1/ Pakistan, le atrocità di una guerra perpetua, di Claudio Magris 2/ Non chiamateli “lupi solitari”, dietro gli attacchi un’unica ideologia, di Marek Halter 3/ Piccoli martiri della cultura, di Adriano Sofri 4/ La condanna da parte di Malala (breve nota) 5/ Il Nobel Ebadi: «La scuola fermerà il Califfato», di Eugenio Fatigante
Riprendiamo sul nostro sito alcuni commenti di differente impostazione sui tragici eccidi compiuti recentemente a Sidney ed in Pakistan per sostenere la riflessione e il dibattito.
Il Centro culturale Gli scritti (21/12/2104)
1/ Pakistan, le atrocità di una guerra perpetua, di Claudio Magris
Riprendiamo dal Corriere della sera del 17/12/2014 un articolo scritto da Claudio Magris. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (21/12/2014)
È ovvio, è incontenibile, è doveroso, è inutile anche se appassionatamente sincero gridare tutto l’orrore per questa inaudita bestialità e tutta la stravolta pietà per le vittime di una simile inumana barbarie.
È più difficile rispondere alla prima domanda di ogni politica, posta da molti famosi pamphlet , specie in una situazione abnorme come questa: che fare? Non siamo nella Terza Guerra Mondiale; questa è finita nel 1989 o nel 1991, con la vittoria dell’Occidente sul mondo sovietico e 45 milioni di morti, per nostra egoistica fortuna caduti in altre regioni della Terra.
Siamo in una Quarta Guerra Mondiale, in cui, a differenza dalle precedenti, non è sempre ben chiaro chi sia contro chi. Assad è un dichiarato nemico quando esercita le sue repressioni ma è quasi un alleato quando gli si chiede l’autorizzazione a lasciar passare gli aerei che si avviano a (modesti) interventi in altre regioni del Medio Oriente. La guerra in Afghanistan sta durando due volte e mezzo la Seconda Guerra Mondiale ed evidentemente non è stata ancora vinta e non è finita, se succede quello che è successo ieri.
Le guerre si possono fare o non fare, come si augura ogni persona ragionevole. Ma non si possono contemporaneamente fare e non fare, provocando vittime sempre tragiche e doppiamente inutili perché non giovano a risolvere alcun problema. Le guerre vanno evitate con ogni sforzo, ma ci sono situazioni in cui, come disse Churchill dopo il vile cedimento al Nazismo a Monaco nel 1938, nella scelta tra il disonore e la guerra si sceglie il disonore senza per questo evitare poco dopo la guerra.
Oggi, ipocritamente, non si dichiara più la guerra, nemmeno quando la si fa. Ma una guerra o si vince o si perde; essa non può essere, come è oggi, un incerto e interdetto stillicidio di vite umane che non risolve nulla e non elimina la tragedia della sofferenza e della morte. Il mondo è oggi un focolaio di guerre, di guerra.
Di chi, contro chi? Il progresso tecnologico permette oggi ad un pugno di disperati e ben preparati fanatici di mettere in difficoltà le grandi potenze, cosa mai avvenuta in passato. Le grandi potenze - a cominciare dalla più grande, dalla grande potenza per antonomasia, gli Stati Uniti - appaiono esitanti, impappinate. Non vogliono e forse non possono più esercitare il ruolo, un tempo brutalmente redditizio e ora ingrato, di guardiani del mondo, ma non sanno bene come rinunciarvi e neanche se proprio lo vogliono e nel frattempo si invischiano in pantani fatali.
La Quarta Guerra Mondiale è forse quella dell’Islam, o di un certo Islam contro tutti gli altri? Non lo credo, perché ritengo che il caos nel mondo sia oggi molto più complesso, ma l’incubo di tale scontro è innegabile. Lo aveva capito genialmente Giovanni Paolo II, che si oppose alla guerra contro l’Iraq non per ingenuo pacifismo né per bontà d’animo (la guerra in Jugoslavia non sembra averlo troppo turbato) né certo per simpatia verso feroci tiranni come Saddam Hussein, ma per una straordinaria visione storico-epocale, per la consapevolezza che il conflitto con il mondo islamico sarebbe stato foriero di ulteriori conflitti e squilibri sanguinosi e che la caduta di abietti regimi tirannici non avrebbe creato democrazie, ma altri totalitarismi, forse più pericolosi perché atomizzati e incontrollabili.
