, ovviamente, e da quel giorno non smetto di pregare per lei, perché possa sperimentare lo stesso amore che mi ha salvato. E ho compreso cosa significasse quella parola del Siracide che oggi illumina la mia storia, e la storia di ogni uomo: “Onora con tutto il cuore tuo padre e non dimenticare mai i dolori di tua madre. Ripensa che sei venuto alla vita per mezzo di lei; come potrai ricompensare quello ciò che ella ti ha fatto?” (Sir. 7,27s). Tutti soffriamo perché nel seno di nostra madre abbiamo bevuto il veleno amaro del peccato originale. Era necessario un antidoto, che riconsegnasse l’origine di ciascuno alla purezza nella quale Dio ci ha creati. Non è solo un dogma, è vita! Se il dolore del parto è il frutto amaro del peccato, allora la redenzione deve entrarci e trasfigurarlo. Se il dolore è lo scandalo che tutti ci allontana da Dio, è in esso che deve accadere qualcosa di straordinario che lo renda, invece, una porta alla speranza e alla gioia, la soglia sulla quale il Dio che abbiamo rifiutato ci viene incontro.
E’ proprio quello che ho sperimentato. Il dolore che ho portato dentro era la memoria di mia madre; più soffrivo, più era impossibile “dimenticarla”. Per molto tempo è stato un ricordo macchiato dal rancore. Eppure anche questo era lì a ricordarmi il grembo nel quale sono apparso nel mondo. Quando in esso ho incontrato l’amore che vi era entrato per abbracciarmi anche il ricordo si è rivestito di luce e gratitudine. Anche se mi avesse ucciso, sarebbe stato lo stesso, perché proprio nel dolore che mi aveva legato a lei indissolubilmente avevo incontrato Cristo! Cioè la vita, la gioia, il perdono, l’amore, tutto! No, non sto giustificando nulla, sto semplicemente guardando la storia dalla Croce sulla quale il Signore mi ha attirato. E da lì sopra ogni prospettiva umana è rovesciata. Se non ci sei mai salito, non puoi capire. Ma prima o poi tutti vi saliremo, abbracciati nel suo amore. E allora potremo guardare a nostra madre, all’origine della nostra vita con occhi diversi. E capiremo che no, anche se nostra madre ci ha abbandonato, se ci ha trascurato, se non è stata all’altezza dei nostri infiniti bisogni e desideri, non potremo mai ricompensare il dolore nel quale ci ha amato. Nonostante tutto non potremo amarla come lei ci ha amato. Potremo solo prendere il nostro dolore e deporlo nelle piaghe di Cristo perché sia Lui a ricompensare nostra madre e trasfigurare quell’origine nell’amore.
Non so se sia ancora viva, ma di due cose sono certo. Del dolore che l’ha consumata e che ha sicuramente sperimentato quando la coltre di menzogne del demonio si è andata diradando. E che in quel momento, come è accaduto a me, ha di certo incontrato lo stesso sguardo di misericordia di Dio stampato in suo Figlio. Non può essere diversamente, la mia storia, la riconciliazione con i miei genitori adottivi, immagine vividissima del perdono e del potere di Cristo, la vita meravigliosa con loro, il mio essere oggi prete e missionario sostenuto dalla madre che mi ha accolto che, dopo la morte di papà, è venuta in Giappone con me, tutto è frutto di quella misericordia, e me lo attesta in una certezza granitica.