Una guerra la si vince o la si perde, non la si protrae in un indefinito sgocciolio di morte. Certe volte si vince dando all’avversario un buon colpo che tuttavia non lo distrugge, come la Prussia che nel 1870 batte la Francia prendendosi l’Alsazia e la Lorena ma senza mettere a terra il Paese. Altre volte la si vince solo annientando il nemico, come la Germania nazista rasa al suolo nel 1945.
Con i talebani o tanti altri loro cugini ferocemente rivali ma anche solidali non sembra possibile - a parte ogni considerazione umana e morale - né l’una né l’altra soluzione. E come se la Quarta Guerra Mondiale fosse veramente l’ultima guerra ma solo perché sembra che non finirà mai. E intanto, in questa stanca e febbrile violenza perpetua, continueranno ad accadere innominabili atrocità come quella di poche ore fa. È grottesco dire, tra qualche giorno, «Buon Natale».
2/ Non chiamateli “lupi solitari” dietro gli attacchi un’unica ideologia, di Marek Halter
Riprendiamo da La Repubblica del 16/12/2014 un articolo scritto da Marek Halter. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (21/12/2014)
I Lupi solitari della jihad non esistono. Il santone iraniano di Sydney, o l’attentatore che ha colpita a Anversa, o ancora il terrorista che ha sparato all’interno del Parlamento di Québec City dopo aver ammazzato un poliziotto canadese, non avevano ricevuto l’ordine di compiere i loro eccidi. Ma sono stati tutti, chi prima e chi poi, a farsi indottrinare da qualche imam radicale in Siria, in Iraq o altrove. Hanno percepito una visione universale della religione, e se ne sono impregnati. Poi, una volta tornati a casa loro, in piena coscienza e dopo aver pregato Allah e chiesto la sua benedizione, hanno preso l’iniziativa di compiere un atto che giustifichi l’ideologia alla quale aderiscono. Il jihadista è da solo quando agisce, ma fa sempre parte di una mandria, di un gruppo. Non ha bisogno di chiedere l’autorizzazione al “califfo” Abu Bakr Al Baghdadi, ma colpisce nel nome di un’ideologia che condivide con migliaia di musulmani estremisti.
Il problema è che per noi occidentali, o per noi democratici, non c’è più protezione assoluta. Sono scomparsi i nostri santuari: siamo ovunque bersagli dell’estremismo, oggi a Monaco di Baviera, domani a Lussemburgo o a Siviglia. Una volta esistevano degli antidoti: le nostre ideologie. Era la contrapposizione di una forza contro un’altra. Potevamo contare sui nostri vicini per fronteggiare assieme il nemico. Ma oggi l’Islam radicale è una religione mondiale. È dappertutto.
Che cosa possiamo fare per rimediare a questa situazione apparentemente disperata? La prima cosa consiste nell’infiltrare i gruppi del terrore per cercare di prevenire i loro misfatti. È un compito che spetta ai servizi segreti e alla polizia, che tuttavia non riusciranno a spaventare i fondamentalisti, perché chi pensa di aver Dio dalla sua parte ed è pronto alla morte, difficilmente ha paura. È comunque necessario acchiapparli per tempo e sbatterli in carcere per impedire che esercitino il loro desiderio di violenza. Per una società bene organizzata, questo compito è relativamente facile. In Francia è stata appena decapitata una rete di un predicatore che organizzava il viaggio di giovani francesi, la maggior parte dei quali appena convertiti all’Islam, in Siria e in Iraq.
La seconda cosa che andrebbe fatta è proporre a questi giovani un’alternativa: un’altra avventura. I nostri nonni e i nostri padri ne ebbero parecchie di avventure da vivere. Proprio come fanno oggi i jihadisti francesi o tunisini che vanno in Siria, mio nonno, ebreo di Varsavia, arrivò in Spagna nel 1936 dopo aver attraversato clandestinamente le frontiere di diversi Paesi. Ma il suo progetto era diverso: lui andava combattere contro i fascisti di Franco per solidarietà con gli spagnoli democratici. Oggi, per un giovane di una banlieue che ha voglia di partecipare a un avventura collettiva, la sola opportunità è la jihad, anche se spesso non sa neanche cosa sia l’Islam. Noi laici, pacifisti e universalisti non abbiamo nulla da proporre.
Nell’Islam non c’è contrapposizione tra un mondo in pace e un mondo in guerra, ma tra il mondo in guerra e il mondo islamico, nel senso che se tutti fossero musulmani non ci sarebbe guerra. La guerra tra musulmani, la cosiddetta fitna, è ferocemente condannata da Maometto, che la considera la più grande delle tragedie. Tra musulmani, dice il Profeta, non si deve combattere, perché hanno tutti la stessa concezione di Dio. A modo suo, questo concetto Al Baghdadi l’ha capito molto bene, e ciò spiega la differenza tra lui e Bin Laden. Il fondatore di Al Qaeda era un “terrorista all’antica”, che aveva messo in piedi una sorta di sistema mafioso, con gruppi di fondamentalisti a lui legati e sottomessi, e da lui finanziati e protetti. Con il “califfo” la figura del “padrino” è scomparsa: non è riconosciuto come un capo da tutti i terroristi islamici del pianeta, molti non sanno neanche chi è, altri lo combattono. Ma Al Baghdadi ha proposto un’ideologia vincente. Quella dell’eguaglianza assoluta.
Oggi, siamo in pericolo non perché ci siano troppi jihadisti, che sono pochi, ma perché manca chi vuole difendere la propria libertà. Il nostro mondo non è motivato. Non basta dire «non è bello » quando decapitano qualcuno. Non basta.
3/ Piccoli martiri della cultura, di Adriano Sofri
Riprendiamo da La Repubblica del 17/12/2014 un articolo scritto da Adriano Sofri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (21/12/2014)
In una delle immagini, genitori si accalcano all’ingresso della scuola, attorno a dei fogli alla parete, come farebbero per sapere se i figli siano stati promossi: ma cercano i nomi pregando di non trovarli in quella lista di morti. «Abbiamo scelto con cura il nostro obiettivo», ha spiegato il portavoce degli assassini, e non c’è dubbio che l’abbiano fatto.
Scolari che muoiono assassinati: non si può immaginare sacrilegio peggiore, né bersaglio più capace di illustrare gli assassini. Da noi i filmati offuscavano, con una correttezza questa volta stridente, le facce dei minori: grandi abbastanza per guadagnarsi un colpo alla nuca. Ieri le autorità del mondo intero hanno dovuto cercare le parole, e non potevano trovarle, nonostante il rincaro. «Uno dei giorni più bui del genere umano », ha detto l’indiano Kailash Sathiarty, che ha condiviso con Malala il Nobel.
Hollande ha condannato col superlativo di un superlativo: «La più estrema fermezza…». Perfino gli assassini hanno voluto simulare un’attenuazione della loro orrenda impresa: fra quegli scolari, hanno detto, c’erano i figli di alti ufficiali (la maggioranza degli alunni era comunque civile), e per di più agli esecutori era stato ordinato di risparmiare i più piccoli – censendoli per età? per altezza?…
Agli occhi degli analisti, e magari degli stessi assassini, la strage voleva colpire l’esercito pakistano, vendicare l’offensiva nel nord Waziristan, intimidire il governo, far salire i suoi autori nella classifica dei veri jihadisti. E gli scolari e i loro poveri maestri sarebbero stati gli ostaggi di queste magnanime cause.
Non è così. Non si spiega così l’assalto che, nella stessa provincia di cui Peshawar è capitale, ha portato alla chiusura di centinaia — un migliaio, secondo alcune fonti — di scuole pubbliche, colpevoli di accogliere bambine e ragazze, e di insegnare cose diverse dalla Sharia.
È indelebile nella memoria l’orrore di Beslan, che segnò il precipizio senza ritorno della resistenza cecena, e sparpagliò i suoi superstiti nei paradisi delle decapitazioni: ma a Beslan bambini e insegnanti furono ostaggi di una sfida mutuamente cinica e feroce, non bersaglio premeditato di una strage.
Ieri, gli assassini si sono impadroniti della scuola per uccidere il maggior numero di bambini, ragazzi e maestri, e immolarsi gloriosamente. Può darsi che abbiano ignorato il Nobel appena consegnato a Oslo, ma la loro ferocia di grossisti è dello stesso stampo che fece infierire contro la ragazza Malala, e ha gli stessi autori. A Beslan, gli scolari e le loro maestre erano ostaggio di una contesa che aveva ancora un’altra posta.