Non diversa da quella che ho nel vedere il volto di Veronica. Etimologicamente il suo nome significa “portatrice di vittoria”; ma nella tradizione cristiana è il nome di colei che ha asciugato il volto di Cristo sanguinante mentre si dirigeva alla Croce. Veronica, “vera icona”, “vera immagine”. E’ dal suo nome che oggi si affaccia un raggio di luce e di speranza; dalla sua origine più antica dello stesso peccato originale, dal pensiero di Dio che ancor prima della creazione del mondo l’ha amata come una sua figlia che fosse icona somigliante a Lui, che oggi si fa strada lo splendore della bellezza in mezzo a tanta bruttezza. Solo la vittoria di Cristo sulla morte e il peccato può aprire i nostri occhi per riconoscere oggi, tra urla e indignazione, in Veronica la sua vera immagine, quella che il Padre ha impresso in lei da sempre. Immagine di madre, prima di tutto. Come ogni pecora smarrita è guardata e amata dal Pastore buono. Per essersi perduta, ai suoi occhi non ha smesso un istante d’essere parte delle cento del gregge, e per questo, ne sono certo, si è gettato alla sua ricerca. Come per quel padre silenzioso di fronte alla libertà, il figlio prodigo e peccatore è rimasto comunque il suo figlio amatissimo, anche in mezzo al letame dove era precipitato per cercare di sfamarsi. Così Veronica, è, semplicemente, una madre amata da Dio, al quale si è aperta, ed è stato forse uno dei miracoli più belli della sua vita, nel momento in cui ha accolto suo figlio nel grembo. Basta questo? Non sono Dio e non giudico il cuore. Ma so che per me è bastato, perché il mio sguardo sporco e adirato, è stato bagnato e mondato dalla Grazia che ho ricevuto nella Chiesa.
Solo essa, infatti, ha questi occhi puri per trapassare il male e il dolore e scorgere la brace divina che arde in ogni cuore sotto la cenere del male e del peccato. Gli occhi che ha avuto con me. Occhi di Madre, limpidi e misericordiosi come quelli della Vergine Maria. Solo Lei non ha sofferto dolori prima, durante e dopo il parto, perché solo Lei è stata preservata dal peccato, Immacolata nella sua concezione per essere libera di soffrire per amore con suo Figlio; con Lui sino in fondo, accompagnandolo nel dolore con la spada che le spaccava l’anima. Penetravano i chiodi nelle membra del Figlio mentre scendeva amara la lama laggiù, dove ardeva l’amore più puro. Su quella spada era scritto il dolore originale di ogni madre che concepisce nel peccato, per accoglierle tutte nel suo grembo di misericordia. Solo lì, al riparo del suo manto di misericordia, immersa nelle acque pure che hanno gestato il Puro Figlio di Dio, ogni madre può rinascere come Lei, Madre compiuta, per compiere se stessa nel dolore illuminato dall’amore. Per questo, in mezzo ai detriti che gli tsunami agitati dal demonio si lasciano dietro, solo Lei può attirare a sé ogni uomo, con lo stesso annuncio che le consegnò Gesù nel grembo. Anche Veronica, anche tutti quelli che, al colmo della rabbia, giudicano e vorrebbero vendetta, violenta e immediata, o nascosta sotto un paltò di giustizia. Solo nella Chiesa possiamo rinascere immacolati nell’Immacolata, “portatori di vittoria” su ogni morte e dolore, “vere icone” dell’amore che ha vinto anche il peccato più atroce. Solo nella Chiesa possiamo dare carne e spirito al pensiero di Dio su di noi, rinascendo a vita nuova nell’amore: spose e madri, sposi e padri, figli, sacerdoti, creature finalmente immagine somigliante del loro Creatore. Da qualsiasi inferno proveniamo.
Lo crediamo? Perché questa è l’unica, decisiva domanda che l’evento di Santa Croce Camerina ci pone. Crediamo che c’è speranza per ogni madre, per quelle che dentro di noi abbiamo deciso non lo siano più, e per quelle che per qualche lungo o breve momento hanno smesso di farlo? Crediamo che proprio il dolore che marca indelebilmente il loro essere madri, possa diventare, un giorno, la fessura socchiusa ad accogliere la Grazia? Crediamo che il Pastore buono oggi non ha occhi che per la pecora perduta nel dolore, teso chissà come un manto sulla realtà troppo dura da accettare, e che farà di tutto pur di ritrovarla e riportarla a casa? Crediamo che Dio ha il potere di cambiare il lutto, questo lutto così atroce come quello che ci portiamo tutti dentro, in gioia vera e piena? Crediamo che Colui che ha accolto tra le sue braccia la tenera vita di Loris, ha il potere di distenderle di nuovo e abbracciare nella misericordia Veronica, e trasfigurare nella sua risurrezione anche il dolore che la tormenta?