Ieri qualcuno avvertiva come negli stessi Stati Uniti non siano rare le sparatorie nelle scuole: orrende, ma sono un modo per saziare a mano armata vanità e frustrazione, magari di coetanei che si prendono per misconosciuti. A Peshawar gli scolari trucidati sono un mezzo di propaganda e intimidazione, ma sono al tempo stesso la posta della guerra talebana. Divisi fra famiglie tribali e affiliazioni terroriste, i Taliban mirano comunque a una società in cui l’istruzione sia messa al bando, e quella delle bambine soprattutto. Ci riuscirono già, quando le tortuose e losche peripezie del grande gioco misero l’Afganistan nelle loro mani, e scuole e canzoni e suonar di passi femminili sul selciato diventarono un peccato punito con le frustate e la morte: e là vogliono tornare.
A questo traguardo non riconoscono frontiere, e il jihadismo pashtun passa a turno dall’Afghanistan al Pakistan, da al Qaeda all’Is, diviso ferocemente fra le sue fazioni, comunque unito nell’odio per la libertà civile, di cui le scuole sono il nido. Corruzione e violenza dei governi, degli eserciti, dei servizi di intelligenza e di provocazione, come in Pakistan, uno Stato senza diritto e con l’atomica, non sono un’attenuante per quell’odio.
E varrà la pena di ricordare un’ennesima volta che i nemici delle bambine e delle scuole sono un’internazionale, intollerante di ogni libertà religiosa e di pensiero, pronta a bruciare vivi due ragazzi cristiani o a condannare a morte una ragazza che si rifiuta di abiurare, ma altrettanto accanita contro musulmani. Erano musulmani i 145 ammazzati, della scuola di Peshawar, lo sono i 200 feriti. E’ musulmana Malala. Sono musulmani, a decine, insegnanti i più, gli assassinati perché eseguono la vaccinazione contro la poliomielite, su mandato Taliban.
Scuole e moschee sono bersagli prediletti. Tre settimane fa, l’attentato suicida alla moschea di Kano, la prima città della Nigeria del nord, aveva fatto lo stesso numero di vittime della scuola di Peshawar, in odio a un emiro, Sanusi Lamido Sanusi, già governatore della banca centrale nigeriana inviso al governo per la sua indipendenza, e autore di un appello alla popolazione del nordest nigeriano a prendere le armi per opporsi a Boko Haram, contro la viltà della forza pubblica. Il 10 novembre scorso, a Potiskum, nello stato di Yobe, Nigeria del nord, un attentato suicida ha fatto almeno 50 morti fra gli alunni musulmani all’inizio delle lezioni. Pochi giorni prima era toccato all’università di Kano. E così, lungo una scia di violenze cui la nostra informazione stenta a tener dietro, e un po’ ne ha paura.
Peccato, perché quando dal Pakistan alla Nigeria (hanno molto in comune, questi due Stati giganteschi e invalidi), dallo Yemen al califfato, si denuncia l’istruzione, la scuola aperta a tutti, la libertà delle bambine, come il peccato dell’Occidente, si fa all’occidente, difettoso com’è, con la sua brava minuscola, il più prezioso dei riconoscimenti. Ah, saperlo meritare.
4/ La condanna da parte di Malala (breve nota)
I talebani pakistani che hanno rivendicato la strage di bambini nella scuola pubblica militare di Peshawar appartengono alla stessa organizzazione responsabile del tentato omicidio di Malala Yousafzai, la 17enne poi eletta premio Nobel per la Pace.
Si tratta del TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan), un’organizzazione-ombrello che raccoglie una ventina di gruppi estremisti, radicata nelle aree tribali del Pakistan lungo il confine nord-occidentale con l’Afghanistan. Il TTP rappresenta una coalizione eterogenea di gruppi jihadisti che ha ucciso migliaia di pachistani dall'inizio del 2007 nella sua jihad (guerra santa) contro il governo, accusato di essere alleato degli Usa nella regione.
"Ho il cuore spezzato per questo atto di terrorismo insensato, compiuto a sangue freddo a Peshawar", e "condanno questi atti atroci e codardi, sostengo il governo e le forze armate del Pakistan i cui sforzi per affrontare questo evento orribile sono lodevoli", ha detto la giovanissima premio Nobel per la Pace. "Io, tra i milioni di persone in tutto il mondo, piango questi bambini, miei fratelli e sorelle. Ma non saremo mai sconfitti", ha dichiarato.
5/ Il Nobel Ebadi: «La scuola fermerà il Califfato», di Eugenio Fatigante
Riprendiamo da Avvenire del 14/12/2014 un’intervista di Eugenio Fatigante a Shirin Ebadi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/12/2014)
C’era un giudice (donna) a Teheran. Ora quel giudice sta seduto, in un tailleur con pantaloni, in uno dei saloni del Campidoglio. Parla in farsi, simbolo di una civiltà millenaria, l’iraniana Shirin Ebadi, 66 anni, gli ultimi 5 vissuti in esilio e sotto scorta fra Londra e gli Usa. Giunta nella Città Eterna per il summit dei premi Nobel per la Pace che si chiude oggi (lei lo è stata nel 2003), analizza i sempre 'caldi' dossier mediorientali: «L’Iran continua ad avere i suoi problemi, ma la vera emergenza di questa fase storica è l’Is. Non dobbiamo dimenticarci che l’Is non è solo un gruppo terroristico, ma è un’ideologia. E l’ideologia non la si combatte con le bombe. L’esperienza con i taleban lo dimostra».
Stiamo sbagliando tutto, insomma?
Sì, l’Occidente sta sbagliando metodo. L’Is è un manipolo di fondamentalisti e per combattere il fondamentalismo bisogna aggredirne le cause alla radice, che sono sostanzialmente due: l’analfabetismo e la mancanza di giustizia sociale. I Paesi occidentali stanno spendendo moltissimo denaro in bombe. Invece dovrebbero bombardare con dei libri.
Bello slogan. Ma è difficile, di questi tempi, esportare cultura da quelle parti, non trova?
Noto però che tante imprese occidentali continuano a lavorare in territori difficili, per motivi di business. Qualcosa si potrebbe tentare allora anche per finanziare delle scuole... E poi ci sono gli errori del passato: l’Occidente deve capire che i dittatori vanno combattuti sempre e a ogni condizione. Non esistono dittatori da «tenersi buoni», per motivi geopolitici o magari economici. Sono loro che creano quelle sperequazioni fra ricchi e poveri dalle quali deriva l’ingiustizia sociale che finisce per far attecchire il fondamentalismo.
È preoccupata per la Siria?
Oggi la Siria rappresenta qualcosa di molto doloroso: oltre 2 milioni di persone hanno perso casa, i bambini non vanno più a scuola. All’inizio era una rivolta pacifica contro al-Assad. Purtroppo il governo iraniano ha sostenuto quel regime. Si è venuto a creare un vuoto prontamente occupato dall’Is, che sta riuscendo ad attirare molte persone. Come si può fermare questo processo?Dobbiamo intaccare la loro capacità di reclutare gente. E per far questo dobbiamo trasmettere loro ideali più sani, giusti. Per l’Is tutto è compatibile con l’islam. I musulmani moderni devono dimostrare che non è così, che esistono varie interpretazioni dell’islam, che si può essere musulmani e rispettare i diritti umani, e trattare le donne come gli uomini.
Vedo che insiste molto sull’istruzione.
Certo. Si è mai chiesto cos’è che temono di più i grandi fondamentalismi, che ci sono stati in tutte le culture e civiltà? Non sono i raid aerei, non sono i soldati, ma è l’istruzione. Per questo vietano di andare a scuola, per questo spararono a Malala nel 2012. Loro temono la consapevolezza della gente, l’apertura delle menti, la conoscenza che è la vera forza capace di cambiare il mondo. Per questo dobbiamo cambiare metodo.
Ha citato Malala. Cosa pensa delle vicende di altre due donne, Meriam e Asia Bibi?
Resto interdetta da tutti i crimini che si commettono in nome della religione. Derivano da un’interpretazione sbagliata della sharia. Per questo la religione va separata dallo Stato.
Lei di queste interpretazioni è stata vittima. Eppure il popolo festeggiò la cacciata dello Scià nel 1979.
Sì, eravamo felici. Ma avevamo sbagliato. Già 6 settimane dopo, l’8 marzo, le autorità diedero l’ordine che tutte le dipendenti pubbliche dovevano coprire la testa col foulard. Poco dopo fui rimossa dal tribunale.
E cosa vede all’orizzonte della sua vita?
Tornare un giorno a Teheran e aprire un ufficio da «avvocato dei diritti umani». Magari vicino al tribunale dove lavoravo.